5. Cacche di vacca, chicchi di grano
“Non t’arrampicare sul fico, ci sono i rizzaculi,” disse la Viviana a Clé. I rizzaculi erano delle minuscole rabbiose formichette le quali, in processioni nutritissime, salivano e scendevano lungo il tronco del fico. Se lasciate tranquille, correvano su e giù con solerzia e fervore, soffermandosi solo ogni tanto per brevi incontri o scambi di notizie, tramite le loro microscopiche antenne soffregate l’una contro le altre; se però le disturbavi, cominciavano a girare in confusione con i protervi culi rizzati per aria – donde il nome. In quello stato, se ti venivano addosso, pungevano: non facevano un gran male, ma avvertivi benissimo il morso. Clé le conosceva bene, e spesso si divertiva a riempirsene il palmo d’una mano, con la quale poi minacciava di carezzare Viviana. La bambina, si capisce, scappava gridando in una specie di paura divertita. Quella volta Clé era salito sul fico, nonostante i rizzaculi, perché molti frutti apparivano maturi e invitanti, qua e là sui rami. Clé li coglieva, e alcuni ne mangiava (dolcissimi, gustosi!), altri ne buttava giù alla Viviana, che apriva il suo grembiulino per accoglierli.
In quel mentre si sentì la voce forte della Gemma, giù dalla spianata di fronte a casa, che gridava: “O Viviana, vieni giù per aiutare il babbo. C’è da preparare l’aia per la battitura.” Viviana, obbedientissima, lasciò subito i fichi e corse dai genitori. Il povero Clé restò lì da solo; e rimase malissimo. Ecco, al solito, perché la Viviana sì e lui no? Nessuno capiva quanto lo umiliasse restar fuori dai lavori dei campi, dell’aia, di casa! Allora era davvero un odioso signorino? Passo passo, inghiottendo l’umiliazione che nessuno avrebbe capito, Clé scese giù; poi, come avveniva spesso, finì comunque per prendere parte ai lavori. L’aia di fronte alla casa di Martino era piuttosto piccola, irregolare, e in terra battuta: niente a che vedere con le belle aie rettangolari, lastricate, chiuse da un muretto, magari con i vasi di fiori, di tante altre case coloniche, per esempio quella del nonno Giovacchino. Di conseguenza, quando arrivava il momento della battitura, bisognava compiere un’operazione arcaica e strana, ma molto efficace. Martino riempiva dei secchi metallici con cacche di vacca, liberandole per quanto possibile dalle pagliuzze dello strame, e poi senza tanti complimenti, con la mano forte e il braccio nerboruto, rimescolava la pasta brunastra con acqua. Il liquido veniva versato sulla terra battuta dell’aia, e disteso ovunque con cura a mezzo di scope. C’era quindi da fare per tutta la famiglia (e anche per Clé). La brodaglia, che emanava un odore tra il puzzo e il profumo campagnolo forte, si rapprendeva in poco tempo formando come una sorta di laccatura dell’aia, impedendo che pulviscoli e sabbie si mescolassero con i chicchi del grano durante la battitura. Anni più tardi Clé si sarebbe ricordato di questa vetusta operazione, ritrovandola compiuta in modo quasi uguale sulle aie del Madhya Pradesh, in India, quando ormai in Italia l’uso era sparito del tutto.
Nel poderetto coltivato da Martino e dai suoi (di appena due ettari), come del resto avveniva in una buona parte della Toscana, specie nel Fiorentino, nel Pistoiese, nella Lucchesia e nel Chianti, si produceva di quasi tutto un poco. Questo significava che uomini della specie di Martino dovevano essere degli artigiani d’altissimo livello. Con una dozzina di prodotti diversi sotto mano, occorreva sapersi destreggiare alla maniera di veri calendari ambulanti: quando e come arare, vangare, concimare, seminare, trapiantare, potare, innestare, raccogliere – operazioni che spesso offrivano margini temporali di pochi giorni – tutto ciò significava portare in testa e nel sangue un’intera enciclopedia agraria. Clé non aveva mai visto Martino con un libro in mano, per la semplice ragione che quello aveva imparato il mestiere, con tutti i suoi segreti, seguendo fin da bambino il nonno Giovacchino e il fratello maggiore. Clé lo vedeva invece spessissimo studiare, osservare, interrogare la luna. Tra Martino e la luna, sia piena che a falci, avevano luogo dialoghi continui e sapienti: l’astro lucente e capriccioso, che ora sorgeva di qua e ora di là, fungeva da madre, da maestra, da sostituta del consorzio agrario. Certo, in tempi remoti Martino l’avrebbe adorata come una dea.
