7. L’età delle favole
“Mammina raccontami una favola... Ma di quando eri bambina in Ungheria, ti prego!”
“Te le ho già raccontate tante volte, non ti stancano, caro?”
“Che importa? Dài racconta ancora, mi piacciono sempre, lo sai...”
Se la mammina stava seduta sopra una di quelle vecchie comode sedie di vimini che generavano una sinfonia di suoni strani quando un corpo umano vi s’adagiava, d’inverno sul terrazzo assolato della villa, d’estate nel piccolo giardino a ridosso della limonaia, al rezzo d’un folto d’allori cresciuti a farsi veri e propri alberi, e se Clé riusciva ad accoccolarlesi accanto con il capo sulle ginocchia, e se lei prendeva a raccontare la favola, carezzandogli i capelli, oh ecco allora schiudersi davvero il paradiso! Clé finiva per restare irretito in un incantesimo, quasi un kamugakari, una possessione divina dolce e colorita, più vera di quel mondo cosiddetto reale d’intorno e d’ogni giorno, toccabile, percorribile, mangiabile eccetera. Che importava se la favola era già stata raccontata dozzine di volte? Anzi, la cosa arricchiva di fascino l’evento. La mamma non aveva ancora accennato ai fatti più importanti della storia, che Clé cominciava ad anticipare certi risvolti, certe scene madri, certi particolari – spesso anzi finiva per correggere la mamma: “No, l’altra volta mi dicesti che s’affacciava alla finestra, non sulla porta...” I primitivi e i bambini hanno una visione tutta loro dell’immaginario; la ripetizione non solo viene accettata, ma è gradita, ricercata. Il déjà vu o il déjà entendu sono scoperte dei popoli sofisticati, e degli adulti.
“Dunque vicino a Talya dove abitavamo,” riprendeva la mamma, “c’erano sparse per la campagna pianeggiante delle colline curiose, ripide, geometriche, alcune alberate, altre nude, sai cos’erano?”
“Sì certo, tombe di soldati turchi, ai tempi delle guerre antiche...”
“Ecco, e la gente del posto, tutti contadini simpatici, bravi...”
“Come Martino e i suoi?”
“Be’ sì, però più ignoranti, più superstiziosi. L’Ungheria d’allora non era come l’Italia di adesso... Ecco, la gente del posto diceva che a mezzanotte, nelle notti di luna, alla base delle collinette si apriva una porta, ne usciva una luce paonazza, misteriosa. Poi comparivano centinaia, migliaia di soldati turchi.”
“Con le bandiere, non dimenticare!”
“Sì, con le loro bandiere, vestiti di seta dai colori sfarzosi, con le teste avvolte in turbanti giganteschi...”
“E con le scimitarre ricurve che luccicavano al chiaro di luna, vero?”
“Sì, sì... e partivano, ah, c’era anche la banda...”
“Oh questo non me l’avevi detto... Suonavano?”
“Certo, marce turche... Ti ricordi quella di Mozart che ti piace tanto?”
“Che meraviglia mamma! E dove andavano?”
“Si dirigevano verso la Turchia. Avevano una nostalgia straziante del loro Paese, delle loro montagne, delle loro famiglie, dei loro villaggi. Così traversavano la puszta sconfinata.”
“Erano felici?”
“Immagino di sì. Certo, la morte è triste, ma poter tornare nei luoghi nativi, anche da puro spirito, dev’essere una grande consolazione.”
“E poi?”
“Poi la luna cominciava ad avvicinarsi all’orizzonte, a levante s’intravedeva il chiarore del sole prossimo a sorgere. Allora gli eserciti turchi diventavano sempre più diafani, vaghi, imprecisi, perdevano i loro splendidi colori, erano ormai delle ombre, appena delle ombre... Infine sparivano.”
“Oh mammina, io odio il sole! Pensa che cattiveria. I poveri turchi non potevano tornare ai loro paesi... Chissà quanti li aspettavano laggiù... E dimmi una cosa mammina, tu li hai visti gli eserciti turchi?”
La mamma aveva un attimo d’incertezza. “Ma Clé, sei proprio impegnativo!” avrebbe letto nei suoi pensieri un adulto, vedendola lì un po’ innervosita con il figlio. Eppure non voleva disilluderlo.
“Sì, una volta... siamo rimasti alzati gran parte della notte. Era uno spettacolo indimenticabile, ma avevo tanta paura!”
