Introduzione

Quando ho letto questo libro appena è uscito, mio padre era ancora vivo e io ero in polemica con lui per certe fughe dalla realtà, per certi silenzi familiari.

Fosco è morto nel 2004, ormai quindici anni fa e ora le sue parole, decantate dalle piccole preoccupazioni quotidiane, mi commuovono e mi emozionano. Ora rileggo con l’animo sgombro, disponile a lasciarmi sorprendere dal suo racconto sincero e generoso. Più leggo e più mi pare di sentire la sua voce sobria e appassionata nello stesso tempo, ironica e amara.

Le pagine mi scorrono davanti con baldanza. Eppure Fosco non era un impudente, al contrario soffriva di timidezze segrete che a volte, come succede a tutti i timidi, si trasformavano in improvvise e sfrontate spericolatezze.

Questa spudoratezza si rivela prima di tutto nel linguaggio che è giocoso, provocatorio, inventivo. Le pagine si appoggiano sopra una riconoscibile struttura musicale, struttura che certamente è dovuta alla sua pratica del toscano, ma è anche rivelatrice di una testa abituata a pensare, indagare, ricostruire e ironizzare secondo un ritmo felicemente cadenzato.

In certi momenti la scrittura di Fosco mi ricorda Collodi, lo scrittore che ha avuto la capacità di rendere universale un toscano fiabesco e divertito, mai convenzionale o affettato, sempre attento ai dettagli, sempre sorpreso delle stravaganti e pulsanti capacità vitalistiche della lingua. A me pare che Carlo e Fosco conoscessero ambedue la gioia delle piroette del pensiero, mai gratuite o fini a se stesse, ma mobili esempi di una tendenza alla ricerca profonda delle connessioni.

Ne fanno testimonianza le Gnosi delle Fànfole, il libro di poesie marainiane uscito nel 1994 e continuamente ristampato, ormai famosissimo. Un libro che circola in rete fra i giovanissimi, e racconta le montagne, i mostri, le camminate, i deliri dell’arte delle scalate, in un linguaggio inventato e carico di simboliche assonanze.

Per Fosco il linguaggio era un grimaldello per aprire le porte dell’universo. Per questo si accaniva a imparare le lingue dovunque andasse. Come si può conoscere un paese senza essersi impratichiti del suono delle parole, dell’andamento ondulare delle funzioni sintattiche, dei particolari valori lessicali e della unicità dei proverbi e dei modi di dire tipici di quella gente? Per non parlare della ricchezza delle metafore che sono veramente ciò che distingue una lingua dall’altra.

Come ci si può avvicinare a una cultura diversa, a una religione lontana senza sapere distinguere e decodificare i vocaboli di una preghiera, di una legge, di una conversazione amichevole? E come capire l’amore, sia quello tenerissimo di una madre, sia quello erotico di un amante, se non si stringono fra le dita le sillabe che ne costituiscono il DNA linguistico?

Il lessico era per Fosco l’endocosmo e l’esocosmo, come gli piaceva chiamare i mondi interni ed esterni, sia che riguardassero la persona umana, sia che riguardassero quella palla che ruota e corre veloce dentro una galassia dell’universo.

Certamente la storia che racconta è originale e rivela una vita piena di avventure e di pericoli, di dolori e di soddisfazioni. Ma senza la carica musicale che sottende la sua prosa, probabilmente tutte queste esperienze fuori dal comune rimarrebbero semplice cronaca. Invece la visione del mondo di uno scrittore originale e profondo non può che intrecciarsi e prendere corpo attraverso un progetto linguistico capace di comunicare emozioni, che saranno sempre formali e contenutistiche insieme.

Fosco non carica mai le tinte, anzi tende ad alleggerire, a trovare il lato umoristico delle cose. Eppure si sente che ci sono delle grandi correnti di emozioni che lo coinvolgono e lo stringono fino a ridurlo in certi momenti, disperato e nemico di se stesso.

Voglio qui citare alcuni temi corposi che costituiscono i nodi della sua vita. Nodi che ha saputo alla fine sciogliere con armonia. Perché Fosco era un uomo dall’animo equilibrato e non si è mai trovato in un conflitto irreparabile con se stesso, pur conoscendo le contraddizioni, le stonature, gli sbalzi che accompagnano ogni persona che non rifiuta il contatto quotidiano con le cose e le persone.

Certamente uno dei primi temi riguarda il difficile rapporto col padre, “uomo d’ordine” come lui stesso si definisce. Nonno Antonio voleva che il suo figlio maggiore, il suo Fosco dal carattere esplosivo e dalla grande capacità di studio, diventasse diplomatico. Ma Fosco navigava in altre acque. Era curioso dell’Oriente, voleva viaggiare, non come burocrate, ma come studioso.

Segue il rapporto profondamente simbiotico, fatto di un amore tenerissimo e di somiglianza profonda, con la madre Yoi. La quale lo contagiava con la sua fascinazione per il Tibet, per i luoghi esotici, per le grandi camminate in montagna; gli comunicava la sua curiosità per le lingue e le religioni sconosciute. Madre e figlio si assomigliavano nel comune amore per la libertà, e si stringevano in una muta solidarietà che innervosiva il padre tirannico e severo.

Due momenti raccontati con leggerezza calviniana mi hanno commossa: l’addio alla madre che accompagna il figlio appena sposato fino a Napoli alla partenza per il Giappone. La nave si allontana, la madre sventola un fazzoletto, fino a quando il bastimento è ancora visibile. E lui commenta: “La mamma di Clé sempre più piccola, sempre più lontana, restava ferma al suo posto. Ogni tanto tirava fuori un fazzoletto e alzava un braccio in segno di saluto e Clé le rispondeva. I due si videro, si videro, fino a sparire del tutto in un nulla misterioso di mare, cielo, nubi e notte. Fu l’ultimo saluto. Non si sarebbero visti mai più.”

