Quando mi misi a cercare un appartamento, nel bel mezzo del divorzio, non trovavo nulla. Incontrai autentici fuori di testa che vendevano appartamenti impraticabili, al di là di ogni logica architettonica, erano inabitabili. Avevo una grande urgenza di trovare qualcosa. In quel periodo vissi alcune settimane in un hotel. Passavo tutto il giorno a bere e non mi rendevo conto di niente. Era un albergo abbastanza buono, costava trentacinque euro a notte. Mi diedero una stanza con il terrazzo, nel centro antico di Saragozza. Mi portavo in camera una bottiglia di gin e un paio di birre, e via via che le bottiglie si svuotavano mi mettevo a telefonare. Chiamavo amici, amiche, gente. Il giorno dopo non ricordavo nulla. Mi sentivo completamente mortificato. Stavo perdendo tutto. E mia madre era già morta: non ci trovammo mai nella voglia di parlare al telefono; quando lei ce l’aveva, mancava a me; quando è venuta a me, lei non era più di questo mondo. È una mascalzonata che mia madre non mi abbia visto più assiduo, più desideroso di parlarle al telefono.
È curioso: tra mia madre e me ci fu un incontro mancato. Il telefono. Adesso potremmo parlare per ore e ore. Il nostro incontro mancato ebbe a che fare con la voglia di parlare al telefono, e lo dico quasi senza ironia.
Quando lei voleva parlare, io ero assente. Quando io ho voluto parlare, lei era morta.
Siccome quell’albergo si trovava in una zona di bar squallidi e locali con prostitute, scendevo spesso in strada e facevo un giro verso l’una di notte per calle San Pablo, Predicadores, Casta Álvarez, e m’infilavo in qualche topaia gestita quasi sempre da stranieri. Di solito lì c’erano prostitute e gente della notte. Io volevo soltanto bermi le mie birre. Noi tutti, lì, eravamo completamente soli, c’era una grande sensazione di irrealtà. Una di quelle notti incontrai l’ex campione del mondo dei pesi leggeri, Perico Fernández, che peregrinava di bar in bar, per quelle strade strette, buie e sporche, lì dove Saragozza si trasforma in una città del passato, come se fosse mummificata. Parlammo un po’ e gli offrii una birra. Io ero brillo, naturalmente. Ma vedere lui, così dimagrito, così distrutto, con il cervello massacrato dai pugni e dall’alzheimer, suscitò in me una profonda pena, mista a tenerezza. Pena e tenerezza allo stesso tempo. Perico era l’ennesimo uomo abbandonato, senza famiglia, sconfitto, che passava di bar in bar, consolidando intorno a sé un silenzio plumbeo. Era lì al bancone, il bar era sporco, la birra la servivano in bicchieri vecchi. Ci facemmo una foto. Conservo la foto. Sembriamo due angeli in quella foto. Non aveva più famiglia, Perico Fernández, anche se aveva avuto tre mogli e cinque figli. Dov’erano i suoi cinque figli e le sue tre mogli quella notte? L’avevano abbandonato, ovviamente. Al suo volto distrutto era ancora appeso un sorriso, un sorriso dolce, sereno, indolente. Perico era cresciuto in un orfanotrofio. Una sua frase era diventata famosa: «Se mia madre non mi voleva bene, perché mi ha fatto nascere?» Non aveva mai conosciuto la madre. Era nato nel 1952 da ventre ignoto. Questo è un gran mistero.
Un’altra notte lo rividi in un altro bar squallido, con frittura di kebab e patatine fritte, e il bancone pieno di resti. Era più animato. Negli occhi gli si leggeva la storia della sua vita. Era così indifeso, così derelitto che sembrava un bambino sperduto. Era in quella regione dove perdersi è già ardente pienezza. Mi disse che era stato campione del mondo, e io gli dissi, in un impeto di ubriachezza, che anch’io ero campione del mondo. Rise, lo trovò divertente. Un sorriso buono, perché nel suo cuore c’era bontà, quella strana bontà della gente semplice, della gente che è caduta nel mondo e che ha fatto quel che ha potuto. Era un figlio del popolo, con quell’accento aragonese che in Perico arrivava fino alla filigrana sonora e mostrava un’intelligenza millenaria, essenziale, e piena di senso dell’ironia. Un autentico figlio del popolo aragonese, come nessun altro. Era una commedia sentirlo raccontare la sua vita. Ricordai quando nel 1974 aveva vinto il titolo di campione del mondo, lo so perché l’avevo sentito dire con gioia da mio padre. Allora, Perico era un re. La Spagna intera era la sua fidanzata. Nei primi anni Settanta, Perico era adorato dovunque. E in quegli stessi anni io avevo mio padre, che mi adorava. In quel periodo vincemmo entrambi.
E ora eccoci lì, nel 2014, entrambi campioni del mondo. Io mi sarei salvato, sebbene in quelle notti non lo sapessi, ma lui no. Lui non si sarebbe salvato. Morì poco dopo, lo scoprii dai giornali.
Gli uomini con famiglia muoiono come gli uomini senza famiglia, questo pensai.
Forse Perico lo sapeva.