La mamma conosceva molte altre “favole ungheresi” che incantavano Clé. La sola sommaria descrizione della puszta sterminata, con i suoi cavallari e pastori, dava al ragazzo un brivido di libertà totale. “Non è come qui, vero mammina, che tutto è recintato... Qui ci sono case, strade, campi, reti, muretti... La puszta è il mio sogno, sai? Da grande voglio andarci, a cavallo si capisce!”
La mamma aveva vissuto un’infanzia un po’ speciale; in certi sensi simile a quella di Clé, divisa tra villa e villaggio, tra padroni e contadini, solo che invece dei dintorni di Firenze, aveva respirato l’aria di un remoto borgo ungherese ai confini tra puszta e colline. Suo padre, Patrick (nonno che Clé non conobbe mai), aveva avuto quattro figli, tre femmine e un maschio; Iris (Airis), la mamma di Clé, era la più piccola.
Sua madre, Constantina, apparteneva a una buonissima famiglia polacca, ma era morta poco dopo la nascita di Iris, e questa era cresciuta con il babbo, gran cacciatore, uomo ardito, innamorato dei cavalli. “Avevo appena otto anni,” raccontava la mamma a Clé, “e lui teneva in piedi con le mani una scala di legno d’una dozzina di pioli, mi ci faceva arrampicare sino in cima, poi dovevo scavalcare l’ultimo piolo e discendere dall’altra parte... La scala tenuta nelle sue mani tentennava, ma guai se dimostravo di avere paura!” Il fratello e le sorelle di Iris erano stati spediti in Inghilterra per la scuola, Iris cresceva sotto le cure d’una governante ungherese, trascorrendo più tempo con i contadini e i pastori di Talya che nella villa del padre, attendendo quel limite fatale dei dodici anni, quando anche lei sarebbe stata spedita a Londra per venire educata all’inglese. Come mai il nonno Patrick era finito in Ungheria? Pare che alla morte del bisnonno, non andando d’accordo con fratelli, avesse preso la sua parte d’eredità comprandosi una campagna in un Paese lontano. Gli inglesi alla metà dell’Ottocento erano generalmente più avventurosi degli altri europei; la sterlina era pregiatissima, e fluttuava per l’aria sull’intero pianeta. Inoltre non andava dimenticata una certa fama imperiale per cui il britanno si sentiva a casa propria ovunque.
Per Clé ragazzino, l’Ungheria era terra di fatti leggendari e misteriosi; un Paese dove succedevano costantemente cose impensabili altrove, splendide o terribili. Di tanto in tanto veniva ad aiutare la mamma nei lavori di cucito una donna ungherese di mezza età chiamata Ilona che, sposatasi con un italiano, si era trasferita a Firenze da molti anni. Ora bisogna sapere che Clé, fin da quella tenera età, possedeva un gusto tutto suo, una passione per le parole, per i nomi tanto di luoghi che di persone. “Mercoledì,” diceva per esempio, “è bello, arrotondato e viola, martedì è invece spinoso, nerastro e brutto.” Nel Canada gli piaceva Manitoba, che avrebbe potuto essere il nome di un re (king Manitoba appeared in all his glory on the door...), e fu incantato quando seppe che i suoi cugini inglesi andavano a villeggiare in una località marina della Cornovaglia chiamata Polperro. “Sembra un piatto di carne, in italiano puro, niente miscugli stranieri.” Quando sentì la mamma parlare di questa certa Ilona, s’immaginò subito una femmina soda e possente, restò invece molto male quando scopri che era magra, piccina, occhialuta e timidissima. Però raccontava volentieri storie dei suoi giovani anni in Ungheria, specie quando non c’era anima viva in giro, e lei lavorava per ore alla macchina da cucire.
“Raccontami la storia di Janos e Ilka, dài Ilona!”
“Ilka si poteva ben dire fosse la più bella ragazza del paese, bionda, formosa, tutta latte e miele. Era orfana e viveva con due vecchie zie. Quando lavorava in casa o nell’orto, cantava con voce d’angelo. Tutti i giovanotti del paese erano innamorati di Ilka, ma lei diceva: ‘Sono ancora giovane, l’anno prossimo se ne parla.’ Infatti aveva diciotto anni. Se il pretendente era brutto, o per altro non le andava, diceva ‘Sono ancora bambina, tra cinque anni se ne parla’. Un bel giorno d’estate era sola in casa; le zie erano andate, come quasi tutti quelli del paese, a un grosso mercato che si teneva vicino a un santuario della puszta. D’un tratto comparve sulla soglia della porta di casa aperta...”
