1. Lady Sybille in Hispano-Suiza
“Ida! Ohé Ida! Ma perché stai lucidando il samovar?”
Clé, aggrappato come una scimmia ai rami più alti del gran cedro a bacìo della villa, stava gridando con tutta la forza del suo petto, sano però ancora angusto, di decenne.
Sforzo inutile. Il vento capriccioso della giornata quasi estiva sbaruffava con tanto frastuono le frasche d’alloro tutto intorno, da rendere impossibile un dialogo tra vetta dell’albero e cucina, intravista là sotto attraverso le finestre aperte. Senza contare che forse Ida si divertiva a non rispondere ai berci di quel “piccolo mostro”, di quel “selvaggio”, che faceva come di solito il bravo, arrampicandosi sulla cima delle piante e restando lassù, come un tordo o una ghiandaia.
Tra Ida e Clé sussistevano certi rapporti curiosi di un amore intrecciato con sfilacciature di odio; in altre parole rapporti d’“amodio”. Tutti sappiamo che l’amodio è comunissimo nel mondo, come mai manca di un suo cartellino semantico che ne definisca usi e costumi? Ida, quarant’anni circa, brutta e generalmente sciamannata, in tentennio continuo tra berci, sgridate e lacrime affettuose, lavorava da sempre come cuoca in casa Raimondi. Perché piangeva quando qualcuno cantava Tripoli, bel suol d’amore, un’aria ancora in voga a quei travagliati inizi del ventesimo secolo? “Eh, per me Tripoli, altro che suol d’amore,” diceva, “per me Tripoli fu suol di sciagura. Chi me lo renderà mai Faustino?” Pare infatti che nel 1911, durante lo sbarco italiano in Tripolitana, le fosse morto il fidanzato. Forse questo spiegava molte cose. Gli anni più o meno combaciavano. Clé avrebbe potuto essere suo figlio (ed ecco l’amore); d’altra parte non era suo figlio, anzi era il figlio dei “signori” (ed ecco il risentimento, l’odio): somma dei due, il famoso amodio. Tanti anni più tardi Clé avrebbe scoperto che il giapponese ha il suo vocabolo per l’amodio. Si dice aizō, amore-odio, i due concetti riuniti in una sola parola, un solo ossimoro, utile ed espressivo.
Clé, il cui vero nome era Anacleto, era un biondino simpatico ai più, anche se cocciuto, parecchio beffardo, terribilmente irrequieto. Darwin gli avrebbe di sicuro voluto un gran bene: oh, ecco finalmente il vero anello di congiunzione tra primati e uomo! Dalle scimmie Clé aveva preso non solo la gran fregola d’arrampicarsi su ogni albero che gli giungeva a tiro, nonché su muri, tetti e comignoli, ma anche una mostruosa curiosità: tutto voleva vedere, capire, smontare, svitare, penetrare, sviscerare. Adesso, per esempio, perché Ida stava lucidando con tanta cura il famoso samovar russo della mamma? Quando aveva luogo questa domestica cerimonia, c’era da star tranquilli che visite importanti fossero in programma. Si trattava di scoprire chi si voleva onorare con tanta lucidatura. La maggior parte delle visite erano o indifferenti o antipatiche. Prima cosa, occorreva andar su nella nurseria (the nursery), rivestirsi e soprattutto – cosa più d’ogni altra odiatissima – infilarsi calze e scarpe. Per sue importanti mitologie infantili, Clé, almeno da maggio a ottobre, era felice solo se scalzo. Le piante dei piedi finivano per trasformarsi in duroni insensibili da vero Boscimano che gli permettevano, per esempio, di correre come nulla fosse sui campi dov’era stato falciato il grano, con le stoppie piccole e cattive, ritte come tanti spunzoni dorati, posti lì per un supplizio.
