Chi mi ha messo al mondo oggi se n’è andato dal mondo.
Lei, che mi chiamava in continuazione, per sapere di me.
Quanto l’ho trattata male e quanto ci siamo trattati male,
anche amandoci tanto; e il poco che hai saputo della mia vita
negli ultimi tempi, nascondendoti quanto male andasse
il mio matrimonio e tutto il resto
e tu che lo sapevi, perché, alla fine, sapevi tutto,
mi vedevi bere quei liquori forti,
mi vedevi quella sete così strana, quella sete così sconosciuta
per te,
che tanto ti spaventava e tanto temevi.
Nessuno più mi chiamerà, così ossessivamente, per sapere
se sono vivo, e a chi importerà se sono vivo o morto?
Te lo dico io: a nessuno.
Così il grande segreto era questo:
sono completamente solo,
inginocchiato
per la decapitazione,
per l’anelato addio da questo corpo,
da questa esistenza meramente sociale e condominiale che
porta il mio nome,
il nostro nome.
Non rivedrò mai più
il tuo numero di telefono sullo schermo
del mio cellulare; tu, che ti lamentavi che non ne avevi uno,
che non te ne regalavo uno,
ti giuro che non avresti saputo farlo funzionare,
l’avresti gettato dalla finestra,
come io farò con il mio questa notte del supremo delirio.
Perché eri un numero di telefono, cinquant’anni
racchiusi in quel numero: nove sette quattro, trentuno,
zero, quattro, tre, nove.
Fallo adesso,
fallo adesso se hai coraggio e ti risponderanno
tutti i misteri incommensurabili: il tempo e il nulla,
l’ira rossa
dei peggiori uragani celestiali,
l’arido e bianco nulla trasformato
in una mano nera.
Non importa dove mi trovassi: potevo essere in America o in Oriente,
tu chiamavi, tu chiamavi tuo figlio sempre
perché ero Dio per te, un Dio fuorilegge,
potente e sacro, l’unico reale e sufficiente,
sempre tuo figlio fuori da ogni ordine, sempre regnante,
perché tutto quanto facevo e ho fatto ha ricevuto la tua lunga approvazione,
la cui moralità non è di questo mondo.
Sappiatelo.
Tu, che mi amavi fino alla disperazione.
Tu, che hai versato sangue per me e per la mia discutibile e oscura vita,
piena di liturgie il cui senso ignoravi,
e facevi bene, perché non c’era niente da sapere, come
alla fine
ho saputo,
equiparato in questo sapere
al più saggio degli uomini.
E adesso, di nuovo, verso il Crematorio,
come ho già scritto in una poesia con questo titolo,
in cui parlavo di tuo marito, mio padre,
e abbiamo cremato anche lui,
un migliaio di gradi raggiungono quei forni.
Il mio grande padre, di cui tu ti innamorasti – va’ a sapere perché –
nel millenovecentocinquantanove,
e a chi diavolo importa più se non a me,
colui che vi ha sempre tanto amato e vi amerà fino all’ultimo minuto del mondo.
Ti ho dato un bacio sulla fronte gelida
una domenica
mattina
di un ventiquattro maggio del duemilaquattordici,
pioveva,
in una primavera inaspettatamente fredda,
mentre una macchina sofisticata introduceva la tua cassa economica
– guarda come siamo poveri – nel fuoco finale,
al quale mio fratello e io
ti abbiamo condotto.
Ho sentito la tua fronte antica e finita sulle mie labbra
antiche e finite,
ma ancora coscienti le mie;
le tue,
fortunatamente, no.
Non avevo mai pensato che il sentimento finale fosse questo:
l’invidia che mi facevi, la cupidigia della tua morte,
desiderando la tua morte,
perché mi lasciavi qui,
completamente solo
per la prima volta
nella nostra lunga storia d’amore,
e solo per sempre.
E ricordo ora tutte quelle donne
che volevano venire a letto con me,
fare l’amore con me,
e questa ha finito per essere la mia vita,
mentre volevo soltanto
stare con te per sempre.
Accidenti, mamma, non sapevo di amarti tanto.
Tu sì che lo sapevi, perché hai saputo sempre tutto.
Che bello che tutto è finito,
in un colpevole pomeriggio di primavera
in cui comincia il mondo,
in cui per te finisce il mondo,
in cui per me non finisce e non inizia
ma persiste involontariamente.
Che bello questo silenzio onnipotente, qui, a Barbastro,
dove siamo stati madre e figlio, nei secoli dei secoli.
Qui, a Barbastro, in questo posto così nostro,
così concisamente nostro: tutto è successo qui, in queste strade.
Tutto ricordo, e tutto ricorderò.
Ti amo, alla fine.
Come non ho amato nessuno: sono state tutte la tua replica.
Ah, dimenticavo: avresti potuto lasciare qualcosa
per pagare i tuoi funerali,
non sai quanto mi vanno male le cose e quanto sono povero,
e guarda che sei stata spendacciona e dilapidatrice,
con quello che costa
la bara più economica,
come dicono loro, i dolci gentiluomini dell’agenzia funebre.
Guarda come siamo stati poveri e disgraziati tu e io,
ma mère, in questa Spagna di grandi figli di puttana arricchiti
fino all’abominio.
E nonostante questo, poveri in canna tu e io,
abbiamo mantenuto la calma,
come due innamorati.
Che bello. Stupendo. Quanto ti amo
o ti ho amato, non so più, e a chi importa,
certamente non alla storia della Spagna,
il nostro paese, se pure sapevi come si chiamava
il solenne nulla storico in cui abbiamo vissuto papà, tu e io.