“Janos! Vedi che lo so!” esclamava qui Clé, con fare trionfante.
“Sì, Janos... Ilka l’aveva visto solo una volta, ma tra due guardie e con i polsi incatenati. Janos era famoso dappertutto... Era un ladro, si diceva avesse anche ucciso un vecchio ebreo per carpirgli i soldi e l’oro. Contrariamente a tutte le leggi del buon Dio, era bello. Oh bellissimo! Alto, scuro di capelli, ma candido di pelle...”
“E tu l’hai visto, Ilona?”
“Sì, una volta, anch’io l’ho scorto tra due guardie che lo portavano in tribunale. Segretamente (nessuna l’avrebbe mai confessato) eravamo tutte innamorate di Janos! Quant’era bello! Perché Dio fa certe cose? Il cattivo dovrebbe essere un mostro, no? Solo il buono dovrebbe essere bello. Impara, Clé. Non sempre la bellezza è sicura. Qualche volta è tranello terribile.”
“E Ilka che fece allora?”
“Si vide persa... Ma era troppo furba per cedere senza resistenza. Sapeva che Janos amava il vino di qualità. Lo condusse in cantina e stappò per lui alcune delle migliori bottiglie delle zie. Janos s’inebriò, cadeva da tutte le parti. Voleva abbracciarla, ma lei gli sfuggiva: ‘Adesso ti servo da mangiare, Janos! Dopo, dopo...’ Quando Janos era comparso in casa, Ilka stava giusto finendo di preparare il forno, ormai infuocato, per infilarvi il pane. A Janos era venuto un forte appetito: ‘Dammi del pane, Ilka!’ ‘Ci devono essere delle pagnottelle in fondo al forno’ fece la ragazza. Ma il forno, rovente, era buio, non si vedeva quasi nulla all’interno: ‘Sporgiti più avanti Janos, ci arriverai con la mano!’ Il forno era grandissimo, una vera stanza, Janos annaspava, ormai era ubriaco fradicio. Ilka intuì l’occasione unica, spaventosa. Di colpo, risoluta, afferrò Janos per le caviglie, lo spinse come un tonno nel forno. E chiuse lo sportello. Non ebbe neppure il tempo di udire l’urlo tremendo del bandito. Corse fuori come una pazza scarmigliata, cercando aiuto. Ma tutti erano andati al mercato, nel villaggio non c’era più nessuno. Quando finalmente aprirono il forno, Janos era ridotto a un minuscolo scarabocchio nero, come un tacchino arrostito...”
“E Ilka?”
“Tutti la festeggiarono! Fu considerata un’eroina. Aveva liberato il paese, la campagna, da un incubo. Poco dopo, però, lei si tolse la vita. ‘Nell’attimo in cui lo buttai nel forno, m’accorsi d’amarlo!’ pare avesse detto a una sua intima amica.”
Ilona continuava il lavoro paziente alla macchina da cucire (una grossa Singer arcaica, nera e dorata, che si azionava con i piedi), e Clé si allontanava in silenzio. Non avrebbe saputo dire se la storia gli piacesse o no. Forse lo scuoteva, gli metteva paura.
* * *
Qualche volta capitava che un giorno si concludesse con l’assenza dei genitori, sicuramente presi con gaiezza dalla vita sociale d’una Firenze ricca d’eventi e di personaggi in quel primo dopoguerra. In tali circostanze, secondo la teoria imperante, Clé avrebbe dovuto cenare con Phyllis e Gentile per poi andare a letto; ma, fiutata l’occasione, il ragazzo correva piuttosto a divorare zuppa di verdure e salsicce rosolate sul fuoco di legna in casa della Gemma e di Martino. “Oh, eccolo il fringuello!” esclamava Martino fingendosi seccato (o lo era davvero?). “Non ci lasci in pace neppure a buio?” Ma poi la Gemma faceva un posticino lungo il tavolo imbandito alla contadina, gli accostava una di quelle sedie tagliate in legno di querciolo con il pennato e impagliate alla brava, così la cena continuava (almeno per Clé) in pura beatitudine.