La mamma di Clé era britanna; alta, bionda, bellissima, delicata, intelligente, d’infinita dolcezza. Con la mamma era regola perenne, quasi celeste ingiunzione, parlare inglese. La faccenda dei piedi nudi, in tempi estivi normali, era ammessa, anzi forse incoraggiata: ma in regime di visite non si scherzava, spuntava perfino nella mamma una certa durezza nordica. “Now, you just go upstairs and put on your shoes. I’m not joking. What will the Huxleys say, if they find a wild tartar around the house, eh?” Gli Huxley erano i veri Huxley, cioè il celebrato scrittore Aldous con la moglie Maria. Qualche anno più tardi, quando la coppia se n’era andata da Firenze, Clé, ormai adolescente, avrebbe fatto carte false per poter conversare con l’autore di alcune tra le sue più amate letture, ma allora erano altri tempi. Per dirla con Giambattista Vico, si circolava ancora nel mondo degli eroi; e gli Huxley erano semplicemente adulti che interrompevano un pomeriggio di gioie boscherecce.
Qualche volta, però, si presentavano visite graditissime, stupende, sognate poi la notte, celate nei ricordi. Per esempio quando arrivava da Roma la zia Dorina; e qui va segnalato che l’universo di Clé era diviso – come le Ruote della Vita tibetane – in vari scomparti nettamente separati tra loro. C’era il mondo inglese, nutrito fin dagli albori dai libercoli di Beatrix Potter, con i suoi scoiattoli, le sue volpi, le sue lepri, gli alberi smisurati, le tane, i muschi e le nocciole della selva. Oppure da favole illustrate da Arthur Rackham, disegnatore dalla fantasia degna di Tolkien, che insegnava a scoprire musi, espressioni, rabbie, sorprese, deliri, nei tronchi degli alberi, nei tetti di paglia delle capanne, perfino nelle nuvole. L’Inghilterra era un po’ una Grecia dell’anima, una Terra Santa, uno Shambala dello spirito. Clé non c’era mai stato, ma ne era ambasciatrice venerata la mamma, e quello bastava. L’Inghilterra giungeva in casa un po’ con i libri, un po’ con tante altre cose ritenute superiori, squisite, oppure specialmente salutari: per esempio il treacle (detto in gergo famigliare “trìccolo”), una sorta di melassa dolcissima, premio mattutino al buon risveglio sul pane imburrato, il fudge (il “fùggio” o “fuggétto”), una sostanza caramellina impastata di burro, latte e zucchero; altamente venerati erano i biscotti del tipo butter-scotch, che però si vedevano di rado, solo quando la mamma tornava dal paese della cuccagna, from good old England. Ma il piatto che segnava un vero spartiacque culturale era il porridge, il “porrìggio” o, meno esotericamente, “la pappa di fiocchi d’avena”. Clé avvertì con dolore il muro di gusti e d’idee che lo separava dai non-britannizzati, quando un giorno Martino, scorgendo un piatto di “quella roba”, chiese da perfido toscano: “Ma scusa Clé, quella roba la devi ancora mangiare o l’hai già mangiata?”
Al di là di un’invisibile muraglia di vetro culturale stavano i due mondi italiani, diversi tra di loro quanto poi entrambi lo erano da quello britannico. Il mondo italiano “Alfa” era importante, ma vagamente ostico e lontano (salvo il caso della zia Dorina): vi circolavano personaggi aulici, paludati, preclari e generalmente severi. Il più ovvio era il babbo, anzi il papà, a volte affettuoso e vicino, ma poi improvvisamente ritirato su olimpi personali, isolati da nubi sublimi, invalicabili. All’italiano di continente Alfa apparteneva anche la scuola, dove Clé si recava solo da timido e curioso esterno per gli esami, ma soprattutto appartenevano gli amici del babbo, accademiconi, vescovi del sapere, mitriati della cultura, che so io, Ugo Ojetti, Lionello Venturi, Emilio Cecchi. Clé ne avvertiva il fascino, quasi vergognandosene, e subiva in segreto l’invito all’emulazione di questi arconti del sapere e del pensiero, ma non riusciva a identificarsi con loro. Forse anche perché parlavano una lingua dotta e superba, con tutte le c al loro posto, l’italiano delle conferenze, delle lezioni, delle università; inoltre usavano termini foneticamente stupendi, veri pezzi di alta meccanica verbale, per esempio “valorizzazione”, “reinserimento”; ma cosa volevano dire quelle cavalcate mitiche di sillabe?
