10. Con zio Miscia a Tivoli
Accadeva di tanto in tanto che i genitori di Clé partissero per un viaggio. Dove andavano? Clé lo veniva a sapere dalla mamma, tra baci affettuosi, poco prima del distacco, quasi fosse un segreto. E la mamma poi gli portava uno o più regali dalle terre lontane: coltellini ungheresi con i manici a colori (ottimi per farsi belli con quelli della casa di Martino), libri francesi illustratissimi, cinture da boy scout inglesi, una borraccia spagnola in pelle che faceva un odore-profumo del tutto singolare. Era strano, ma con il babbo, con il dottor Raimondi, le relazioni cominciavano già a tingersi d’uggia e di muffe. Perché? Nessuno l’avrebbe saputo spiegare. C’era, come dire, un’incompatibilità epidermica tra i due, la quale invece di svanire, s’andava accentuando con il tempo.
Se lo si fosse incontrato una volta o due di persona, non lo si sarebbe mai detto: eppure il dottor Raimondi faceva di professione lo scultore. Perché aggiungere: “non lo si sarebbe mai detto”? Semplicissimo, perché vestiva sempre in modo inappuntabile, non tanto da signore o da mondano, quanto da alto dirigente d’azienda, o da avvocato di grido. Raramente lo si vedeva senza cravatta, o non perfettamente rasato. Perfino quando lavorava la creta nel suo studio, indossava una sorta d’uniforme; si trattava di una tuta bianca immacolata che gli dava un vago aspetto di medico, o meglio di chirurgo. “Infatti,” diceva in una delle sue rare concessioni all’umorismo, giocando con le parole, “io sono un chirurgo, se il termine a quanto pare significa ‘colui che opera con le mani’. Chi più chirurgo di me, voyons?”
Clé non si ricordava di avere mai visto il babbo “vestito da artista”, o esprimere nei gesti, nell’espressione del volto, nelle parole, quelle ispirazioni o depressioni, quell’invasamento che si collegano d’istinto con colui il quale, in qualsiasi modo, crea. Tutto in lui era sotto un totalitario controllo. Il dottor Raimondi era l’assoluto colonnello di se stesso.
Qualche spiegazione dell’ossimoro esistenziale poteva trovarsi in alcuni particolari biografici. Il nonno Anacleto, da cui Clé prendeva il suo vituperato nome, nonno ormai al tramonto d’una vita attivissima di costruttore e imprenditore immobiliare, svoltasi in maggior parte a Roma, aveva insistito con la sua sorridente ma inflessibile fermezza perché il giovane Roberto si laureasse. Roberto aveva scelto Legge come la via più facile alla meta impostagli.
“In seguito potrai buttarti liberamente sulla professione che t’è più cara,” diceva il nonno Anacleto, “ma almeno avrai sempre un diploma che ti permetterà di fare marcia indietro, se le cose vanno male...” Forse Roberto, durante la sua gioventù romana, aveva frequentato qualche maestro del foro singolarmente legato a un’immagine ministeriale di se stesso? Clé avrebbe voluto chiederlo al genitore, ma come per tante altre domande, rimandò, rimandò fin quando il tesoriere dei ricordi non ci fu più: malinconico evento che accade purtroppo assai spesso, e a molti.
Il fatto determinante era questo: che Roberto Raimondi era nato con una di quelle doti particolari che toccano in dono a uno su diecimila, o forse uno su centomila. C’è chi a sei anni è già un prodigio musicale, chi a dieci sconfigge matematici e calcolatrici: a lui era toccato il dono del disegno. Appena adolescente, non solo copiava quasi fosse un giochetto i grandi maestri (amava particolarmente Holbein il Giovane e Ingres), ma tracciava sulla carta immagini del corpo umano in qualsiasi posizione, come un mago. E naturalmente era molto abile nei ritratti, raggiungendo con pochi segni azzeccati la somiglianza più conturbante. Durante gli anni di liceo aveva seguito corsi serali d’Arte all’Accademia romana; in seguito era divenuto allievo d’un celebrato maestro del tempo, Angelo Zanelli. Questa frequentazione lo portò dal disegno, e da un’infatuazione iniziale per la pittura, verso la plastica; orizzonte in cui diceva di trovarsi al massimo dell’agio.