Una volta, tornato alla villa per la notte, gli capitò di trovare l’Ida, la Gilda e una loro parente più o meno della medesima età, sedute intorno al focolare di cucina con qualche frammento di brace accesa, perché con il buio era sceso, da chissà dove, un fresco birbone. Le donne stavano parlando di spettri, d’apparizioni, d’avvenimenti inspiegabili: in altre parole si era costituita spontaneamente una di quelle riunioni serotine, che nell’Italia centrale chiamano “andare a veglia”, o “stare a veglia”. La sconosciuta parente, senza dar rilievo all’arrivo di Clé, continuò a raccontare la sua storia, che riguardava un castello del Chianti dal nome complicato e inafferrabile. “Giuro, ripeto ve lo giuro,” diceva la donna, “che nel mezzo della notte ho sentito sospiri, gemiti, passi... Poi un urlo di donna, terribile, che non finiva mai. Mi coprivo il capo con i lenzuoli, nulla da fare, il vocio continuava. Appena spuntata l’alba mi vestii e scappai. Mi potevano coprire d’oro, ma in quella casa non ci volli mai più servire...” Clé avvertiva dei brividi insoliti su e giù per la schiena. Gli sembrava che fuori si udissero dei passi, o che qualcuno camminasse con ciabatte felpate sul tetto. Non osava chiedere nulla. Si era seduto in grembo all’Ida, con la quale, nonostante le strigliate giornaliere indirizzate al signorino ribelle, aveva un rapporto di grande affetto. “Per forza,” esclamò l’Ida, appena la parente ebbe terminato la storia, “chissà quando, ai tempi dei tempi, in quel castello ci devono aver fatto un ballo angelico!”
“E cos’è un ballo angelico?” chiese Clé molto incuriosito.
Per un bel pezzo nessuno parve volergli rispondere. “Vai, vai a dormire, bandito,” diceva l’Ida. “Non vedi che sei ancora scalzo a quest’ora? E con la pioggia! Te li laverai quei piedi da selvaggio prima d’entrare sotto le lenzuola, eh?” Ma Clé insisteva, voleva capire. Infine la parente ignota, una donnona stravaccata sopra una sedia come un grappolo d’uva stramatura sull’orlo d’un paniere, buttò là una spiegazione.
“Il ballo angelico? Uh, era una cosa da signori, da signoroni! S’adunavano in tanti, venivano al castello da lontano. L’interno era illuminato a festa. I signori, le dame, donne e uomini si spogliavano di tutte le vesti, ma proprio d’ogni piccolo cencio, e ballavano ignudi. Quando suonava la mezzanotte il re della festa chiamava tutti a raduno e distribuiva fette di salame per la comunione...”
“Capito adesso cos’era un ballo angelico? E ora va’ a dormire sciagurato, se dovessero arrivare all’improvviso il babbo e la mamma succede il finimondo!” concluse l’Ida.
Clé scappò nella sua stanzetta e s’infilò tra le lenzuola (dopo essersi sciacquato i piedi – all’Ida non si poteva disobbedire, specie se non stava li a controllare, non sarebbe più stato il “ragazzino diabolico, ma leale”). La mattina presto, appena sveglio, ripensò al ballo angelico. La storia della comunione con le fette di salame, dissacrazione estrema nelle concezioni delle comari della sera innanzi, gli parve piuttosto insulsa. “Ma cosa c’entra, eh?” D’altra parte le sale auguste del castello, illuminate da migliaia di candele le cui fiammelle si riflettevano nelle specchiere dorate, mentre cavalieri e dame danzavano “ignudi”, con la grazia d’una folla paradisiaca alla Hieronymus Bosch, era scena stranamente deliziosa, un film segreto da proiettarsi e riproiettarsi nei teatrini della mente. Perché poi la parola “ignudi” era più evocativa e solluccherosa del semplice “nudi”?