Ben diverso era il mondo italiano “Beta” (che in realtà avrebbe dovuto dirsi Alfa, per la sua predominante importanza nel cuore e nella mente di Clé). Era il mondo arcaico, georgico, etrusco di Martino, di sua moglie Gemma, dei loro parenti, nonché quello dell’Ida e di altri che circolavano per casa. Quant’è cambiata l’esistenza in sessanta, settant’anni, dagli inizi del nostro secolo sussultorio, avvalangato d’eventi! Intorno al 1920 eravamo in molti sensi più vicini al 1720, che al 2000. In casa stavano l’Ida, regina capricciosa della cucina, nonché sua sorella Gilda (diversissima per indole e aspetto) in qualità di cameriera; e per certi periodi ci fu anche la Phyllis, un’inglesina liscia, rotondetta, felina, che non si occupava di Clé, ormai definito come caso disperato, ma del fratello Gentile, minore d’anni cinque e molto più amabile. Ma, soprattutto, accanto alla villa stavano casa, fienili e stalle di Martino, il mezzadro, alle cui cure erano affidati i due ettari del padronale podere. Se avessero bruscamente chiesto a Clé: “Qual è la tua vera casa?”, il ragazzino sarebbe rimasto sicuramente perplesso. Sì, nella villa stava la mamma, c’era un letto invitante e cosy (parola intraducibile, il dizionario dà “confortevole, comodo, accogliente”, però cosy è speciale, è di più, è intraducibile), c’erano giocattoli e libri, ma da Martino e dalla Gemma era un’altra cosa. Tanti anni dopo, quando Clé ebbe numerosi amici francesi, ripensando a Martino lo definiva “un vrai”. Ecco, il fascino di Martino e del suo mondo era quello di una realtà finale, indiscutibile, senza fronzoli né ricami. Naturalmente da loro niente italiano centrifugato e pastorizzato, ma il gioco (anzi il “gioho”) ribobolesco delle frasi toscane, delle quali alla fine rimanevano pochi brandelli lasciati alla comprensione indovina dell’ascoltatore, tanta era la parte che ne restava mangiata, aspirata, ridotta in vento, sibili, vortici d’aria.
Il cedro delle meraviglie non era annoso e gigante, come se ne vedono spesso nei parchi (quelli sono facili da scalare, e Clé l’avrebbe disprezzato): poteva avere cinquanta o sessant’anni, ed era altissimo, diritto. I rami sporgevano dal tronco ad angolo retto, a irregolare raggiera. In basso erano grossotti, e Clé li conosceva uno per uno; in alto si facevano sottili. In basso arrampicarsi era una gioia, una danza muscolare senza pari, in alto i rametti si facevano fitti, erano coperti d’aghi che entravano negli occhi, nel naso: Clé andava fin lassù soltanto per il piacere di far inorridire la mamma, o gli altri di casa, ed eventualmente per esplorare il panorama, che includeva tutto il suo mondo, la villa con il gran tetto di tegole in cotto maculate di licheni, la cucina, regno dell’Ida, la casa di Martino, il piccolo giardino pensile e il podere con le sue prode coltivate, i suoi filari di viti sposate ad aceri e frassini, gli alberi da frutto, nonché infine le case del borgo di Ricòrboli. E in alto il “convento delle monache”, il collegio del Sacro Cuore.
