A Cecilia trovarono un cancro. Mia madre la evitava perché credeva che il cancro potesse essere contagioso. E così per me fu un’autentica sconosciuta. Non la ricordo molto, tranne che per la foto, però i suoi occhi sono i miei oggi. «Non toccarla» mi disse mia madre. E se dici questo a un bambino, lui crede che la nonna sia una massa corporea infettiva, un roditore dolorante, una scarpata con un abisso di rocce nere. Ma in mia madre non c’era assolutamente malafede, soltanto disperazione. È questo che c’è sempre stato nel cuore di mia madre e nel mio; mi voleva in salvo dal cancro, perché io ero disperatamente ciò che più amava a questo mondo. La sola idea che mi potesse succedere qualcosa le risultava orribile. Era un amore preistorico, luttuoso, claustrofobico, asfissiante, ed esasperato.
Mia madre parlava con sua sorella Reme e con mio padre dell’inevitabile morte di Cecilia; io sentivo quelle conversazioni; facevano i preparativi; esaminavano la situazione, e questo creava un’atmosfera che io vivevo in un modo speciale, perché ero il re di tutte le cose ed ero la gioia che compensava la scomparsa imminente di Cecilia. Io ero la speranza e il futuro e Cecilia era l’addio. Ci compensavamo, eravamo in relazione, affinché il suo addio avesse un senso era necessario il mio futuro, e viceversa.
E trascorsi quarantacinque anni da tutto ciò, il ricordo delle conversazioni alle spalle di Cecilia risveglia in me visioni che non sapevo fossero presenti nel mio cervello: sono liquidi i confini della memoria. Vedo nuove cose, vedo sempre vecchie scene come se fossero nuove. I rubinetti di metallo dorato con le tubature di rame a vista della casa vecchia di mia zia Reme, e Cecilia, molto malata, che beve un bicchier d’acqua.