3. Tra marre e rastrelli, bigonce e corbelli

E ora un salto improvviso, funambolesco, da una scena del teatro-vita, al suo opposto. La sera: partecipazione all’atto liscio, eccelso, gentilizio, internazionale, colto, astronomico, ricco e mondano, ricercato e privilegiato di Lady Sybille; il mattino dopo, ore sei, tuffo in quello terrigno e plebeo, rionale e ortofrutticolo, di Martino e della Gemma, di Viviana e Nerina, di Giovacchino e di Cesira, della Settima detta (in segreto) “la Serpe”, e di Zaccaria detto (da tutti) “lo Stianto”. La sera sherry, whisky, succhi di frutta inglesi (lime juice), strumenti costosi tedeschi in bronzo lucidato, scialli di cachemire, sandali d’oro, collane di turchese, anelli di giada, cameriere in uniforme con vassoi d’argento, eleganti futilità, colte finezze, sospese tra metafore e sorrisi; la mattina patate, salsicce, cesti di pomodori, vanghe, forconi, falci, zappe, pale, marre e rastrelli, bigonce e corbelli, concime di vacche e pozzo nero, sudori, berci, grugniti. Ma Clé c’era abituatissimo, anzi, ne godeva. Saltar di girotondo in girotondo gli dava un’ebbrezza (di cui forse aveva appena coscienza) simile a quella provata nel lanciarsi a scimmia sciolta di ramo in ramo del prediletto cedro a molti metri da terra, o d’altri alberi nel bosco dietro casa, o nel podere.

Certo, Clé amava e apprezzava in cuor suo la villa, soprattutto come reggia nella quale troneggiava la mamma. I rapporti con il padre soffrivano di ruggini misteriose, che sarebbero andate incrostandosi e aggravandosi negli anni. Con l’Ida, Clé intratteneva una pallacorda continua di scherzi, tranelli, lazzi, frecciate. Oreste, il giardiniere, un omone, vecchiotto, silenzioso e forse baggiano davvero, aveva di quando in quando l’idea sciagurata di chiamare il ragazzo “signorino”. Clé se la prendeva come davanti a un insulto del tutto inaccettabile. Odiava quella parola, gli riportava alla mente calze bianche e sandali neri di pelle lucidata, cerimoniette, inchini e insulsaggini. Lui era per le cose vere, semplici e senza fronzoli. “Ma sta’ zitto, Oreste,” gridava inviperito, “guarda come corro scalzo sui sassi, sulla ghiaia, sulle stoppie, dappertutto, eh, son cose da signorini? E so anche mungere le vacche, potare gli ulivi, eh, sta’ zitto, macché signorino!” Infine c’era quella regola ferrea, certo d’origine britannica, che imponeva di coricarsi nel letto alle nove precise di sera. D’inverno magari andava bene, ma in primavera e in estate era una crudeltà, un supplizio. Insomma le relazioni tra la villa e Clé avevano anche, nelle loro pieghe più occulte, delle venature d’amodio.

Nulla di tutto ciò accadeva appena Clé varcava quei cinquanta o sessanta metri che separavano la villa dalla casa del mezzadro, dove abitavano Martino e i suoi. Lì non sussistevano incertezze, scontri, riserve, ombre, semi d’amodio: l’abbraccio di cose, persone, odori, muri, suoni, puzzi, contatti, sapori, discorsi, immagini e pensieri era totale, consolante, amoroso. Martino, agli occhi di Clé, era l’uomo perfetto, un maestro, un esempio, un semidio. In realtà era un uomo abbastanza fuori dal comune. Aveva circa trentacinque anni, era alto, ma non troppo, muscoloso, bruno di capelli (ma con tendenza alla calvizie), e regolarissimo di collo, capo e volto. Anni più tardi, ricordandolo, Clé se lo definiva come un “ortòmo”. Non perché facesse (anche) l’ortolano, ma per confluenza della radice uomo con l’altra più dotta d’orto, l’orto per intendersi d’ortografia, ortopedia, ortodossia eccetera: insomma Martino era “l’uomo conforme alla norma, l’uomo modello, l’uomo archètipo”.