Adesso Clé s’era buttato a scendere come un gatto. Che piacere anche questo! Sapeva che nessuno nelle vicinanze avrebbe potuto fare altrettanto, nemmeno Martino, che pure era bravo, strabravo in tutto. Sì, lui sugli alberi ci saliva, ma con lentezza e prudenza, non alla straboia, come piaceva a Clé. E ora giù, via, in cucina, a chiarire il mistero del samovar. Chi veniva in visita eh, chi si attendeva? Il samovar di rame, con argentature finissime, era stato regalato alla mamma, secondo un amato racconto, da certi parenti che abitavano anni prima a Mosca; quindi era un cimelio, un pezzo importante del museo di casa. Di norma stava sopra un alto scaffale del guardaroba accanto alla cucina, ma in occasione di visite veniva tirato giù e lucidato. Ida era intenta al lavoro. “Sta’ fermo strullone!” diceva al samovar che tendeva per sua natura geometrica, nel fervore dello strofinio, a girarle tra le mani. Clé balzò in cucina come una palla da tennis lanciata di traverso e fuori campo.
“Allora chi viene stasera, eh?”
“Ti piacerebbe saperlo? Selvaggio, vai a lavarti, a metterti le scarpe...”
“Sì, sì ci vado... Ma dimmi chi viene. È un segreto? Non saranno mica dei pezzi grossi noiosi?”
“E se non te lo dicessi, mostro? Vai fuori a sbatterti la maglietta, non lo vedi che sei pieno d’aghi di pino? Poi chi deve pulire, eh? L’Ida, la povera Ida, Ida la schiava, eh?”
Clé s’affacciò sul terrazzino dinanzi alla cucina per ripulirsi dagli aghi di pino.
“Se non me lo dici tu, vado su e lo chiedo alla mamma, tanto lei me lo dirà subito...”
“Allora te lo dico io chi viene. È la Sibilla, quella smorfiosa, con tutti i suoi bargelli e cannoni.”
Firenze ospitò per lunghissimo tempo una singolare colonia di stranieri, specialmente di inglesi, tanto che s’era finita per costituire in città e dintorni una particolare razza di meticci, volgarmente detti “anglo-beceri”. Clé, ovviamente, era un anglo-becero quintessenziale, in cantiere. L’Inghilterra di quei tempi, anni venti-trenta, poteva dirsi ancora un Paese di ricchi e di possenti. Tra di loro i volgari e i panciuti evitavano la Toscana ritenuta dreary, piuttosto uggiosa, preferivano luoghi più spassosi, di miglior clima, dai sollùccheri più spinti e carnali. Restavano perciò gli squisiti, gli incantati, gli scrutatori di perfezioni. Tra gli angli, come si sa, viene trasmesso ab antiquo un certo culto dell’estro, del nobile capriccio, della stranezza vissuta con stile. Se tali manifestazioni son poi sostenute da capaci e saldi scrigni di soldi, ecco sorgere dei veri personaggi da galleria, degli inimitabili. Lady Sybille sembrava rispondesse a tutti i requisiti più esigenti su questi rarefatti orizzonti. Clé, si capisce, non le immaginava neppure certe cose: sapeva solo che tra Lady Sybille e lui era sorto un rapporto singolare, quasi da nonna a nipotino, e viceversa. Clé era un ragazzo difficile, scomodo, puntuto, per questo gli piovevano costantemente addosso le porzioni più virulente del vocabolario: selvaggio, bruto, cattivo, sporcaccione, disordinato, ribelle, tartaro, bandito. Lady Sybille, che incontrava Clé soltanto in edizione rilegata e plastificata, con la camicetta pulita e con le scarpe, o almeno con i sandali ai piedi, se lo coccolava invece come un ragazzino modello. “But why scold him? He’s such a good boy!” diceva alla mamma. “He’s so eager to learn?” E questo calore incantava il fanciullo.
Appena Clé fu certo che la visita attesa per la serata era davvero quella di Lady Sybille, corse su nella nurseria, dove la voluttuosa Phyllis stava pettinando i capelli d’oro di Gentile, e – cosa rara, quasi incredibile – si mise a frugare nei cassetti in cerca della camicetta più nuova, dei calzoncini meglio stirati, delle calze di filo bianco, vestendosi poi con gran cura, quasi gli fossero prese ambizioni improvvise d’apparire come un paggetto o un modello. Intanto il giardiniere Oreste (altro aggregato alla tribù di Villa Raimondi) era sceso lungo il viale a rastrellare la ghiaia, spingendosi fino al cancello, aprendolo per l’arrivo degli ospiti. Il sole stava tramontando, un gran disco arancione, contro il quale si profilavano torri e campanili della vicina Firenze.