Clé, il quale andava crescendo, almeno parzialmente, in un’atmosfera in cui si respirava tanto profumo d’arte, s’era trovato molte volte a pensare: e se da grande facessi il pittore? Non aveva certo ereditato le capacità paterne, ma, nelle dita e negli occhi, sentiva di avere qualche talento. Da piccolo (a sei-otto anni), quando c’era ancora dimestichezza affettuosa tra genitore e ragazzino, Clé si sentiva immensamente felice se il babbo lo prendeva sulle ginocchia, poi, tenendo un blocco di carta e un lapis tra le mani, gli chiedeva: “Cosa vuoi che ti disegni?” Clé, molto romanticamente (chissà perché) tutte le volte rispondeva: “Fammi un guerriero medievale a cavallo, con armatura e lancia!” Allora il babbo Roberto tracciava sulla carta con impeccabile precisione, sveltissimo, senza pentimenti, nella giusta prospettiva, il capo, il corpo, le zampe, la coda del cavallone (degno d’un Gattamelata), e poi vi situava sopra, in sella, il guerriero catafratto nella sua armatura di metallo lucido, con tanto di profilo severo che s’affacciava dall’elmo piumato, e con la terribile lancia da torneo in mano... Era troppo, era spietata magia! Clé finiva con una sorda voglia di piangere dalla rabbia, dall’umiliazione. Capiva che mai e poi mai sarebbe potuto diventare pittore (o scultore).
L’unione piuttosto eccezionale, tra carattere controllatissimo e dono felice del disegno, che s’operava nella persona del dottor Raimondi (Clé spesso pensava al babbo in questi termini burocratici), produceva sculture eleganti, altamente formali, spesso decorative, generalmente concluse entro una preziosa geometria di linee, quasi fossero stemmi o emblemi. Mancavano purtroppo di fuoco e passione, di Sturm und Drang, ma rappresentavano uno stile, un modo di vedere e comporre le cose che, in quegli anni ancora vivi d’art nouveau, avevano molto successo.
Il caso dell’artista Roberto, solidamente e professionalmente tale, rappresentava un’eccezione nel quadro della famiglia, o no? Si sarebbe potuto dire proprio di sì. I Raimondi, come molti con tale cognome, potevano rintracciarsi abbastanza indietro nel tempo in quelle terre lombarde settentrionali, le quali finirono nel 1803 per aderire alla Confederazione svizzera, divenendo l’attuale Canton Ticino. Per molte generazioni i Raimondi vissero da tranquilli, e si direbbe operosi, borghesi, medici, architetti, uomini d’affari, nella città di Lugano.
Il nonno Anacleto, nato intorno al 1856, era calato a Roma verso il 1880. Da uomo d’affari di fiuto fino, si dev’essere detto: “Qui c’è un paesotto eterno (Roma del tempo, duecentomila abitanti) divenuto capitale di un giovane regno, certo serviranno case, case, ancora case.” A quei tempi chi mai parlava di interventi governativi, d’infrastrutture, di piani regolatori? L’espansione edilizia era affidata all’iniziativa individuale in un modo che oggi giudichremmo “barbaramente libero”. Il savio Anacleto disponeva di un certo capitale con cui gettarsi nella mischia. Per di più la fortuna gli aveva dato in sposa una genovese molto bella (e molto pia) di nome Ginevra, figlia, sorella, cugina di altri costruttori laboriosi e risparmiatori, dal nome tipicamente ligure: Manzitti. L’alleanza Raimondi-Manzitti fu causa di grande prosperità. Con tutto ciò le abitudini di vita della famiglia dovevano restare molto frugali.