Da un punto di vista economico le uniche coltivazioni veramente redditizie di Martino potevano essere quelle che riguardavano ortaggi e frutta che infatti l’uomo curava con gran lena. Tra l’altro, a quei tempi, esisteva ancora intorno alle città la cosiddetta “cinta daziaria”, una sorta di confine interno che separava la campagna vera dall’abitato. I prodotti della campagna pagavano una certa tassa, un dazio, quando scendevano dai colli dei dintorni ai mercati cittadini. La villa di Ricòrboli, con il suo podere, si trovava all’interno della cinta daziaria, dunque godeva di notevoli vantaggi rispetto ai rivali esterni. Altre colture potevano dirsi veramente fossili, facevano parte cioè del mondo interiore contadino d’allora in quanto eredità di tempi lontani, più rigorosamente dominati da necessità, diciamo, curtensi: esse rappresentavano uno sport economico, una musica per lo spirito, non una vera necessità. Sarebbero stati subito da citarsi il grano e il pane, l’uva e il vino, gli ulivi e l’olio. Il terreno coltivato a grano si riduceva a poche centinaia di metri quadri, anche perché si operava una giudiziosa rotazione tra cereale ed erbe mediche, o fagioli. Ma il grano, come il riso per gli agricoltori giapponesi, non era solo un prodotto, una derrata, bensì un dono divino, una sostanza sacra, un onore contadino. Alla fine, è vero, uscivano dal forno di casa delle pagnotte dal profumo inebriante, che si divoravano con vero spirito d’eucaristia, ma quanto erano costate in termini di lavoro, fatiche, guadagni omessi, e spese nude e crude? Meglio non pensarci! Lo stesso poteva dirsi per le viti e per quelle poche damigiane di vinaccio riottoso che si spillavano dai tini. Meno chiaro sarebbe stato il discorso per l’olio, e in ogni caso si sapeva almeno che era un prodotto genuino, non medicato da imbroglioni.
“Bravo Clé, stendi bene il concio con la scopa, passala più volte... Attenti a quelle birbone delle formiche!”
Chissà se la Gemma indovinava mai il sommo piacere che dava al ragazzo con quelle semplici parole? Forse sì, perché era una donna furba, perspicace, sensibile, e voleva un gran bene allo strambo, cocciuto, irrequieto ragazzino di quelli della villa. Clé si sentiva affiliato, integrato, addetto a cose serie, irrevocabilmente lontano dall’odiata qualità di signorino. La volta del pozzo nero l’avevano sottratto con la forza al regno dell’aia, ma per la battitura pareva non ci fossero divieti.
Ormai il gran giorno si avvicinava. Era la fine di giugno, con il sole imperatore in cielo e un venticello fragrante che rivoltava le foglie degli ulivi rivelandone argenti nascosti, o quelle dei gattici nel bosco dietro la villa, candide di sotto come fiocchi di neve. Il concio vaccino aveva fatto presa sull’aia, liscia e soda come fosse laccata di cemento. Erano arrivati i fratelli di Martino a dare una mano: Floriano, fortissimo, sempre sereno, vagamente assente, Renato con un bicchiere di vino rosso in mano sin dall’alba, e con i suoi lazzi osceni incomprensibili, c’era anche la Settima, d’estate un po’ spaesata dal suo magico mondo, e una sorella quasi sconosciuta, la Loredana, più vecchia e ormai inurbata per via di matrimonio, quindi addetta solo alla cucina. Tre o quattro porte di casa erano state rudemente svelte dai cardini, e disposte sull’aia: qualcuno le aveva appoggiate da un lato sopra dei grossi tronchi di legno, formando quindi dei piani inclinati, sui quali si sarebbero “battuti” a gran forza i covoni di grano. Due o tre giorni prima i covoni, ciascuno legato da un fascetto di steli del grano stesso, fermati in un nodo elegante (ma difficilissimo a farsi per un inesperto), erano stati trasportati a spalla dalle prode dei campi fin nelle vicinanze dell’aia, e ammucchiati in una sorta di smisurata muraglia d’oro.
