Mi chiamarono al cellulare alle tre di notte. Era il medico legale. Mi disse che non avevo dichiarato il pacemaker di mio padre. Come se dovessi dichiarare una cosa del genere. Bel figlio di puttana che mi stava chiamando, sembrava il funzionario dell’ufficio del registro dei morti. Non sapevo che ci fossero funzionari dell’ufficio del registro dei morti, credevo che esistessero soltanto i funzionari dell’ufficio del registro immobiliare.
Con il pacemaker non si poteva fare la cremazione, disse irritato.
Dovevo firmare un documento che autorizzava l’estrazione del pacemaker dal corpo di mio padre. Insomma, dovevano fargli l’autopsia, vale a dire altri trecento euro.
Nel capitalismo, quando in qualunque attività commerciale ti dicono due parole in più vuol dire che c’è qualche problema, in pratica che il conto aumenta. Il commercio con i morti mette in imbarazzo, però i morti esigono lavoro, e il lavoro va retribuito. Il problema è il prezzo. È stupefacente la capacità del capitalismo di trasformare qualunque cosa in una quantità di denaro, in un prezzo. La conversione in un prezzo di tutto ciò che esiste è presenza della poesia, perché la poesia è precisione, come il capitalismo. La poesia e il capitalismo sono la stessa cosa.
Il giorno dopo firmai l’autorizzazione. Chiesi di poter tenere il pacemaker, ma nessuno mi ascoltò. Pensarono che fossi sconvolto dal dolore. Però mi sarebbe piaciuto tenermi qualcosa che era stata nel corpo di mio padre, nella sua carne. Immagino che abbiano lavato o disinfettato il pacemaker e l’abbiano impiantato a qualcun altro. O forse non lo hanno lavato e glielo hanno impiantato così com’era, con residui organici di mio padre appiccicati alla plastica. Sicuramente quel pacemaker sta marcando i passi di qualche altro disgraziato, che se ne andrà in giro felice e contento, con la batteria dentro.
La batteria che passa di corpo in corpo nella notte del mondo.
Poi ho sentito la presenza di mio padre dovunque, come se l’elettricità di quel pacemaker riattivasse il sangue scomparso. La sto sentendo anche in questo momento.
Mio padre si trasformò in elettricità, e in nube, e in uccello, e in canzone, e in arancia, e in mandarino, e in anguria, e in albero, e in autostrada, e in terra, e in acqua.
E lo vedo ogni volta che voglio vedermi.
La sua alta risata che cade sopra il mondo.
La sua voglia di trasformare il mondo in fumo e cenere. Sono così i fantasmi: sono forze e forme della vita precedente alla nostra, che è lì, coronata, affinata.
Mio padre è come una torre piena di cadaveri. Spesso lo sento alle mie spalle quando mi guardo allo specchio.
Questo sei tu adesso, dice mio padre, e poi c’è un gran silenzio.
Dice soltanto quattro parole.
Adesso tu sei «quell’uomo», o, molto meglio, «quel pover’uomo».
Questo sei tu adesso.
Dalla sua morte passo alla mia, all’attesa della mia. La morte di mio padre chiama la mia. E quando la mia morte arriverà, non saprò vederla. Nell’assistere all’agonia di mio padre ho provato terrore. Quell’agonia mi risucchiava. Mi stava portando via con sé. Era mio padre che stava agonizzando in quell’ospedale?
Il suo corpo si stava rompendo.
Sembrava un altro uomo.
Sembrava un eroe, sembrava una leggenda.
Sembrava un dio.