A un certo punto le cronache famigliari, ricostruibili per Clé attraverso racconti e brani di conversazioni degli anziani di casa, finivano per confluire nei suoi ricordi personali. Clé era nato a Firenze (più avanti vedremo perché), ma fin da piccolissimo era stato condotto di frequente a Roma; la casa dei nonni era davvero per i Raimondi ciò che i giapponesi chiamano la honkan, la casa base, di cui quella fiorentina era un semplice ramo separato, una bekkan. La honkan di Roma piaceva moltissimo a Clé; tra lui e i nonni correvano relazioni più semplici, bonarie, meno astruse di quelle che lo legavano ai genitori. La mamma, si capisce, era amatissima, adorata, eppure la stessa intensità di sentimenti rendeva il legame talvolta angoscioso.
Il nonno Anacleto, negli anni intorno al 1920, era un sessantenne vigoroso, facile al sorriso. Di corporatura tozza, non molto alto, aveva come vistosa caratteristica la saldatura pressoché diretta del cranio quadrato, da buon brachicefalo alpino, sulle spalle; si poteva quasi dire non avesse collo. Nel volto ben pasciuto spiccavano due occhietti curiosi e benevoli, sopra di cui si levava una fronte spaziosa coronata di capelli bianchi finissimi. Amava curarsi la barba in un pizzetto candido, sfumato con cura fin sulle guance, che lo faceva somigliare in modo singolare a uno di quei prosperi e severi burghers ritratti da Frans Hals, o da altri pittori fiamminghi del Seicento. Sarebbe bastato cambiargli l’abito, e il salto nel tempo-spazio non si sarebbe notato per nulla. Vestiva sempre di scuro in modo sovranamente urbano; sembrava un professor emeritus a riposo, o un medico di grido che ormai abbia ceduto il posto agli allievi, un uomo insomma abituato a elargire dall’alto le gemme del suo sapere e della sua saggezza.
Invece era stato per tutta la vita un solerte uomo d’affari. Negli anni ruggenti della maturità, a quanto tutti raccontavano in famiglia, incarnò molte di quelle virtù cui si è soliti dar credito, da Max Weber in poi, ai calvinisti e ai loro discendenti e affini. Era un instancabile lavoratore, un asceta della fatica giornaliera; amministrava un cospicuo regno di case, terreni, costruzioni, con le annesse attività immobiliari, da una sedia girevole dura e scomoda (Clé l’aveva provata diverse volte con il proprio sedere) e da una vecchia scrivania consunta per l’uso, situate in una stanzetta colma di scartoffie, dannatamente rumorosa per lo sferragliare dei tranvai che passavano di continuo in su e in giù per la strada lì dinanzi. La stanza si trovava al pianterreno di una casa a tre livelli, dalle vaghe pretensioni gotiche, chiamata “il villino”, situata all’angolo tra via Piave (allora via Salaria) e via XX Settembre, a due passi dal ministero delle Finanze. Accanto alla scrivania del nonno troneggiava una gran macchina da scrivere nera e ritta all’insù. Quando nel pomeriggio compariva il segretario Federico, cinquantenne silenzioso e occhialuto con le spolverine nere alle maniche della giacchetta per evadere la corrispondenza, e cominciava a battere sui tasti reumatici dell’ordigno, sembrava che grandinasse sopra un tetto di lamiera.
In un certo senso il villino era un fossile. Costruito verso la metà dell’Ottocento, quando imperavano i nostalgici recuperi del Gotico, cari al maestro parigino Viollet le Duc, si distingueva per le sue finestre bifore e trifore a sesto acuto, e terminava in alto con un fastigio di curiosi birilli in travertino, vagamente imitanti la Ca’ d’Oro veneziana.
A quei tempi remoti l’edificio si trovava al limitare della città, era quindi giustificato il suo aspetto un po’ frivolo di padiglioncino adibito a feste spensierate, sperduto in un parco. Con gli anni però la città era affannosamente cresciuta, tutto intorno erano stati costruiti palazzoni brutalmente utilitari, bigi, anonimi, con appartamenti, uffici, negozi. Il capriccioso villino della periferia d’un tempo, con un suo ridotto e irregolare giardino, ombreggiato da cinque o sei pini romani di rispettabili dimensioni, si era trasformato in un gingillo d’antiquariato, amabile e perciò commovente.