Clé viveva ancora al di qua d’ogni conoscenza, anche generica, anche ideale o fantasiosa, del sesso. La mamma gli aveva spiegato che i bambini non nascevano dai cavoli, come volevano le donne di cucina, ma crescevano all’interno del grembo materno. Clé si ricordava quando la mamma gli aveva fatto accarezzare dolcemente sotto le vesti il proprio ventre stragonfio, poco prima della nascita di Gentile, chiedendogli se avrebbe preferito un fratellino o una sorellina. Clé fu incerto, azzardò perfino un suggerimento: “Perché non fai due gemelli, uno maschio e una femmina?” Poco prima c’era stato un esempio del genere nel vicinato... Con tutte queste conoscenze illuminate per un ragazzino di cinque o sei anni, restava però irrisolto il vero, grande mistero: come sorgeva il germe del nuovo essere umano in grembo alla madre? Per qualche anno, forse fino ai dodici o tredici anni, predominò la teoria della “preghiera speciale”. Secondo questa strana teoria, quando la coppia si sposava, il prete mormorava all’orecchio del marito (o della moglie, non era chiaro) una preghiera segretissima. Ripetendola più volte, la madre finiva per restare incinta. Questa teoria estremamente spiritualista, condivisa da Clé e due o tre dei suoi compagni e compagne di giochi, forse aveva origine dalle immagini di concezioni verginali (per esempio quella di Simone Martini) in cui s’indovinavano all’opera raggi d’oro e volatili (lo Spirito Santo) in un complesso altamente suggestivo.
Simone Martini? Fin da piccolissimo Clé aveva letteralmente nuotato tra le pagine dei tanti libri d’arte della biblioteca di casa. A una certa età le dimensioni del bambino erano di poco superiori a quelle delle sculture di Donatello, o delle pitture di Paolo Veronese, riprodotte nei volumi spalancati, e sfogliati con tanta passione sui tappeti, sotto la sorveglianza della mamma.
Dopo la famosa serata in cui ebbe sentore degli antichi (e apparentemente scandalosi) balli angelici, Clé tirava giù ogni tanto, di nascosto, uno dei cinque o sei volumi francesi che contenevano il testo de Le mille e una notte. Doveva trattarsi di un’edizione di gran lusso, infatti vi comparivano delle illustrazioni squisite nello stile delle miniature moghul (ma questo Clé lo avrebbe capito solo molto più tardi). Intanto lo incantavano certe figurine di principesse o regine ignude, reclinate su talami, stese sopra terrazze circondate da alberi fronzuti o vicine a laghetti con fiori di loto; la luce era quella d’un dopo tramonto tropicale, senza ombre; e forse con una linea arancione all’orizzonte, dov’era sparito il sole. Clé ammirava soprattutto, non senza un segreto turbamento ancora inclassificabile, i seni rosei delle giovani principesse. L’artista spesso stabiliva incantevoli parallelismi tra petti vergini e fiori di loto; si notava subito un medesimo sfumare dal bianco verso un rosa acceso, dalla base alla punta dei petali (nel caso dei fiori), dai gonfiori carnosi ai capezzoli (nel caso dei nudi femminili). Clé allora era una completa tabula rasa in quanto ad amore, erotismo e simili; per lui l’inspiegabile fascino, sia delle eroine disegnate sulle pagine de Le mille e una notte, sia degli immaginari balli angelici, erano come sottili segnali antelucani d’un giorno ancora di là dall’orizzonte.
* * *
Di tanto in tanto capitava a Firenze, per delle brevi visite, la zia Dorina, o Doretta, sorella minore del babbo. Era giovane, gaia, minuta, con i capelli d’un biondo rubescente appilati in alto sul capo, e con la pelle completamente ricoperta di efelidi. Se la carezzavi, l’epidermide dava l’impressione d’essere misteriosamente polverosa; una sensazione che Clé gustava moltissimo. Che festa quando arrivava zia Dorina! Intanto possedeva il dono, raro tra gli adulti, d’immedesimarsi nel mondo dei più piccoli con assoluta semplicità e naturalezza. Poi la sua presenza serviva in qualche modo arcano ad addolcire, a rendere meno impenetrabile il fratello Roberto; lei riusciva a tirarlo giù da quell’Olimpo su cui, come uno Zeus di casa, amava nascondersi.