Lady Sybille abitava a Fiesole, in una delle più celebrate ville del celebrato colle. Aveva un marito, dei figli, dei famigliari d’intorno? Chissà? Clé non se la poteva immaginare che sola e regale: una mitica sibilla che di tanto in tanto si degnava di porre piede fuori dalla sua grotta affrescata. La seguiva una piccola corte... Ma oh, eccola, eccola! “Now just keep quiet, and behave” ingiungeva con voce nervosa la mamma. Sul piccolo spiazzo ghiaioso davanti alla villa, tra siepi d’alloro e un ombroso sambuco, era apparsa la macchinona di Lady Sybille. Di che marca fosse, Clé non l’avrebbe saputo dire: una Hispano-Suiza? Una Rolls Royce? Era a ogni modo una prodigiosa nave da strada, luccicante, lunghissima, faraonica: dinanzi portava due fanali in ottone che davano al veicolo lo sguardo d’un insetto preistorico pronto a divorarti. Era una decappottabile, come s’addiceva a una vegliarda autorevole, bisbetica e coraggiosa. Al volante sedeva Mister Jenkins (il sor Genchino), capocarovana e maggiordomo della regina, magrissimo, canuto di capelli e di baffi, fiero come un maharaja dei Rajput. Sul sedile accanto stava il Fantechi, un fiorentino (a native), grosso, lucido, premuroso, addetto ai “cannoni”, cioè agli strumenti astronomici. Lady Sybille era infatti un’inveterata e sapientissima maniaca di stelle, pianeti, comete, satelliti, nebulose, particolare di conto supremo agli occhi e al cuore di Clé. Sui sedili posteriori del veicolo, sedevano la dama fiesolana e Miss Sprott (la Sprotta), quest’ultima alta, dall’aria di gitana, servizievolissima, ma per lo più sigillata in un rigoroso silenzio.
Lady Sybille era piccola e magra, avvolta in veli e scialletti. Scese dalla macchinona con passo agile, appena sostenuta per un braccio dalla Sprotta. “Oh, but here’s my little darling!” esclamò piegandosi sulle ginocchia per dare un bacio a Clé. Il ragazzino avrebbe voluto renderglielo, il bacio, ma la gentildonna s’era già rimessa in piedi e stava salutando, abbracciando la mamma. Dopo di che gli adulti sparirono nel salotto-biblioteca al primo piano. Clé fu felicissimo di restare con il Fantechi e con il sor Genchino, aiutandoli a trasportare il cannone (cioè il cannocchiale), il treppiede, e varie cassette d’accessori fino alla terrazza, dove si sarebbe montato l’insieme per compiere più tardi, dopo cena e a buio completo, le osservazioni celesti. Con tutto il simpatico umanesimo che predominava in Villa Raimondi, con tutta la libertà concessa a Clé per la sua vita selvaggia tra bosco e campi, restavano nelle ventiquattr’ore due o tre capisaldi fermissimi: uno di questi riguardava il ritiro serale. Alle ore nove, non c’era scampo, Clé doveva trovarsi a letto. Quella sera, però (forse Lady Sybille aveva lasciato cadere qualche parolina magica), sembrava convenuto si facesse eccezione.
Per il pranzo le gerarchie di casa furono, come al solito, rispettatissime. A un tavolo, nella sala da pranzo, stavano i genitori e l’ospite; a un altro, nel guardaroba, cenarono Phyllis, la Sprotta, Clé e Gentile: a un terzo, in cucina, sedevano Mister Jenkins e il Fantechi.
