2. Il 2000: data esocosmica o no?

Una decina d’anni più tardi, da studente universitario, Clé formulò tra sé, quasi per filosofico scherzo, due termini – “esocosmo” ed “endocosmo” – che gli dovevano, allora e in seguito, dar conto abbastanza soddisfacente di numerosi aspetti del gran panorama “esistenza”. Certo, un filosofo di quelli coronati e garantiti avrebbe riso, riderebbe, dinanzi a categorie tanto rozze, stagliate nell’apparente caos delle Dinge in Allgemeine (delle cose in generale), non con la finezza di un rasoio, ma con la brutalità di un’ascia da boscaioli.

Eppure, nella praticaccia d’ogni giorno i conti tornavano abbastanza bene. L’esocosmo (o addirittura, per semplificare, l’“eso”) era “il mondo di fuori”, quello che volgarmente viene chiamato mondo obiettivo, la realtà, i fatti, le cose, l’oceano d’oggetti, eventi, episodi, nel quale nuotiamo, dal primo vagito all’ultimo gemito. Squisitamente esocosmica è la cosiddetta natura, tutto ciò che ha un’esistenza propria, indipendente dall’umanità; tutto ciò che resterebbe intatto, a umanità soppressa. In questo semplicissimo senso un fringuello, una cascata, un gelsomino, sono puro esocosmo. Esistono, furono, saranno; anche a obliterazione di uomini e donne, di famiglie, governi, papi e presidenti, chiese, accademie, filosofie, letterature e arti. Ovviamente la nebulosa extragalattica d’Andromeda rappresentava l’esocosmo in modo emblematico e perentorio, glorioso e sublime.

Con l’endocosmo, con “il mondo di dentro”, siamo invece al cospetto del ricchissimo e infinitamente complesso patrimonio interiore della specie umana. Rozzamente (sì è ovvio c’è tutta la gnoseologia di mezzo) si potrebbe dire che l’endocosmo (chiamato anche per ragioni di brevità l’“endo”) è semplicemente l’esocosmo digerito attraverso i sensi, ristrutturato dalla ragione, e rivissuto negli spazi dell’anima, della mente, della memoria, della cultura d’ognuno. In questo senso il termine endocosmo è abbastanza simile, nei suoi significati essenziali, a quel mastodontico mobile linguistico tedesco, la Weltanschauung, che suggerisce alla mente un dotto Sig-niore alemanno, seduto sopra una rupe, che sciaua, guarda, osserva, il mondo, e ve ne dà contezza di contenuti e significati. La Weltanschauung di Epicuro è ben diversa da quella di san Tommaso d’Aquino, la Weltanschauung d’un pastore sardo ha poco in comune con quella di un industriale milanese. Osservando le medesime realtà in regime di endocosmo, si ribaltano però i termini: non si esamina più lo sguardo del soggetto sul mondo, bensì la proiezione del mondo nel soggetto.

Proiezione che può essere individuale, e anche collettiva. Si ha un mondo (un eso) che si proietta nell’io, ma anche un mondo (un eso) che si proietta nel noi. L’endocosmo di Shakespeare è ben diverso da quello di Gabriele d’Annunzio, l’endocosmo di Dante mal s’appaierebbe a quelli di Casanova o di Cagliostro. Parimenti l’endocosmo di un musulmano sciita è sicuramente forestiero a quello di un professore liberale di Harvard o di Yale, gli endocosmi francese e tedesco, cinese e giapponese sono costantemente rimasti in contrasto tra di loro lungo i secoli, l’endocosmo d’un whig inglese del Settecento differiva radicalmente da quello di un bramino indiano sotto l’impero d’Aurangzeb. Tra parentesi, non dimentichiamo che la maggioranza delle guerre che costellano la storia umana furono e sono disastri endocosmici, disastri dovuti a scontri e scintille creatisi tra placche continentali endocosmiche in collisione tra loro.

Il massimo problema di tutta la storia interiore umana è quello che riguarda il ponte, o i ponti, tra endocosmo ed esocosmo, tra il mondo dei pensieri, delle fedi, delle filosofie, e quello dei fatti, delle leggi naturali, delle cose. I terricoli si sono armati nei millenni di religioni, di filosofie, di scienze per scovarne svariatissime soluzioni, nessuna finale, accettabile da tutti, indiscutibile. Facciamo un esempio. Stiamo avvicinandoci all’anno 2000. Ora questa data fatidica è puramente endocosmica, o è anche in qualche modo esocosmica? Non c’è niente da ridere, il problema è dei più seri. Cosa celebra infatti questa bella cifra festosa e rotonda? La nascita di un certo Yeshua ben Yussuf, in un dato punto della Galilea. Se il nostro endocosmo personale ha lineamenti agnostici, laici, atei, o anche ariani (nel senso dell’eresia di Ario), oppure islamici, buddisti e via dicendo, il 2000 è data puramente convenzionale e quindi endocosmica, direi quasi casuale, un fatto che rientra nello svolgersi della storia umana e dei suoi numerosi calendari, senza esorbitarne in alcun modo. Potremmo anche trovarci nel 2753, se partissimo dalla fondazione mitica di Roma, nel 5760 se fossimo d’accordo con gli ebrei ortodossi, o nel 14.000 circa, se prendessimo l’avvio dalla fine dell’ultima glaciazione, quella wurmiana. Ma se, come avviene per molte persone che accettano un particolare endocosmo assai diffuso nel mondo, quello cristiano, si è dell’avviso che duemila anni or sono sia nato il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, il Redentore e via dicendo, la visuale cambia radicalmente. Yeshua ben Yussuf, volgarmente detto Gesù, collega in qualche modo (lo definisce la teologia) l’endocosmo con l’esocosmo, la storia umana e la natura, le vicende della specie e quelle delle galassie: abbiamo a che fare con un membro della Troika suprema insediata nella stanza dei bottoni dell’universo.

Per i credenti, dunque, il 2000 è data squisitamente esocosmica, perché riguarda il Tutto, segna il ricordo d’un Evento Assoluto; coinvolge non solo il pianeta Terra, ma il Cosmo, inclusa la nebulosa d’Andromeda. Su questo punto cruciale le vie del laico e del credente divergono in modo sostanziale e definitivo.