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In quell’unica foto di Cecilia che è arrivata fino a me c’è un ragazzo, quasi un bambino, e ha una torta fra le mani, si vede poco la torta nella foto, solo un angolo. Chi doveva mangiare quella torta che non si vede quasi? Che sapore aveva una torta allora?

Il bambino era Alberto, il mio Monteverdi.

La vita non l’aveva ancora intaccato. L’avrebbe intaccato in seguito. Alcuni anni dopo a Monteverdi venne diagnosticata una tubercolosi, fu alla fine degli anni Cinquanta, più o meno nel ’57, o nel ’58, secondo i miei calcoli.

Ora, mentre scrivo, anche Monteverdi è morto.

Non sono andato al funerale di Monteverdi, come faccio sempre.

È difficile descrivere il livello di degradazione a cui arrivò Monteverdi negli ultimi anni di vita. Monteverdi morì nel 2015. Credo che fosse nato nel 1940. Nessuno lo sa. Nessuno se ne interessò.

Per esempio, Monteverdi non faceva la doccia. Non si lavava. Era un essere erratico che attraversava la città di Barbastro, la percorreva a piedi da un capo all’altro, senza alcuno scopo. Lo vedevi nei bar, nei negozi, nelle piazze. Monteverdi era sempre esagitato, avvolto in una gioia illusoria. C’è una scena della mia infanzia in cui Monteverdi mi insegue con un coltello. È reale e mio zio fu sul punto di uccidermi. Monteverdi mi inseguì con un coltello. Aveva attacchi di rabbia, o di follia. È un mistero anche la vita sessuale di Monteverdi. Eravamo tutti pazzi, una famiglia di sconvolti. Non so se Monteverdi soffrisse, immagino di sì. La sua vita era semplice. Non ebbe mai un lavoro. La sua tubercolosi lo spinse fuori dal mercato del lavoro dell’epoca, a metà degli anni Sessanta.

La nostra follia famigliare fu anche un Natale. Una liturgia di affratellamento.

Fummo molto felici negli scantinati del mondo. Perché Monteverdi aveva sempre un sorriso carnivoro sul viso. Dalla sua semplicioneria nacque una lancia, una punta affilata; succede con le persone in cui l’elementare non riesce a trasformarsi in innocenza, ma l’elementare o il semplice precipita verso la deformazione, l’anomalia o lo spasmo morale. Monteverdi era anomalo, essenziale, ma non c’era bontà nel suo cuore. C’erano soltanto tenebre, semplici tenebre, tenebre essenziali.

Non fece nulla nella vita, il grande Monteverdi. Se la cavò, alla fine, con una pensione di circa duecento euro di adesso. Mio padre, negli anni Settanta, gli regalava i suoi completi vecchi. Cosicché quei completi se ne andavano a spasso per Barbastro su due corpi diversi. Mio padre portava i completi perché era commesso viaggiatore. Metti un completo a chiunque e già sembra qualcosa, è il mistero livellatore dei completi, specialmente negli anni Settanta del XX secolo.

Ora questo mistero va scomparendo.

Monteverdi portava cravatte molto vistose, piene di colori. Per giunta, Monteverdi si lasciò crescere i capelli.

Sembrava Jesus Christ Superstar con la cravatta e gli occhiali. Perché Monte portava gli occhiali, degli occhiali come quelli di Paul Newman in Il colore dei soldi. Degli occhiali d’occasione comprati alla fine del mondo.

Il suo modo di parlare era precipitoso, pieno di colloquialismi che cercavano l’amicizia o il nullaosta dell’interlocutore; era un modo di parlare che andava dal delirio alla tenerezza, e dalla tenerezza all’abisso.

Monte stava nell’abisso.