Il giorno dopo la morte di mio padre, cioè il 18 dicembre 2005, l’oncologa mi volle vedere. Entrai nel suo studio. Era seduta su una sedia e guardava il computer. Era una mattinata con addobbi, con le feste di Natale che bussavano già alle porte. Mi chiese scusa. Disse che sentiva di essere stata sgradevole con me il giorno prima del decesso di mio padre. Usò la parola «decesso», parola che io detesto. Stavo per dire: «Parola che la morte e io detestiamo». Ascoltai le sue scuse. Parlava, però per me parlava da una lontananza, come se anche lei fosse morta, o deceduta. La forza della morte di mio padre la stava uccidendo, stava travolgendo anche lei, come se mio padre fosse un assassino.
Credo di aver detto soltanto arrivederci a quell’oncologa, che sarà ancora viva e starà sicuramente esercitando in qualche ospedale di provincia, ormai legata e vincolata a qualche dozzina di morti, che saranno sempre accanto a lei.
E nelle feste di Natale del 2005 non so quali doni spettrali ci passò per la testa di comprare. Le pubblicità alla tele, l’oncologa che mi diceva parole senza suono, mio padre morto, mia madre che voleva comprare un prosciutto di bellota, perché mia madre stava perdendo la testa, non capiva nulla, non sapeva cos’era successo, voleva fare gli acquisti di Natale come se tutto continuasse come prima, e in fondo tutto continuava come prima, mia madre non capiva perché all’improvviso dovesse rinunciare alle quattro stupidaggini che la rendevano un po’ felice, come le quattro cose che comprava per Natale.
In Spagna, quanto più si è poveri più si ama il Natale.