Il villino era centro di un suo piccolo popolo. Al piano superiore abitava (con la sua servitù) zia Giustina, sorella della nonna, vedova senza figli, ricchissima, bruttissima, simpaticissima. Clé, come avviene ai ragazzi (di dieci, undici anni), non percepiva neppure alla lontana il disastro fisico dell’anziana signora: le rughe, le borse di pelle flaccida, le occhiaie da mummia vagante, le dita noccherute ricoperte da una pelle quasi trasparente che lasciava intravedere vasi sanguigni azzurrini e rossi con la limpidezza di un preparato anatomico. Lo attirava in lei l’interesse che dimostrava per i suoi giochi, i suoi studi, le sue manie. Clé si lasciava troppo spesso possedere dalle manie. In una delle sue visite a Roma era in febbrile estasi d’architettura; zia Giustina per incoraggiarlo gli regalò un corredo di righelli, compassi, inchiostri speciali, carte lucide, carte millimetrate. Un mese più tardi sopravvenne la mania degli etruschi, dell’archeologia, e tutto l’armamentario da progetti edilizi finì in un cassetto. Da grande Clé ritrovò tra le proprie carte una foto con dedica della zia Giustina (deceduta ormai da decenni). “Povera, cara zia Giustina, quant’eri mostruosa!” Eppure da ragazzino l’aspetto fisico della persona non aveva avuto la minima importanza. Siamo più spirituali, più angelici da piccoli? Forse maturando ci si carnalizza. Invecchiando poi non se ne parli nemmeno.
Al primo piano, che in realtà era un piano rialzato, dato che l’intero edificio era costruito sopra un terreno in leggero pendio, abitavano i nonni, con i loro figli. Al piano inferiore, in parte interrato, avevano la propria stanza una cuoca, la cameriera prima, la cameriera seconda, e in un braccio separato l’autista-meccanico-factotum (detto anche il “facnihil”, perché disastrosamente pigro, anche se bravo quando voleva). Nell’orbita del villino circolavano inoltre un contadino di nome Pierone, che portava ogni settimana in casa frutta e verdura, olio e fagioli, vino e carciofi, a seconda delle stagioni, da una certa campagna acquistata dal nonno vicino a Tivoli, e un pastore di nome Fustagna che forniva di quando in quando ricotte e formaggi, capretti e agnelli, partendo da un lembo distante della campagna romana. La nonna aveva poi tutto un suo giro di sarte, modiste, pasticcieri, calzolai, gioiellieri, falegnami, idraulici, nonché medici, farmacisti, confessori e forse cartomanti, che chiamava a seconda delle necessità della casa e della famiglia, del corpo e dell’anima, del presente e del futuro. Per un certo periodo visse al villino anche una governante inglese di mezza età, Miss Parnell (Clé la conobbe più tardi durante una sua visita di passaggio a Firenze), che insegnava ai giovani, sembra con notevole successo, la propria lingua. Prima di lei pare che il posto fosse stato occupato da una Mademoiselle francese, o svizzera francofona.
