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Cecilia e io camminiamo per strada. Lei è completamente coperta, piena di veli. Andiamo verso una chiesa. Entriamo nella chiesa. Ci sono candele accese e Cecilia mi dice: «Io sono tua nonna». Voglio ricordare che me lo abbia detto, ma in realtà non mi disse nulla. Non pronunciò neanche una sillaba. La confessione dell’amore è un sogno del mio presente. E la guardo, e vedo soltanto veli di ferro, carceri in cui stanno i morti dei quali i figli vivi non parlano, muri, bare.

Quando la seppellirono, il giorno del suo funerale, i suoi figli si riunirono, doveva essere il 1967 o il 1968. O forse era il 1969, o il 1970, o il 1966, non lo so. Posso fare soltanto congetture, nessuno mi ha comunicato le date, perché anni dopo nessuno ripeté ad alta voce la data della sua morte. Si riunirono per parlare della ripartizione del poco che rimaneva. Immagino che le sarebbe piaciuto vederli tutti insieme il giorno in cui la seppellirono. Vedo i suoi figli seduti a un lungo tavolo, c’era trambusto, uno scambio di parole a voce alta. E poi, passato il giorno del funerale, la dimenticarono.

Mia madre non parlava quasi di lei. Anche se immagino che la portasse nel cuore. Non lo so. Se la portava nel cuore, lo faceva in silenzio.

Oh, spettrale Cecilia, non è che i tuoi figli non ti volessero bene, è che ti sei trasformata in un ricordo iracondo o scomodo. Non erano preparati a pensare ai defunti con razionalità. Nessuno era preparato, perché hai vissuto in una Spagna tanto povera che non c’era nemmeno il necessario per tenere in caldo la memoria. Era un paese arretrato, però perché lo fosse tanto, nessuno storico lo sa.

Nessuno storico ne ha la minima idea. L’enigma spagnolo, lo chiamano.

Non capitavi mai nei discorsi. Non so nulla di te, perché non mi hanno raccontato niente. Ti hanno miseramente dimenticata. Indubbiamente, devi essere stata viva e devono esserti successe delle cose. Quando capitavi in qualche discorso, una delle poche volte, comparivi come un’ombra lontana, priva di concretezza, però uno dei tuoi figli ti amava molto.

Era Alberto, il minore.

Lui sì che ti nominava, con la voce della desolazione.

Alberto lo chiamerò Monteverdi, perché se lo merita e può essere il suo buon nome, quello che non è ancora fiorito in montagna, quello che sta in una montagna dimenticata e non è mai maturato, non è mai riuscito a fiorire.