Il lavoro, tra vocio e risate, aveva inizio all’alba. Clé era incapestrato dalla regola ferrea dell’andare a letto alle nove di sera, ma all’altro estremo della notte esisteva piena libertà; del resto, chi mai avrebbe fatto dei controlli? Clé aveva spiato per buona parte della notte il cielo, che si vedeva benissimo dalla finestra semiaperta (estate!) della sua stanza da letto. Ai primi chiarori eccolo saltar su, infilarsi i calzoncini celesti, una maglietta, poi via, scalzo si capisce, verso l’aia di Martino. Gli uomini e le donne stavano ancora mangiando. “Oh, eccolo il fringuello!” scattò qualcuno ridendo. “Sei venuto per guardare o per lavorare, eh?” “Per lavorare!” esclamò serissimo Clé. “Allora piglia un covone e batti!” fece Renato. Clé corse ad afferrare un paio di covoni, e cominciò a batterne uno sul piano inclinato di legno dell’uscio... “Ah, ah!” ridevano allegramente gli omacci e le donne, seduti ancora al tavolo di cucina, ma con la porta spalancata. Martino venne fuori: “Ma non si fa così, strullino! Ora ti fo vedere io...” A parte la maggior forza, l’intero gesto andava riconcepito, facendo quasi volteggiare il covone in aria in modo che poi stramazzasse sulla tavola di schianto, liberandosi, per l’impatto violento, della massima parte dei suoi chicchi di santo grano, che andavano ad ammucchiarsi sopra certe balle vuote distese per terra.
L’arrivo di Clé e l’intervento didattico di Martino avevano ormai dato il via alla giornata. Il sole stava appena sorgendo. Gli uomini si misero al lavoro, ciascuno dinanzi a una porta-tavola di legno. Le donne, le bambine e Clé aiutavano trascinando i covoni, radunando quelli battuti, ormai ridotti a semplice paglia, spazzando l’aia, raccogliendo a manciate in speciali secchi, detti “moggi”, i chicchi di grano, portando ogni tanto acqua da bere. Mamma mia che confusione! “Che casino!” come ripeteva Renato. Ciaff! risuonavano i covoni sbattuti sul legno, e intanto per l’aria si andava spandendo un pulviscolo sottile che i primi raggi del sole segnavano in bande gialline, quasi dorate. Lo splendido, santo, augusto, primordiale casino continuò per ore. Venne il caldo. Tutti faticavano. Volti, braccia, colli, erano ormai impastati da una creta biancastra formata da polvere di paglia e sudore. Ciaff! Ciaff! Gli uomini, non più in vena di scherzi, tiravano avanti come combattenti in una battaglia dura, ma ormai affrontata e perciò da condursi alla fine. Le donne, persino Viviana, la bimba, si erano avvolte il capo torno torno con vari cenci, sembravano delle musulmane in chador; ne spuntavano solo gli occhi. Finalmente si sentirono i rintocchi del mezzogiorno suonati dalla campana della chiesa vicina e ci fu un segno di riposo; mentre la Loredana chiamava dal focolare per dire che la pasta era già buttata nell’acqua a bollore.
Proprio in quel momento arrivò Phyllis, imbarazzata dalla gente, impaurita dalla polvere – e meno male che Renato non la vide: “Mother says you must come back for a shower. All right, all right, you can return here later on. But mother says you must take a shower!” Una volta tanto gli ordini della madre coincidevano con i desideri di Clé: sì, una bella sciacquata ci voleva, i capelli, gli occhi, il collo, la pancia, le gambe, ogni parte del corpo era impastata di polvere paglierina, che per di più pizzicava come gli fossero saltati addosso pulci e pidocchi.
Il giorno dopo si battevano le paglie più vicine alle spighe, rimaste ammucchiate ai lati delle porte, con degli strumenti diabolici: i correggiati. Si trattava di due paletti, uno più lungo e uno più corto, legati tra di loro da una forte correggia di cuoio (donde “correggiato”). Il “diabolico” stava nell’uso dell’aggeggio. Bisognava far destramente girare per aria il bastone più corto, reso potente nel suo colpo sulla paglia stesa a terra dalla forza impressagli dal palo più lungo stretto nelle mani: se uno sbagliava la mossa, avveniva che il palo più corto andava a sbattere contro quello più lungo schiacciando dolorosamente le nocche del correggiatore. Non si sa bene come (forse superando zitto certi insuccessi penosi e sanguinolenti) Clé fosse riuscito a imparare il trucco. Alla seconda giornata di lavoro eccolo sull’aia, con un suo posto in piena regola, accanto a quelli di Martino, Floriano e Renato. La soddisfazione era estrema. Clé si sentiva, per così dire, laureato contadino.