Se il villino, visto da fuori, possedeva le caratteristiche d’un fossile, esaminato nel suo interno rivelava quelle d’un mostro. Un mostro degno però dell’amodio più squisito e intenso. Clé, nei suoi ricordi, anche remoti, avvertiva che era prevalsa la componente odio; già il fatto di calare dalla campagna, libera e profumata, alla città tutta costrizioni e puzzi, lo rattristava; poi non erano luoghi da signoroni e quindi da signorini? “Ohi, ridatemi i miei viottoli terrosi ed erbosi, e il vento che sa di peschi in fiore! E perché comprare il latte quando lo si può mungere direttamente dalle vacche?” Con il tempo però al rigetto s’era aggiunta la componente amore, generando vene insinuanti d’amodio. Clé, quando fu più grandicello, guardava gli arredamenti del villino quasi fosse un geologo: vi riconosceva uno strato paleozoico di mobiloni ottocenteschi, pretenziosi e bruttissimi, ma di tutta sostanza, d’ottimo noce massello scolpito, sul quale era andato sovrapponendosi, con i decenni, un deposito cenozoico di tavolini arabi, scacchiere germaniche, bacheche francesi, librerie con vetrine e vetrinette, tappeti e consolle, lampadari, tendaggi pesantissimi con frange e nappe portentose, oggetti aggiunti via via, a seconda delle mode, dei gusti, dei capricci famigliari. Colpiva subito un’ossessionante presenza di quadri, molti dovuti a notissimi pittori del tempo, che ricoprivano quasi ogni decimetro quadrato delle pareti, rivestite di damasco violaceo (o era carta che si fingeva damasco?), insieme a sculture di pietra o di bronzo su colonnette tortili di marmo, oltre a ninnoli vari, a fotografie autografate di personaggi riveriti in pesanti cornici d’argento. Una vetrina conteneva file su file di statuette fittili romane (provenienti da scavi intrapresi per fornire fondamenta alle case del nonno; tanto a quei tempi chi badava alle sovrintendenze?), un’altra era colma di fialette romane di vetro iridescente (medesime origini). I libri, numerosissimi, e per lo più rilegati in pelle con titoli e fregi in oro, riempivano prestigiosi scaffali con cristalli scorrevoli. C’era anche un grammofono in mogano, di quelli che si ammiravano un tempo solo nelle pagine pubblicitarie del National Geographic Magazine, accompagnato da un armadio stracolmo di dischi (bestiacce a 78 giri, pesanti come lastre d’ardesia) contenenti il fior fiore della musica sinfonica e operistica dal Settecento in poi.
Quest’ultimo era il regno di zio Miscia.
I nonni Anacleto e Ginevra avevano avuto tre figli: Roberto lo scultore, di cui già sappiamo parecchie cose, nato nel 1886, Dorina (o Doretta) nata nel 1890, e Michele (o Miscia) del 1892. I nonni erano rimasti in fondo degli immigrati dalla periferia culturale italiana al suo centro, e ne avevano subito scarsamente le influenze. Nonno Anacleto restò permanentemente svizzero, nonché di sentimenti democratici (come vengono intesi nella Confederazione) e d’idee repubblicane, restò lombardo d’accento e mitteleuropeo nelle valutazioni e nei giudizi, per esempio, sulla siesta, i debiti, le raccomandazioni, la retorica, gli avvocati, i napoletani, i delitti d’onore, le processioni, il sangue di san Gennaro, e via dicendo. Ginevra rimase altrettanto fieramente ligure, sia nel parlare che nel gusto quasi masochistico del risparmio, sia nella fedeltà a ogni genere di tradizione, specie a quelle religiose, nonché nell’intransigente conformismo sociale e monarchico.
I nonni formavano una coppia estremamente distinta, il prodotto finale del subconscio desiderio, forse nutrito per parecchie generazioni, di poter davvero “diventare signori”. Il mito, in loro, s’era incarnato in maniera quasi perfetta. Il nonno, per un incidente giovanile di caccia, aveva una gamba rigida, e zoppicava; questa debolezza gli dava un aspetto vulnerabile che in fondo piaceva. Clé ricordava che in albergo, in treno, al ristorante, c’era sempre qualcuno che lo aiutava a trovar posto, a sedersi, a sistemare convenientemente quell’arto duro e dispettoso, magari inciampando nell’immancabile bastone dal pomo d’avorio o d’argento (ne possedeva una collezione), tenuto pateticamente in mano. L’aspetto della nonna era quello ineccepibile di una gran dama “delle classi egemoni”. Alta, magra, fiera, si acconciava da anni i candidi capelli sempre allo stesso modo. Al collo portava invariabilmente una gorgiera di seta increspata. Le caste vesti erano d’ottimi stoffa e taglio, di colori che andavano dal grigio perla a certi viola o marroncini eleganti e malinconici. Di gioielli ne portava pochi, e tutt’altro che vistosi, ma osservandoli bene, ci si accorgeva che erano dei minuscoli tesori.