E Martino era ortòmo non solo nel profilo di statua donatelliana, ma nelle dimensioni interiori di contadino mediceo. Martino sapeva tutto del podere e del bosco, dei campi, delle prode, dei balzi, dell’orto, sapeva quando seminare e quando raccogliere, come potare e come innestare, come arare e come sarchiare, era abile nel trapiantare e nel mettere tutori a pomodori, a fagioli, tracciava con la marra solchi dritti come fossero segnati con il filo, indovinava le malattie delle piante dai più fuggevoli segni, e ne conosceva i rimedi, era ingegnoso nel distribuire l’acqua per annaffiare gli ortaggi, curava le vacche, riusciva a riparare arnesi e orci e, se capitava, faceva benissimo anche il muratore. Si alzava all’alba e lavorava tutto il giorno, spesso cantando. In genere indossava – come usava allora – vecchie divise rimastegli dalle militanze del ’17 e del ’18. Qualche volta andava a caccia con un fuciletto che sembrava un giocattolo: conosceva canti, fischi, zirli, chiurli, chiòccoli, gorgheggi e ciangottii di tutti gli uccelli della zona. Una volta stanò una volpe, ma, ahimè, non la prese.

Sua moglie, la Gemma, d’una trentina d’anni, era a detta di tutti “una bella sposa davvero”. I capelli li aveva castani, la sua pelle era dorata e prendeva a meraviglia il sole. Tutto sommato, pur essendo una genuina toscana, la si sarebbe detta una prospera slavotta della Vojvodina o del Kosovo. Martino e Gemma avevano due figlie, Viviana e Nerina: Viviana, poco più piccola di Clé, era spesso sua compagna di giochi.

La seconda guerra mondiale e le travolgenti trasformazioni dei decenni centrali del secolo segnano uno spartiacque d’importanza ancora indecifrabile tra secoli e secoli di passato e un presente, un futuro, dai lineamenti diversissimi, in parte incomprensibili. Alcune semplici invenzioni si sono dimostrate rivoluzionarie: la plastica e il gas in bombole. Negli anni venti l’acqua e gli altri liquidi si trasportavano in recipienti di rame (le mezzine), o in brocche di coccio, oggetti tra l’altro dalle forme tradizionali di fattura gustosissima: oggi in cucina, nella stalla, nell’aia, dappertutto impera la plastica, magari accettabile da nuova, ma esecranda e vomitevole da vecchia e faticata. Negli anni venti si cucinava, e ci si riscaldava durante l’inverno, con un autentico, scoppiettante, atavico fuoco di frasche e di legna. Allora, in una piccola azienda agricola come quella nella quale operava Martino, si può dire non esistessero macchine. Per l’aratura venivano da fuori due candidi bovi a tirare il vomere, affittati da un certo Borgiani, detto “Crispo”, un tipo altero e difficile che teneva Clé al di fuori d’ogni confidenza. Per il resto tutto si lavorava a mano. Motosega? Ancora da inventare! La legna si faceva a pezzi con la sega manuale, o si scosciava con l’ascia: tagliare un albero era lavoro da vero artigiano, difficile e faticoso. L’erba, il grano, tutto si falciava con le braccia. Per ogni sorta di legatura, da quella dei covoni di cereali, a quella delle viti ai loro alberi d’appoggio e di tutela, si usavano liane, steli, virgulti dei campi: in particolare i getti rossi dei salici, che Martino sapeva ripiegare in nodi di semplicità mirabile e di saldezza duratura. La concimazione dei campi si faceva con lo stallatico di vacca (il cui odore doveva rimanere per sempre, nelle narici di Clé, più come un georgico profumo che come puzzo vero e proprio).

Per l’orto (chiamato “il Pozzino”, perché vi si trovava una cisterna d’acqua), veniva invece impiegato il pozzo nero. In cosa consisteva? A quei tempi, come nel Medioevo, come ai tempi di Roma, non esistevano sifoni e sciacquoni (invenzioni inglesi del diciannovesimo secolo); i bisogni, piccoli e grossi, si facevano seduti sopra una panchina di pietra, munita al centro di un foro del diametro di circa venti centimetri, coperto, nei momenti in cui non si adoperava, da una lastra circolare di marmo con una maniglia in ottone o in bronzo. Feci e orine – per dirla alla fiorentina, merde e pisce – cadevano poi in una grossa cisterna (e Clé ne ricordava i rumori caratteristici, uno splosh! a evacuazione sciolta, un cataplak! a stronzo sodo) dove il tutto fermentava per settimane, o magari per mesi. Il puzzo della cisterna era molto meno fiero e offensivo di quanto i nipoti del tardo ventesimo secolo sarebbero portati a immaginare: con la fermentazione, la brodaglia si stemperava e discioglieva, trasformandosi in un liquido fusco, dai riflessi talvolta madreperlacei, che emanava un odore caratteristico, diversissimo da quello, veramente disgustoso, delle feci neonate. Non dico sfiorasse, come avveniva per i campagnoli in ispirito, un quasi profumo, alla maniera dello stallatico di vacca o di cavallo, ma insomma era possibile conviverci assai bene.

