Estate 1975
Le Mercedes decappottabili, le BMW dagli occhi di tigre,
le Peugeot, le Alfa Romeo, le Volkswagen.
È l’estate del 1975, nel paese turistico
di Cambrils, sulla costa di Tarragona
– c’è tanto sole e il Mediterraneo è il nostro paradiso –.
Nel lungo parcheggio accanto al mare,
un bambino in costume da bagno sta curiosando sul
contachilometri
di una Porsche: 210, 230, 250, 270, 290.
L’automobile di suo padre finisce a 160 km/h.
Ed è nuova, ed era la migliore e la più veloce,
aveva detto il padre.
Questo lo intristisce.
Quella gente così alta e così bella, da dove viene?
Sembrano più felici di noi.
Qualcosa sta succedendo. Qualcosa si crepa.
Quelle auto, non riesce a togliersele dalla testa,
quelle forme così diverse, quelle marche strane,
impronunciabili,
quelle ruote così grandi,
quei contachilometri siderali.
Ha appena visto una BMW rossa, e avvicina il viso
al finestrino: 200, 220, 240, 260, 280 km/h.
Immagina il mondo a 280 chilometri all’ora
e sorride come un dio adolescente.
Nuotando nel Mediterraneo, in mezzo all’acqua,
continuava a pensare a quell’industria misteriosa
dell’automobile, a quelle forme focose della materia.
Allora il bimbo capì che la materia è spirito radiante.
L’allegria dei motori ardenti,
i cilindri, il volante di legno pregiato,
le ruote e il loro spirito militare.
Passava le vacanze a guardare
con stupida fascinazione
e con inattesa umiliazione
le auto dei turisti europei.
Lì, in quelle auto, c’era un mistero doloroso,
e anche una forma della povertà,
e un destino.