Nonno Anacleto aveva, come si dice in giapponese, il ki mijikai (carattere corto), Clé se lo ricordava spesso indignato per questioni soprattutto di etica, ma talvolta di politica e perfino d’estetica; come d’altra parte sbottava in risate quasi faunesche, se un fatto o un detto lo divertivano. Al contrario, la nonna Ginevra poteva dirsi la personificazione del più incarnito controllo: al massimo, quando per esempio giungevano notizie di fuoco dal mondo di fuori, o qualcuno esprimeva pensieri rivoluzionari, sollevava il capo, socchiudendo gli occhi, e mormorava: “Oh, Vergine santissima!” Eppure chi la conosceva bene sapeva che sotto tanti strati di laccatura formale batteva un animo tremulo, sensibile, in perenne agitazione. Clé concluse ben presto che tra la nonna Ginevra e il babbo Roberto, cioè tra madre e figlio, s’erano tramandate delle risonanze psicologiche sottili, e molto importanti.
La nuova generazione, come avviene nel caso degli immigrati (ovunque), godeva d’innegabili vantaggi, pur correndo anche nuovi pericoli. Intanto Roberto e gli altri parlavano un italiano da metropoli, con un leggero accento romanesco. Avevano inoltre seguito studi assai più avanzati dei genitori, che erano in realtà degli autodidatti; s’affacciavano dunque al mondo della cultura in modo più spigliato, con maggiore competenza e autorità, nutrendo ambizioni prima impensate di lavoro. Roberto, come abbiamo già visto, incarnava in pieno il successo.
Dorina, o Doretta, i due nomi avevano corso quasi uguale, andò in sposa a un eminente avvocato pugliese e, come concludono i romanzi popolari anglo-americani, they lived happily everafter (vissero davvero felici sino alla fine dei loro giorni) allietati dalla presenza di due figlie.
Restava lo zio Miscia. Aveva esattamente vent’anni più di Clé, ma per varie affinità di carattere, numerose convergenze di gusti, tra i due correva calore d’autentica amicizia. Zio Miscia era diversissimo da suo fratello maggiore, il dottor Roberto Raimondi. Fisicamente si presentava come assai più quadrato e muscoloso, diciamo più prestante; non solo, mentre Roberto era oculato e guardingo nel dispendio delle proprie energie, Miscia era irruento, coraggioso, spesso temerario. Nuotava e cavalcava con la passione, il vigore, il mordente di chi trova nello sport un’espressione della propria personalità. Roberto da giovane primeggiava nel tennis, gioco in cui (parole di zio Miscia) “era bravo, compito, magari temibile quando s’impegnava, però fondamentalmente decorativo...”. A Firenze il babbo ormai non giocava più, ma Clé se lo immaginava benissimo sul set, biancovestito, partecipe all’incontro come fosse un balletto, un antico rito di corte. Miscia aveva dei capelli biondo-rossi e ti guardava in modo spesso beffardo con le sue pupille d’un blu intenso; gli occhi erano protetti da nutrite sopracciglia flave, quasi bianche. Qualcuno gli aveva detto che faceva pensare a uno di quegli antichi nemici celti di Cesare, magari a Vercingetorige, particolare che gli era molto piaciuto e di cui andava fierissimo. Anni più tardi Clé, leggendo un libro di storia notò una frase: “Fighting and feasting appear to have been the two complementary and essential facets of Celtic aristocratic life.” “Combattere e festeggiare.” Clé naturalmente pensò subito a zio Miscia. Riguardo al combattere s’era comportato da leone, tornando a casa dalla prima guerra mondiale ferito, ma carico d’onori e medaglie; nel festeggiare, finì invece poco a poco in naufragio. In altre più primitive società si sarebbe certo fatto un nome come uomo di cavallo e spada, come capitano di ventura e come anfitrione di potlach spettacolari, feste fragorose da portare avanti per giorni e giorni fino al collasso di tutti, sacrificandovi ingenti ricchezze. Nella società urbana, borghese, convenzionale d’una Roma anni venti, il povero zio Miscia era uno spaesato! Per un poco s’aggregò al fascismo dei primordi, ma il delitto Matteotti lo disgustò e, tra la sorpresa generale di parenti e amici, divenne un critico feroce del nuovo sistema politico. Per qualche anno, prese parte, con successo, a delle corse automobilistiche su strada (giro di Sicilia), ma poi finì per tirarsi sempre più in disparte. Se Roberto era un grande concentratore, Miscia era un eminente dissipatore.