Un gran premio si profilò qualche giorno dopo. Quando si faceva la battitura da Martino, fratelli e sorelle venivano a dargli aiuto. In cambio Martino si recava a dar man forte nei poderi dei fratelli al momento del bisogno. La più importante battitura, e la massima festa, erano quelle che avevano luogo nella casa madre della stirpe, vicino a San Felice a Ema, dove abitavano il nonno Giovacchino e il primogenito Floriano. Dopo aver implorato Martino, nonché le potenze occulte della villa, Clé era riuscito, non si sa bene come, a ottenere il permesso di recarsi con gli altri a San Felice. Il breve viaggio fu compiuto con il calesse di Floriano, tirato da un cavallino nerissimo e forzuto.
La battitura non fu molto diversa da quella di Ricòrboli, ma l’aia era più grande, era ben lastricata, e l’apertura della campagna faceva sì che tirasse costantemente un certo ventolino gentile, portandosi via gran parte della micidiale polvere di paglia. La cosa più eccezionale della giornata fu la gigantesca kermesse del pasto pomeridiano. La cucina a San Felice era molto, ma molto più grande, alta e profonda, di quella a Ricòrboli: Clé se la sarebbe ricordata, anni dopo, leggendo della cucina di Fratta, nell’amato romanzo d’Ippolito Nievo. Il lavoro era stato soltanto interrotto da un panino a mezzogiorno; adesso i battitori, le donne, i ragazzi, si stavano riunendo tutti intorno a un tavolo smisurato, lunghissimo, a cui potevano sedere circa quaranta persone per una sorta di colazione-cena del tardo pomeriggio. Tutti avevano avuto il tempo di ripulirsi, di lavarsi, di cambiarsi almeno le camicie, dunque circolava una certa aria di cerimonia. Il tempo era stato splendido, il raccolto era ormai al sicuro e, si capiva, abbondante; tutto era dunque andato benone. Appena i commensali furono seduti, appena vennero tracannati i primi bicchieri di vino rosso del podere, si scatenò un’allegria fragorosa. Le donne spuntavano dalla cucina con piattoni di pasta, seguiti da pentole di sughi dai forti sapori. E tutti – con la fame che era montata in corpo dopo tante ore di fatica – presero a divorare il cibo con soddisfazione badiale ed espansiva. Poi arrivarono i vassoi con le carni – polli, conigli, tacchini – accompagnate da contorni di patate, verdure cotte, insalate.
Mamma mia, che abbondanza, che chiasso, che festa! Soltanto a un estremo della gran tavolata, dove sedeva candido, etereo, silenzioso, il patriarca Giovacchino (sempre con il grembiule blu, e con il cappello nero in capo) dominava un vago numinoso abbassarsi di voci, un rispettoso ingentilirsi di gesti. Senza saperne la ragione, Clé ripensava ai pranzi inamidati e formali della villa, quando doveva sedere impettito e per benino, rivestito a nuovo e pettinato, per via degli ospiti importanti. Uffa che noia! Qui invece tutto era spontaneo e caloroso, giocondo e sincero. Certo bisogna ammettere che Clé si trovava in una età bastarda, era grande abbastanza per capire tante cose, ma troppo piccolo per apprezzare le sostanziali finezze delle conversazioni di famiglia. Talvolta i “tediosi ospiti” dei genitori potevano chiamarsi Bernard Berenson o Lionello Venturi, David Herbert Lawrence o Norman Douglas: e allora il succo delle conversazioni gli passava per tre quarti sopra la testa. Era comprensibile che il ragazzino fosse più felice nei cenoni da saga presso nonno Giovacchino, che si ripetevano poi in altre occasioni, per le vendemmie o le fienagioni. E Clé avrebbe ritrovato quella fatata sintonia tra carnascialesche godurie del corpo e giovialità spontanea degli umori, solo molti anni più tardi nelle fragorose riunioni degli Ainu, gli aborigeni del Giappone siberiano, per il rito dello Iyomande (dell’invio dell’orso divino ai suoi antenati).