8. Basilio, detto “Basilione”

L’incredibile era successo. Anche Clé, il quale viveva ancora al di sotto di numerosi orizzonti essenziali della vita, ne era, per quanto poco interessato, sicuro. La Settima aveva trovato uno spasimante! A pensarci bene, si avvertiva nella ventura una misteriosa prelazione del fato. Chi poteva interessarsi mai alla maga, alla sciamana fusca, allampanata e apocalittica, se non l’appuntato dei carabinieri Inzerillo Basilio, detto Basilione, d’anni trenta, alto, magro, fusco anche lui d’occhi, capelli, barba e pelle, quasi sempre silenzioso, per lo più impacciato? Clé l’aveva visto diverse volte in giro per l’aia, ma non ci aveva scambiato neanche una parola. La sua compagna di giochi, la Viviana, ne aveva una santa paura: “Uh, scappa, scappa, che arriva Basilione! Quando parla ‘un si capisce che dice!” Clé, per quanto bambino, era già bene avviato ai salti endocosmici, viaggiava di continuo dall’orto delle valutazioni britanniche di fatti, eventi, persone, a quello etrusco e contadino, e da questo all’orizzonte dell’italiano d’aule e di libri. C’era per esempio il capitolo furbizia: in area britannica dote assolutamente negativa, spregiata, priva persino di cartellino semantico (shrewdness vi s’avvicina, ma zoppamente), in area ital’aulica ammessa, ma con ammicchi, in area di contado somma virtù, perla d’ogni ammirato comportamento. Se l’imbroglio ti riusciva, bene, eri stato “furbo”, cioè vincitore lodevolissimo, se venivi scoperto eri “bischero”, cioè crollavi tra gli imbelli e gli inaffidabili. Simili faglie tra mondi erano bazzecole per Clé che le saltava a piè pari come un cerbiatto, perfino divertendocisi. Dove sistemare Basilione? In realtà Clé non se ne faceva un serio problema, ma ogni tanto pensandoci sentiva di restare con un grosso punto interrogativo in capo. Più tardi nella vita Clé avrebbe frequentato a lungo le terre dei Basilioni, imparando a conoscerne la gente, ad amarla, ma allora la presenza dell’appuntato creava inquietudini ed enigmi.

E venne un giorno d’autunno. La vendemmia era terminata da poco. Ormai era tempo di ritirar fuori le scarpe. Una vaga tristezza calava sul mondo. Le ombre erano lunghe, le erbe fredde, umidastre, il sole pareva stanco, dissanguato. Ah, dove sei giugno, mese divino, ricco di grano d’oro, di papaveri in festa? Clé s’era arrampicato sul noce vicino all’aia, i frutti erano maturi, lasciavano tra le dita, cogliendoli, un puzzodorino speciale, quintessenza, con quello delle olive, di tutta la stagione.

Dal nulla comparve la Settima. “O Clé, scendi giù, si va a cercare qualche grappolo d’uva rimasto sulle viti, lassù sotto le monache.” “Sotto le monache” era locuzione famigliare che definiva l’estrema parte del podere ai piedi d’un muraglione, costruito chissà quando, a sorreggere il giardino delle monache del Sacro Cuore. “Ottimo invito” pensò Clé calando dall’albero, “certo lassù (il Far West del podere) saranno rimasti parecchi grappoli trascurati da quelli della vendemmia, nei giorni scorsi.” Il viottolo saliva, saliva verso la parte alta del podere, tra cespi di rosmarino. La Settima, le altre volte quasi sempre silenziosa, chiacchierava di continuo. A metà strada Clé s’accorse che, una ventina di passi dietro di loro, avanzava a falcate lunghe e felpate, muto e malinconico come una mummia etrusca emersa dalle zolle, proprio Basilione! Clé era troppo innocente per apprezzare il costrutto del momento, ma qualcosa intuiva: la Settima era tentata dal brivido di stare con il suo Basilio nella parte più remota e, diciamo, sconosciuta del podere, ma voleva la compagnia del ragazzino che le garantiva sicurezza, un alibi e la proteggeva dalle chiacchiere “della gente”.

Per un poco la ricerca tra i pampini leggermente ingialliti andò bene, fu scoperto persino un grappolone vero e proprio dagli acini saporosi. Intanto però il tempo, quasi all’improvviso, andò peggiorando. Delle minacciose nuvole paonazze erano apparse dal nulla e avevano occupato gran parte del cielo. Parimenti dal nulla era sorto un vento a folate furiose che portava con sé odori di terra bagnata. I tre avvertirono qualche goccia sulla faccia, sulle braccia. “Passerà in un momento,” disse Basilione con aria oracolare, “cerchiamo un riparo.” Quasi a ridosso del muraglione delle monache sorgeva una quercia di notevole rispetto, e sotto la sua chioma già vagamente giallina, andarono a rifugiarsi Basilio e la ragazza. Clé, che conosceva il suo Far West meglio di tutti, meglio addirittura di Martino, sapeva che la muraglia a un certo punto formava una grotta. E lì corse ad acquattarsi.