Non per questo perdeva il suo fascino come persona. Leggeva continuamente di tutto e aveva una memoria da Pico della Mirandola, quindi la sua conversazione brillante lievitava di stimoli d’ogni genere. Per di più (e Clé ne era affascinato) zio Miscia lo trattava da pari a pari, da “ometto”, senza le condiscendenze urtanti degli altri di famiglia.
“Inutile, caro Clé, sei nato troppo tardi,” diceva zio Miscia, “non avrai mai un’idea di cosa fosse la vita nel ‘gran decennio’.” Per gran decennio zio Miscia intendeva gli anni all’incirca dal 1900 al 1910-14, insomma il Novecento prima della guerra mondiale. “Basta leggere Thomas Mann per rendersene conto...” continuava lo zio. “Furono gli ultimi anni europei di pace, d’abbondanza, di liberi scambi prima del delirio e del diluvio, prima delle catastrofi nazionali e delle crisi permanenti. Le monete erano stabili, non esistevano passaporti (salvo per la Russia), la luce della ragione pareva avere sconfitto tutti i demoni più bui... Ah, il progresso, come ci credevamo!”
“Che faceva il babbo allora, da giovane? Dài racconta...”
“Ah, ah, Clé, lo sai che noi siamo fatti di paste diverse, eh? Be’ lui e Dorina componevano una splendida coppia. Allora chi concepiva mai che una ragazza di buona famiglia uscisse da sola? Il caso voleva che Roberto e Dorina non solo si somigliassero, ma possedessero gli stessi gusti, fossero uniti dalle medesime amicizie. Quanto erano mondani quei due! Ogni sera erano fuori, balli, teatri, concerti, mostre d’arte, balletti, cene in casa d’amici... Era una giostra continua, un torneo rosa.”
“E tu zio, perché non andavi con loro?”
“Intanto ero ragazzino, assai più giovane di tuo padre... A quella età pochi anni contano moltissimo. Poi le mondanità mi stufano. Del resto anche tu, sento, stai più volentieri con i contadini, no? Qui contadini non ce n’erano, eravamo già nel ventre della città, ma avevo tutto un mio giro di banditelli. Che truppa di sciagurati! Rubavamo l’uva dalla vigna d’un certo barone Piromalli. Allora c’erano ancora delle campagne poco lontane. Una volta, durante la confusione d’una gran festa da zia Clarissa, stavo per riempirmi le tasche di posate d’argento. Meno male che non ci riuscii. Mica mi rendevo conto della gravità d’un simile scherzo!”
“Ma chi era zia Clarissa? Qualche volta ne parlano i miei, ma non so nulla...”
“Eh, zia Clarissa... Prima di tutto era un physique in cerca d’un rôle... Io glielo dissi una volta, lei rise e arrossì, dunque ci avevo azzeccato. Da ragazza si dice fosse bellissima: alta, ben proporzionata, regale di volto, capigliatura e gesti. Anche lei di Lugano, come gli altri antenati. Cercava un marito che la conducesse in qualche empireo, tale o per ricchezza, o per nobiltà, o per ingegno. Ambiziosissima, insomma. Non so come, finì, tra vari pretendenti, per scegliere zio Manfredi, un lontano cugino di tuo nonno. Anche lui ambiziosissimo e per di più spietato. Dicevano: “Per arrivare alla meta, qualsiasi meta, passerebbe sul corpo di sua madre...” Però era intelligente, brillante, un lavoratore maniacale. Io l’ho conosciuto poco, non faceva gran simpatia, ma ti dava un senso di sicurezza, come ho sentito raramente; era un dirigente, un imprenditore nato. E come i suoi simili, possedeva invisibili antenne. Avvertiva situazioni favorevoli, mesi, anni prima che gli altri se ne accorgessero. Comprò all’estero certi brevetti riguardanti la produzione dello zucchero dalle barbabietole. Oggi la più banale delle industrie, ma allora una novità. Partì avanti ai concorrenti con tale vantaggio che quelli ci misero vent’anni a raggiungerlo. A quei tempi tasse da ridere, sindacati di là dall’orizzonte, capisci, in pochi lustri mise su una fortuna strepitosa. Manfredi e Clarissa non ebbero figli; li volevano, ma non ne vennero. Una volta che i due s’erano fatti delle residenze principesche a Roma (in via Ludovisi), in Toscana (Villa Medicea), con altre minori qua e là, il sovrappiù fluì in opere di bene. Non ho mai capito se zia Clarissa agisse per empito di cuore, o per calcolo sociale. Francamente credo per entrambe le cose. Con tutte le sue ambizioni d’alpinista in scalata alla vetta Vita, aveva anche un fondo di generosità non comune.”
