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So che la medicina del futuro consentirà ai moribondi lunghe e complesse conversazioni con i tumori che li uccideranno, quando la medicina farà un passo fondamentale che oggi è quasi inimmaginabile; quando la medicina si accorgerà che il corpo è un tempio, una costruzione spirituale delle origini del cosmo, quando alla fine la medicina sarà intelligente. La medicina non è ancora intelligente, è ancora semplice pratica, semplice constatazione di fatti. Deve scoprire la bellezza e l’eterogeneità immateriale di un tumore maligno, perché anche in un tumore maligno c’è la volontà di vita del corpo dell’uomo che lo porta dentro.

È questo il motivo per cui mio padre scelse il silenzio. Non c’era nulla da dire. La medicina era vuota, la religione non era mai esistita, e lui aveva già abbandonato la sua auto. Gli esseri umani erano già nell’invisibilità, non aveva nulla da dirci.

Non mi disse nulla.

Non mi disse «addio».

Non mi disse «ti voglio bene».

Non mi disse «ti ho voluto bene».

Perciò tacque.

E in quel silenzio c’erano tutte le parole. Come in un boomerang metafisico, nel suo silenzio ardevano le stelle dipinte delle pareti del guardaroba. Ero io allora a cercare dalla stanza dell’ospedale in cui mio padre era prostrato un luogo dove nascondermi, e quel luogo era il guardaroba con la sua piccola parete tappezzata di stelle.

Il guardaroba fu il nostro aleph, l’aleph del ceto medio-basso spagnolo sorto dal dopoguerra. I guardaroba furono il nostro rifugio speculativo.