Siccome il pozzo nero prodotto dalle due famiglie (padroni e mezzadri) non bastava per la sete infinita dell’orto, al centro dell’aia, dinanzi alla casa di Martino, era stata costruita, chissà quando, una capacissima cisterna, chiusa da un tombino di pietraserena. A quei tempi solo le case di lusso avevano gabinetti moderni, solo poche strade delle vere fognature. Chi può spingere i ricordi sino agli anni venti, e anche trenta del secolo, ricorderà benissimo il baccano che facevano per le strade fiorentine certi macchinari primordiali azionati a vapore, i quali servivano a pompare fiumi di pozzo nero dai depositi condominiali, lungo tubature improvvisate, fino a capaci carri-botte color cilestrino, trainati da possenti cavalli. Clé non avrebbe saputo dire attraverso quali contatti amministrativi si organizzassero queste cose, ma ogni tanti mesi arrivavano su per il viale della villa, e si dirigevano poi all’aia di Martino, tre o quattro di quei famosi carri-botte: i poveri cavalli che li trainavano erano costretti a fatiche da Sisifo per l’ultimo tratto del percorso, ripido, fangoso e in curva. Clé provava pena per le bestie, ma restava incantato dalla scultura vivente dei loro muscoli titanici in azione, appena rivestiti da una pelle lucida color cioccolato. Finalmente il nutrito e schifoso liquame delle notti veniva travasato, via tubi sciagurati che perdevano da tutte le parti, nella grande cisterna dell’aia. Tra Martino e i bottai sorgevano sempre furiose discussioni, chissà per quali ragioni, condotte tra gesti teatrali e valanghe del fiorentinaccio più volgare, aspirato a tal punto da divenire un incomprensibile dialetto: “O t’un potei infilar la manihetta, o hoglione, o bischeraccio? Accident’a te e la mayala di to’ mae...”

Appena si avviavano queste pestilenziali operazioni, la mamma di Clé si affacciava a una finestra o a un terrazzo della villa, e chiamava disperatamente il figlio: “Now, Kleh, come home! Leave that dirty business. Come home! You’ll get no cakes for tea, if you don’t come up immediately!” A Clé dispiaceva sinceramente, e molto, dare del dolore alla mamma, però lasciare l’aia per una mera ventata del puzzacchio di pozzo nero era debolezza vergognosa, tipica dei signorini, cioè della categoria più odiata e disprezzata tra gli esseri umani. “Oh mummy, perché non capisci?” gemeva Clé. In quelle circostanze il ragazzino si sentiva montare in cuore un odio violento per la villa, per i suoi abitanti, per gli impiantiti lustri, le vetrine, i sofà comodi preparati per le visite, i complimenti e le cerimonie sociali. “Perché non capisci? This is real life. I don’t want your wishy-washy niceness. Who cares for your cakes! I like merda!” Clé si sentiva come un barbaro delle steppe che fracassa con voluttà case, possessi e campi di quei melmosi degli stanziali, dei cittadini. Il piccolo anglo-becero diveniva ingovernabile. Qualche volta, se si trovava in casa, la mamma chiedeva l’aiuto del babbo. Ohi, quelli sì che erano momenti tremendi! Il dottor Raimondi era alto e forte, un po’ come Martino (di cui aveva all’incirca la medesima età): in quei casi compariva sulla scena, sempre vestito con il massimo decoro, l’antimerda assoluto, e senza dire una parola stringeva cinque dita d’acciaio intorno a un braccio di Clé, e se lo riconduceva dritto dritto verso la villa.