Ah, ma finalmente ecco la notte fonda, vera. La Gilda s’affacciò sulla porta e disse a Clé che su l’aspettavano... Gioia! Scatto! Volo su per i gradini fino in terrazza! Il gran telescopio, lungo un paio di metri e grosso davvero come un cannone, era puntato al cielo. La mamma, poi il babbo, stettero per qualche tempo fissi all’oculare, dando in esclamazioni di meraviglia. Finalmente toccò a Clé. Straordinario! Giove, il pianetone Giove, appariva grande come una zucca gialla. E si vedevano due dei satelliti medicei, uno come un cecio d’oro sospeso sul nero della notte, e l’altro che navigava, come dire, sopra il disco, proiettandovi perfino la propria ombra. Incredibile, stupendo, divino! Clé sarebbe rimasto per ore incollato all’oculare, ma il babbo lo tirò via con un’insolita ferma dolcezza, che causò un inatteso brivido di paura giù per la schiena del ragazzino. Anche la mamma s’era appassionata all’astronomia e ora, a ripensarci, nelle giornate precedenti la seduta notturna, aveva infilato nelle conversazioni con Clé tante utili, affascinanti notizie. Il ragazzo sapeva di Galileo e delle sue scoperte, dei satelliti medicei, delle costellazioni, del sistema solare. Conoscere tante cose più degli altri di consueta frequentazione gli dava una sottile, gradevolissima ebbrezza.
Ma il momento culminante non era ancora arrivato. Lady Sybille si era alzata in piedi; insieme al tecnico, il Fantechi, consultava un librone aperto e appoggiato sopra un alto sgabello, illuminandone le pagine con una piccola torcia elettrica. I due parlavano in un pittoresco garbuglio italo-inglese, poi spostavano di qualche centimetro o millimetro l’angolazione del poderoso cannone. Finalmente Lady Sybille lanciò un grido trionfale: “Oh, here it is at last!” Cos’era mai? Clé notò che tutti si stavano eccitando e che si erano alzati in piedi, come per far la coda all’arrivo d’un principe o di un cardinale. “Ha trovato la nebulosa d’Andromeda!” esclamò la mamma all’orecchio del ragazzo. Dopo un lasso di tempo che parve di penosissima lunghezza, mentre i grandi osservavano o commentavano lo spettacolo con espressioni di meraviglia e d’incanto, finalmente toccò a Clé. Appena il ragazzino pose l’occhio allo strumento, ecco una visione da togliere il respiro. Nonostante un certo tremolio (dovuto, spiegava Lady Sybille, alle evaporazioni dell’atmosfera), si scorgeva benissimo un immenso vortice di luce, un fuoco leggermente inclinato, come una ruota impazzita, o come una girandola d’artificio, ma ferma e silenziosa. Se toglievi l’occhio dallo strumento notavi appena un puntolino luminescente in cielo: se tornavi all’oculare, ecco, come sospesa sul nulla, la meraviglia.
Per Clé fu un’esperienza indimenticabile, fondamentale; una di quelle poche “date cerniera” della vita, che segnano aperture o chiusure di capitoli. A quel tempo (correva il 1922 circa) l’astronomia doveva ancora subire i mirabili sviluppi caratteristici dei decenni successivi, a opera soprattutto di Edwin Powell Hubble e dei suoi collaboratori. Oggi sappiamo che la nebulosa d’Andromeda è una galassia totalmente al di fuori del nostro sistema stellare, distante da noi circa due milioni di anni luce, dal diametro calcolato tra i cento e i duecentomila anni luce. Ma allora, specie per degli astronomi dilettanti, era ancora una “nebulosa”, un oggetto anomalo, quasi fantastico, squisitamente problematico, del cielo. Un gran fiore tra le costellazioni, un piccolo lago ellittico di luce, una piuma del Creato. Cosa fu che scosse tanto Clé? Forse il fatto che la nebulosa, e le altre meraviglie intraviste nel cannone, Giove con i suoi satelliti, Saturno con il suo vago anello, erano “là fuori”, oggetti giganteschi, lontanissimi, indipendenti dall’umanità: essi “stavano là” prima che noi nascessimo, e “sarebbero stati ancora là” dopo che tutti noi, l’umanità intera, saremmo scomparsi. Era quasi come toccare, vedere Dio, o qualche suo lembo estremo di veste, o per lo meno una sua Bâbiâli (Sublime Porta), o un suo Mikado (Augusto Cancello).