E l’altro momento emozionante, quando nel campo di concentramento in un giorno del ’44, Fosco sente con nitidezza la voce della madre che lo chiama. E subito capisce che è un richiamo d’amore e di addio. Solo tornando in Italia saprà che proprio quel giorno sua madre era morta a Firenze mentre lui soffriva la fame e il freddo in un campo di prigionia giapponese.

Un tema ricorrente è l’amicizia. Le descrizioni dei quattro amici fiorentini, Rolando, Mario, Rinaldo che si fanno chiamare i “quattro feroci”, che non avevano paura di nulla e si nutrivano di sogni, di sfide e grandi ambizioni, sportive sono vivissime. La ferocia comunque non gli impediva di venerare alcuni maestri, come Pasquali, come Tucci, che lo porterà con sé in Tibet e lo inizierà all’amore per quel paese. Fosco era un giovane scanzonato e ribelle, ma sapeva riconoscere la qualità di quegli anziani che lo stimavano e gli offrivano il loro affetto. Come Dick Storry, o i coniugi Lane, o il dottor Munro o lo studioso Miyazawa con cui imparerà a costruire igloo sui ghiacciai di Hokkaido.

La montagna, con i suoi miti, le sue leggende, i suoi canti, le sue altezze pericolose, è stata certamente una compagna di vita, il luogo più vicino al cielo su cui arrampicarsi e cercare una saggezza e un appagamento che non hanno pari sulla terra. La montagna come conquista di una spiritualità panica e appagante.

Non a caso Fosco ha voluto essere sepolto in uno dei cimiteri più alti della Toscana, fra le montagne della Garfagnana: un nido di aquila da cui si può girare lo sguardo intorno su boschi, cime, avvallamenti e burroni. Proprio quel genere di panorama che prediligeva.

Altro tema altalenante ma presente per tutto il libro: l’amore per le donne. Si può dire che fosse un Don Giovanni? In parte sì, ma non faceva i conti come il gran signore mozartiano. Esemplare l’episodio della gita al casino, trascinato da un amico che gli decanta la bellezza delle ragazze in vendita. Lui si fa quasi convincere, ma poi si tira indietro preferendo aspettare di incontrare la donna amata.

Il giovane Fosco restava facilmente affascinato da un leggiadro corpo femminile, ma manteneva un gusto onesto e gentile anche quando si trattava di amori che rimanevano solo nel campo dei sensi. Infine c’è il racconto del grande amore per Malachite, la donna che sposerà e che gli darà tre figlie. Un amore felice e giocoso, fatto di viaggi in motocicletta, di scalate spericolate, di corse notturne e abbracci nei luoghi più impensati.

L’unica nota stonata per me sono le descrizioni un poco tirate per i capelli di come fanno l’amore le donne giapponesi in contrasto con le europee. Sebbene siano delle ragazze maliziose a chiedergli quale sia secondo lui la differenza fra le donne europee e quelle giapponesi in fatto di sesso, nella risposta si sente più il professore che il raccontatore di storie, quella puntuta volontà che ogni tanto salta fuori, di catalogare, inventariare e mettere sotto teca le varie forme del mondo.

Altro tema esplosivo: il viaggio, il moto, l’esplorazione, il possesso di una motocicletta che lo spinge per le strade polverose di una Italia povera e tutta da scoprire. La Sicilia raggiunta per amore e poi conosciuta mano mano con sorpresa, percorrendola a piedi o in bici o in moto, coprendosi di polvere, di sudore, sempre più incuriosito e attratto dalle antiche e bellissime città piene di storia, dai nuovi amici che gli saranno vicini per tutta la vita, dall’affetto e la stima del padre di Malachite, il duca Enrico che lo accoglie a braccia aperte. I due, sebbene tanto lontani per età, scoprono di avere in comune l’amore per la filosofia, per le religioni orientali, coltivando il sogno di un mondo a misura d’uomo. Nonno Enrico era un aristocratico fuori dalle regole, un tolstoiano che si trovava la mattina sui campi coi contadini, che trattava uomini e donne con lo stesso illuminato rispetto, che lo portava a fare studiare le figlie, incoraggiandole a trovarsi un lavoro.

Altri temi che diventano importanti con l’avvento della guerra sono: la fedeltà alle proprie idee, la politica che lui non ha mai praticato ma che lo costringe a scelte estreme, la lealtà, il coraggio. La questione dell’identità culturale, la disobbedienza civile. Il campo di concentramento di Nagoya in cui abbiamo conosciuto la fame, la paura, le bombe, le malattie ha certamente messo alla prova la sua pazienza, il suo coraggio, la sua perseveranza, la sua voglia di sopravvivere e di proteggere la famiglia in pericolo di vita. Il terribile sacrificio del taglio del dito che l’ha quasi ucciso, viene raccontato con parole delicate e leggere, senza drammatizzare, quasi come se stesse osservando le mattane di un altro Fosco, suo doppio che, come ho già detto, era capace, nella sua timidezza, di uscirsene con un gesto esplosivo, da eroe leggendario. Parlo dello yubikiri, il taglio del dito che lui, antropologo, conosceva bene come antica usanza samurai, ancora praticata e comunque ammirata dalle forze di polizia e che Fosco ha compiuto per rispondere alle frasi di disprezzo verso gli italiani. Quel gesto apparentemente insano e antistorico ha avuto il suo effetto. Dopo i calci, i pugni e la cella di punizione, infatti, proprio il più sadico e severo dei guardiani è venuto a testa bassa a offrirci una capretta che dava un poco di latte al giorno. Un latte che ci ha salvato la vita.

Dacia Maraini