9. Martino e le bandiere rosse

Doveva correre il 1921. Clé aveva quasi dieci anni. Più avanti nel tempo, ricordando quei momenti, Clé avvertiva riemergere piuttosto suoni che immagini. In casa tutti erano nervosissimi. Per fortuna esisteva il fienile, la baracca disastrata dove in maggio veniva ammucchiato il fieno dei campi da tenersi a disposizione, poco per volta, delle vacche nella stalla lì vicino. Il fienile era uno dei rifugi più amorosi per Clé; quando qualcosa gli andava male, lo sgridavano, lo umiliavano (succedeva spesso, perché era un ribelle), nel fienile trovava una sorta di cittadella. Scavava certe cucce comode e calde nel fieno, anche quando faceva freddo, e lì vicino, in una crepa del muro, custodiva alcuni suoi “tesori”.

Quel pomeriggio Clé, avvertendo aria scontrosa in giro, s’era nascosto nel fienile.

Fuori, lontano, chissà dove, poi più vicino, poi di nuovo lontano, udiva il tun-tun-tun ritmico delle mitragliatrici. Seguivano colpi singoli di fucili o di pistole, o magari di bombe a mano – era difficile distinguerne le origini, per un piccolo inesperto. Clé provava dentro di sé brividi di paura. Era pomeriggio tardi, con cielo sereno e sole, ma tirava un gran vento. Cadde un’asse sul tetto del fienile. “Mamma mia” pensò Clé, “mi vengono ad ammazzare.” Poi capì che era stato solo il vento, ma riprese il tun-tun-tun delle mitragliatrici. Erano fascisti e comunisti, o comunque nemici di parti opposte, che si combattevano tra loro, invisibili. Quella zona nei dintorni di Firenze era particolarmente calda, come diceva preoccupata la mamma.

Fu all’incirca in quei mesi che Clé provò la sua prima grave delusione, il suo vero e inguaribile primo dolore. Non avrebbe saputo dire perché, ma in un bel mezzogiorno di sole si trovò sopra il terrazzino della casa colonica accanto alla villa, insieme a Martino, alla Gemma, e due o tre altri loro parenti. La casa sorgeva sulle primissime pendici dei colli di Santa Margherita; poco lontano, una cinquantina di metri più in basso, si vedevano tetti, case, cortili e strade del rione assai popolare (specie allora) di via Rìpoli. A un certo punto cominciò a passare per quell’arteria stradale, larga e molto frequentata, un corteo interminabile. La gente che lo formava procedeva con molta lentezza, soffermandosi quasi a ogni passo. Molti tenevano in mano delle grandi bandiere rosse che il vento agitava gagliardamente. Echi affievoliti di canti giungevano fino in alto, ora più chiari, ora più vaghi e lontani, a seconda delle onde d’aria agitata. Tutti osservavano la scena con molta attenzione. Era una cosa insolita, drammatica.

“Ma cos’è, chi sono, cosa vogliono? Dove vanno?” Clé chiese a Martino, stranamente muto e cupo, con lo sguardo fisso in lontananza. Finalmente, Martino rispose.

“Quello, lo vedi Clé? Quello è il futuro...”

Martino parlava in modo serio, in modo mai percepito prima. Dopo una breve pausa aggiunse: “Tra poco vi s’ammazza tutti e poi si diventa noi e’ padroni, capito? La terra dev’essere di chi la coltiva, no di voialtri, capito?”

La Gemma prese subito il ragazzo tra le braccia, lo strinse a sé. Clé avvertiva l’odor di cucina del grembiule, un odore gentile, protettivo.

“Ma via, Martino,” fece la Gemma, “o che gli dici al bimbo? Perché lo spaventi?”

Ma la frana, la valanga, era partita. Nessun discorsino tenero poteva fermare il disastro. Come? Il venerato, adorato, onoratissimo Martino, l’ortòmo di punta in ogni categoria umana immaginabile, il sovrano del cuore di Clé, progettava nelle cripte del suo pensiero di “ammazzarvi tutti”? Non c’era dubbio, da come l’aveva detto, era vero; dunque era spaventoso. In quell’attimo il mondo parve frantumarsi. E non esistevano rimedi. In cosa credere più, se Martino tradiva in modo così spietato? Clé avrebbe ricordato quelle parole per tutta la vita. Esse costituirono uno spartiacque. Di là l’innocenza, la luce, l’amore: di qua l’odio, il male, la paura. E un rigetto viscerale della politica, come la più ributtante delle cose.