Un’altra operazione tipica di quei tempi – molto più semplice, domestica e intima – aveva luogo di quando in quando. La Gemma versava dentro un pentolone monumentale di rame, appeso a un gancio del camino, sopra un gran fuoco di frasche e legnucce raccolte per i campi, secchi d’acqua e palate di cenere, che poi girava e rigirava con un cucchiaione di legno mentre montava il bollore: preparava il cosiddetto “ranno”, una brodaglia color birra che serviva per fare il bucato. Lenzuola, federe, camicie, una montagna di roba sporca, veniva gettata in una grossa e capace conca di terracotta (suonava quasi come una campana quando la si spostava vuota da un posto a un altro), e sul tutto si versavano secchi di ranno. Clé si ricordava ancora quando, in casa di Martino, non c’era la luce elettrica e si cenava al chiarore di lampade a olio, poco diverse da quelle che si vedevano nei musei d’antichità etrusche o romane. Un giorno arrivarono però degli operai solerti in tute blu, fissarono fili ai pali e sui muri, congegnarono interruttori e punti luce, infine tutti celebrarono l’evento come “un gradino benedetto nel Progresso”. L’acqua corrente però non arrivò mai. A due passi dalla cucina, al limitare dell’aia, si trovava un antico pozzo, largo, profondo, capace, ricco d’acqua tanto buona che anche “quelli della villa” venivano a prendersela per bere. Clé si sentiva sommamente felice quando la Gemma gli dava l’incarico d’attingere un paio di mezzine d’acqua dal pozzo: il fatto sottolineava la sua piena partecipazione alla vita del podere. La fune era di canapa, e promanava un odore caratteristico: come caratteristico era il suono dei colpi del secchio, calato qui nel buio, quando batteva contro la superficie dell’acqua. Ci voleva una certa arte per far piegare il recipiente su di sé, e quindi per farlo riempire di liquido. Dopo di che, tirar su il secchio ripieno dava quasi la soddisfazione di chi getta l’amo in mare, o in fiume, e avverte che il pesce ha abboccato.

Ma un fatto distingueva in modo particolare quegli arcaici tempi, e differenziava nettamente gli inizi del ventesimo secolo dalla sua fine: allora i contadini, da maggio a fine settembre, e magari sino a metà ottobre, lasciavano nei loro armadi di casa le scarpe, le ciabatte, gli zoccoli, e andavano in giro scalzi per i lavori nei campi. Esattamente come i contadini e le contadine del Pontormo nel celebre affresco d’una lunetta della Villa Medici a Poggio a Caiano, trecento anni prima. Nel 1920 e dintorni non si era ancora profilata all’orizzonte la Grande Rottura, il Grande Spartiacque nei modi di vivere. Clé viveva come un atto intimo d’affermazione e d’orgoglio gettar via scarpe e sandali prima degli altri. “Guarda Martino, vò già scalzo!” esclamava magari a fine aprile, quando la pelle ancora tenera e sensibile dei piedi avvertiva il freddo della terra, anche se le erbe, i ranuncoli, le calendule erano soffici come cenci di seta. Con l’avanzare dell’estate tutti, Clé compreso, finivano per avere alle piante dei piedi una specie di suola naturale, un durone insensibile, che permetteva di correre tra petraie e dirupi, tra frasche e spine, come nulla fosse. Per Clé l’andare scalzo era segno amatissimo d’una propria segreta identità: avvertiva con orgoglio di portare in corpo il suggello, lo stemma, di colui che nulla ha da spartire con l’odiato signorino. Per fortuna in casa, salvo momenti speciali, non venivano sollevate obiezioni. Un certo lato spartano e militaresco della componente domestica inglese vedeva di buon occhio questi segni di vita “semplice, sana, naturale”.

Qualche volta avveniva che Clé inciampasse in un sasso puntuto, in un chiodo, in una scheggia di legno o di vetro; allora zoppicando e perdendo del sangue cercava la mamma per farsi medicare e fasciare. E qui Clé percepiva gli invisibili muri d’atteggiamenti e d’idee. Quando qualche compagno, o amichetta di giochi, si faceva male e correva dalla mamma italiana, la reazione della donna era d’amoroso compianto: “Oh poverino, che ti sei fatto? Ora ti medico io, vedrai che non è nulla... Poverino, amore, vieni dammi un bacio...” Con la mamma inglese invece nulla di tutto ciò: “Now, brave boys don’t cry... Smile!” faceva lei, magari cospargendo la ferita con tintura di iodio (allora si usava come disinfettante) o con alcol, entrambi per qualche secondo diabolicamente dolorosi e brucianti.