4. La Settima
Martino non era legato solo alla sua famiglia (Gemma e le due bimbe, Viviana e Nerina), ma faceva parte di un clan vasto e possente, agli occhi di Clé assolutamente leggendario. A capo del quale stavano il nonno Giovacchino e la nonna Cesira, coppia che abitava in una solida casa colonica tra Poggio Secco e Làstrico, a sud di Firenze, insieme a Floriano, il figlio maggiore, e la famiglia di lui. Giovacchino, vicino ai settanta, era piccolo, mingherlino, con una bellissima faccia da filosofo incorniciata da canizie, e vestiva sempre dignitosamente da contadino, cioè con camicia senza colletto, grembiule pulitissimo puramente decorativo di tela blu, e cappello nero in capo. Era soave, non alzava mai la voce, regnava sulla casa e sul clan per semplice presenza, per squisitissimo carisma. Tutti gli davano del “Voi”. A Ricòrboli compariva di rado, e Clé se lo ricordava in conversazione con il babbo, il dottor Raimondi, leggermente chinato in avanti (ma non saranno stati i reumatismi dell’età?) e con il cappello nero continuamente rigirato tra le dita.
Figli, l’anziana coppia ne aveva avuti chissà quanti, e tra maschi e femmine ne sopravvivevano ben sette. Clé li conosceva tutti, ma solo tre o quattro gli si presentavano alla mente come tagliati in luce ben chiara. Floriano, il maggiore, era un po’ come Martino, anche lui un ortòmo, ma più altero e autoritario. Del tutto diverso da questi due era Renato, poco più che ventenne: di volto ricordava un sileno, di sagoma e mosse una scimmia. Più che camminare saltellava di qua e di là con passo agile e goffo allo stesso tempo, rideva spesso e volentieri, aveva sempre trovate libertine. Un giorno che era a Ricòrboli, vide passare la Phyllis e Gentile. “Come si chiama la bella bimba?” chiese a Clé. Quando sentì che il nome era Phyllis, rise sguaiatamente. “Ah, Sifilide!” continuava a esclamare, fin quando Martino gli disse: “Chètati, bischeraccio!” Clé capì solo molto più tardi il macabro gioco di parole.
Ancora diversa dagli altri era l’ultima figlia dei vecchi, chiamata appunto Settima. Avrà avuto diciott’anni, ma per un ragazzino poteva dirsi più che adulta. Era lunga, magra, scura di capelli e di pelle, a detta di tutti bruttissima. Forse per questo portava quasi sempre un fazzoletto nero in capo, annodato sotto il mento. Nel suo corpo ossuto doveva possedere una gran forza: infatti veniva d’inverno ad aiutare nella vangatura dei campi. Strano come certe persone si sposino con certe stagioni. Clé non sapeva quasi immaginare la Settima d’estate: lei s’inseriva invece a perfezione nell’inverno, con il freddo, con la luce grama di talune giornate nuvolose. Un giorno Martino s’era lasciato scappare un curioso apprezzamento: “Chi vuoi che la sposi la Settima? Da grande farà la maga...” Forse per questo Clé provava una misteriosa attrazione per la ragazza. Non c’era ancora nulla di erotico in questo sentimento, senza contare che Clé viveva allora totalmente al di sotto dell’orizzonte sessuale. Si trattava di un fascino d’altro genere. Più volte Clé s’era trovato a sedere sull’erba da solo, mentre la Settima instancabile vangava, quasi fosse un rito doloroso d’ascesi mistica. La Settima parlava poco con tutti, eppure per Clé aveva fiumi di notizie. Gli raccontava, per esempio, la Creazione del mondo. “E poi Dio seduto sopra una nuvola disse: ‘Fiatte lusse!’ e non ci fu più il buio...” Clé amava in modo particolare le storie che riguardavano la serpe, che la Settima raccontava con inaspettata enfasi drammatica, quasi si sentisse invasata e parlasse, non solo al ragazzo, ma a un’invisibile folla seduta lì intorno, sulla proda del campo. “La serpe salì giro giro sull’albero di centro, e gli fece all’Eva: ‘Assaggia, assaggia il pomo, vedrai he saporino... Te e Adamo diventerete ricchi, signori, capirete ognihosa...’ Invece arrivò Dio infuribondato e li hacciò d’ipparadiso.” “E la serpe? Raccontami della serpe, Settima.” “La serpe? Iddio puntò il dito sulla bestia,” e giù il dito di Settima sulle zolle, “e poi disse: ‘Tu sara’ malidetto e stramalidetto animale schifoso! Da ora innanzi striscerai sul ventre e mangerai la terra per sempre. Tu serpe, sara’ malidetta, stramalidetta...’” “O che l’hai mai vista la serpe, Settima?” La Settima smise di vangare e si chinò quasi all’orecchio di Clé: “Certo che l’ho vista, d’estate strisciano nell’erba... Se uno ci sa fare, si può anche prendere pel collo; non fa nulla, basta conoscere il trucco!” “Ma allora,” esclamò Clé, “sei davvero una maga!” “Io maga?” gridò come presa da una rabbia improvvisa, isterica. “Va’ via, sfacciato, levati di torno...” Alzò la vanga, come per colpire il ragazzo, ma quello svelto come una lepre era già scattato lontano.
Un’altra predica caratteristica della Settima riguardava i ricchi che non potevano entrare in paradiso. “O Settima, raccontami del cammello!” faceva Clé quando riusciva ad avvicinare la ragazza al lavoro da sola, in qualche proda mezzo dimenticata del podere. Dopo molte preghiere, la Settima acconsentiva. Allora smetteva di vangare, s’appoggiava alla stanga dell’arnese conficcato in terra e proclamava: “A Giesù gli chiesero: ‘Che dobbiamo fare per meritare i’ pparadiso?’ E lui gli disse tante hose. Rispettare e’ comandamenti eccetera... Ma poi aggiunse: ‘Vendete e’ beni vostri e date tutto a’ poveri... Perché gli è più facile che un cammello passi per la cruna d’un ago, che uno ricco e gli entri nel regno de’ celi.’ Hai capito, Clé?” E il ragazzo immaginava penosissimamente gli sforzi d’un bestione spropositato che cerca invano d’infilarsi nella cruna d’un ago... Che angoscia! Meglio, meglio restar poveri per sempre.