“Mostrami la capitale del tuo regno!” zia Dorina suggeriva a Clé; e lui la conduceva dritta al fienile, una baracca in pessimo stato di conservazione. D’estate, dentro, era torrida e polverosa, quindi non restava che guardarla dal di fuori; ma nelle altre stagioni, specie in inverno, Clé, quasi fosse stato una marmotta o una volpe, si formava certe sue cucce segrete, per lo più a ridosso del muro interno, vecchissimo, costruito in mattoni, con ampi spacchi e file intere di laterizi mancanti, che faceva da ripostiglio alle sue “cose private”: in primo luogo gli archi (di bambù secco), le frecce, e tutto l’armamentario per fabbricarle, chiodi privi di testa per le punte, penne di tacchino o di gallina per la coda, fili di ferro di varie dimensioni. Nessun adulto aveva mai dimostrato interesse per quest’artigianato del ragazzo, se non per sgridarlo (“che perdita di tempo!”), o per ricordargli il pericolo – questo sì, autentico! – delle sue armi da selvaggio. Solo la zia Dorina aveva esaminato il segreto arsenale con cura affettuosa, e si era dimostrata sorpresa dall’eccellenza raggiunta.
Zia Dorina, per di più, amava sedersi sull’erba nei campi e raccontare a Clé, che le poggiava il capo in grembo, delle favole. Il suo mondo era assai diverso da quello ungherese, nonché da quello superstizioso delle babe di cucina. Aveva un regno amato e ben conosciuto: la campagna romana, la quale, a quei tempi, non era come adesso una pianura ondulata intersecata da strade asfaltate, con vigne, villette, uliveti, ma un luogo primitivo dell’anima.
A sentir zia Dorina doveva somigliare un poco alla puszta, costituendo un insieme di spazi smisurati, dove vagavano pastori con mantelli scuri e cince; ogni tanto si profilava sopra un’altura qualche casale rinserrato da barbacani; poi c’erano rovine antichissime, e sotto terra dormivano segreti millenari.
“Raccontami di quella volta del nonno... Ma giura che è tutto vero!”
“Be’ molti anni fa, il nonno aveva deciso di allargare le sue attività alla campagna... Eh, fece male, un cittadino è meglio che resti a trafficare in città... L’esperimento gli andò a rotoli e ci rimise moltissimo. Ma intanto erano successe varie cose. Volevano costruire una nuova stalla. E allora scava, scava. A un tratto i picconatori avvertono un suono cupo di vuoto. Il nonno diceva agli uomini: ‘Continuate, aprite, vediamo cosa c’è!’ Ma quelli avevano paura. Erano superstiziosi. ‘Forse è l’inferno, diamo la stura ai diavoli!’ Il nonno tornò dopo qualche giorno con due o tre suoi fedeli manovali di altre regioni, che non conoscevano timori, e riprese lo scavo. Piano piano fu aperto un passaggio. C’era una scala larga di pietra che scendeva, scendeva. Il nonno mandò a prendere delle fiaccole. Sai com’è lui, ancora adesso; da giovane era spericolato, niente gli faceva paura! Dopo la scala trovarono un corridoio di marmo... Avanti, avanti, finalmente giunsero a una specie di salone.” (A questo punto Clé, che conosceva le linee generali della storia, avvertiva dei brividi elettrici serpeggiargli su per la schiena, raggiungergli le radici dei capelli, che pareva si dovessero rizzare dall’emozione...) “Il nonno si guardò intorno. Su dei larghi banchi di pietra giacevano due, tre guerrieri con scudo e armatura.”
“Etruschi?”
“Sì, probabilmente... Ma in un baleno i corpi dei guerrieri, al contatto con l’aria di fuori, chissà, s’erano sfarinati in nulla. Restavano solo le armature... I manovali erano scappati. Anche il nonno, disse dopo, fu invaso da una sorta di terrore inspiegabile. Da un altro ingresso del salone funebre soffiava un vento gelido. Scappò, scappò... Tornò alla scala, alla breccia aperta con i picconi, al sole. Fece richiudere tutto. Della stalla non si parlò mai più.”
“E non sai dov’è questo posto?”
“Non ce l’ha mai voluto dire. Sai quanto è caparbio il nonno, come un mulo, peggio d’un masso.”
“Credi che lo direbbe a me, se glielo chiedessi in segreto?”
Qui zia Dorina cambiava abilmente discorso: “Ora Clé, mostrami quali sono i tuoi alberi preferiti!” Giudiziosa manovra, Clé si dimenticava subito dei guerrieri etruschi sfarinati e conduceva orgogliosamente zia Dorina a vedere il gran cedro delle arrampicate a scimmia, oppure il noce a due tronchi lisci, ma paralleli, che permettevano di salire, fino ai primi rami, con un semplice e ardito appoggio a destra e a sinistra con piedi scalzi e mani prensili.