La pioggia cominciò a scrosciare con vere cortine d’acqua, una dietro l’altra. In quel rifugio si stava bene, completamente al riparo. Clé vedeva la sagoma della Settima e di Basilio là sotto la quercia. Lui s’era tolto la giacca e aveva ricoperto le spalle alla compagna. La pioggia si mutò in grandine. Venivano giù delle cascate di chicchi, sembrava che qualcuno rovesciasse di colpo dal ventre bigio delle nuvole dei secchi di candida ghiaia. All’improvviso ci fu una luce abbagliante, uno schianto terribile. Clé dal suo nascondiglio ben protetto vide tutto, appena cinquanta passi dinanzi a lui. La scena gli rimase impressa negli occhi per sempre. Non fu come se una saetta fosse piombata dall’alto; sembrò piuttosto che la quercia fosse esplosa dal suo interno, con un lancio furioso di foglie, ghiande, frammenti di corteccia e di legno tutto in giro. Clé notò subito che le due figure umane sotto l’albero non c’erano più. Svanite nel nulla. Chiamò, urlò: “Settimaaaa! Basiliooo!” Niente. Silenzio assoluto. Allora provò una paura speciale, indescrivibile. Scalzo, mezzo nudo, prese a correre da folle verso le case, l’aia, la gente. La pioggia lo inondava come una doccia. Ma che importava? Arrivò vicino alle case. Martino, con uno dei suoi fratelli, stava già salendo per il viottolo con gli occhi fuori dalla testa. Avevano sentito benissimo lo schianto vicino. “Ohi Clé, dove sono gli altri?” “Non so, non so, sotto l’albero forse...” Clé si sentiva stralunato, inebetito, tremava come una foglia, un po’ per il freddo, un po’ per la scossa, molto per la paura. Si rifugiò dalla Gemma, ma qualcuno venne a prenderlo subito per condurlo dalla mamma, nella villa. Appena in casa non capì più nulla.

Dopo gli dissero: “Ma sei svenuto dalla paura! Lo vedi che vuoi dire andare per i campi con i temporali... Alle prime gocce dovevi tornare subito a casa.”

“E la Settima?” continuava a chiedere Clé. A casa non se ne sapeva nulla. Fu solo dopo un’ora e più che venne qualcuno dalla casa di Martino. Clé intese borbottii e singhiozzi in cucina. Ma cos’era successo? Clé venne rivestito nervosamente da passeggio, tra mutismi strani, persino della mamma, e spedito a Roma dai nonni in compagnia di quella signorina Pagni che veniva a fargli le ripetizioni prima degli esami. “Devi riposare, caro,” diceva la mamma, “distendere i nervi, dimenticare.” Solo più tardi Clé riuscì a sapere che la Settima, poverina, era morta. E l’appuntato Basilio? Nulla, tramortito, mezzo asfissiato, ma salvo. Succede. La saetta aveva colpito l’albero, poi aveva saltato l’uomo, scaricandosi a terra tramite il corpo della ragazza, uccidendola sul colpo. Molti anni dopo, Clé doveva essere testimone d’una disgrazia molto simile a questa. Tre amici stavano salendo in cordata tra le rupi del Sassolungo, in Val Gardena. Sopravvenne un temporale. Cadde un fulmine. Il capocordata restò un po’ rintronato e con qualche bruciatura addosso, il secondo del tutto illeso, il terzo, su di cui l’energia elettrica si scaricò a terra, mori all’istante. La corda aveva fatto da cavo trasmettendo la morte di luce.

Tornato da Roma, dove aveva vissuto altre esperienze del tutto diverse, Clé s’era almeno superficialmente dimenticato della tragedia. Anche perché nessuno ne parlava... Un silenzio, uno schermo impenetrabile, parevano essersi distesi sull’intero episodio. Per di più Clé, non dimentichiamolo, era predisposto a una notevole superficialità; per lui il presente contava moltissimo, e urlava, assordando passato e futuro.

Solo molti anni più tardi, da giovane uomo, tornando a visitare i luoghi dell’infanzia, Clé riuscì a spingersi fino ai piedi del muro delle monache. Tutto era come una volta, compresa la nicchia tra i sassi. Ma la quercia non c’era più, salvo una ceppaia sbruciacchiata. Il pomeriggio autunnale della tempesta improvvisa tornò come una fotografia agli occhi di Clé. Allora che ne poteva capire? Ma ora fu tutto chiaro. La Settima e il misterioso Basilio erano abbracciati, si baciavano sotto le fronde dell’albero, nel furore della pioggia e della grandine. Clé provò un’ondata struggente d’amore, di pietà infinita per la maga apocalittica della sua infanzia. Forse quei baci furono la sua unica ebbrezza, prima di morire trafitta dal fuoco.