“Racconta di quella volta delle posate d’argento...”
“Ah, ah, quella volta fui invitato anch’io, poco più che ragazzino. Zio Manfredi presiedeva silenzioso e sibillino, mezzo paralizzato, ma sorridente come un doge. Zia Clarissa, con la sua aria serafica di zarina, non perdeva un gesto, una parola, un saluto dei moltissimi ospiti che circolavano per le sale e, tempo permettendo, per il giardino. Qua un sorriso, là un liturgico bacio, qua una presentazione, là un commentino appropriato, Clarissa tesseva con abilità istintiva i mille fili delle sue conoscenze in un arazzo di relazioni umane, dove tutto alla fin fine doveva giovarle in qualche modo, palese od occulto, più spesso occulto. Dirigeva la festa come un’orchestra, noi non eravamo tanto ospiti quanto tasti, pedali, note, biscrome, diesis, chiavi di basso o di violino. Intanto un maggiordomo e stuoli di camerieri, in uniformi appropriate, porgevano in giro agli ospiti cibi e bevande. Fu allora, nascosto dietro una palma, ridendo in silenzio con il mio amico Bruno Bramieri, che tentammo il colpo. Meno male che non ci riuscimmo. Pensa se ci avesse scoperto! Oppure se ce ne andavamo con il ‘tesoro’, poi che farne? Renderlo l’indomani con un fiocco celeste? Sarebbe stato grottesco...”
Poco dopo zio Manfredi scomparve. Zia Clarissa, rimasta vedova, intensificò le sue opere di bene, tanto che riuscì a farsi nominare contessa dalla casa reale, per meriti di filantropia. I suoi sogni s’erano dunque avverati in pieno. Il rôle s’era magicamente combinato al physique.
Clé, curioso com’era, avrebbe anche voluto sapere qualcosa di più sul matrimonio del babbo. Alcuni particolari li conosceva già, tramite la mamma. Un giorno, a Firenze, era entrato senza avvertire nella camera di lei e l’aveva trovata seduta in poltrona che piangeva, tenendo una lettera in mano. “Che c’e mammina, perché piangi? Please tell me!” E la mamma gli aveva mostrato una foto in cui comparivano una ragazzina e un adolescente, tra i quindici e i sedici anni. Non si trattava di un’assoluta novità. Clé non si ricordava come o quando, ma la mamma gli aveva già spiegato che, appena uscita dal collegio, aveva sposato un certo Captain Cummings, e gli aveva dato due figli, i giovani della foto. Conosceva anche i loro nomi, Wanda e Igor. La mamma piangeva perché i due le avevano scritto una lettera affettuosa in occasione del suo compleanno. “I should have never done it...” ripeteva la mamma tra un singhiozzo e l’altro. “It’s bad to leave one’s children, bad, very bad...” Captain Cummings pare fosse un brav’uomo: “Sai, di quegli inglesi di tradizione militare tutto d’un pezzo. Era anche generoso dei suoi mezzi, avevamo casa a Londra e villa nel Galles. Facevamo frequenti viaggi. Quando ereditò i beni di suo padre, si ritirò dal servizio attivo... Ma fu peggio, per me. Non t’immagini neppure quanto può essere mortale sentir parlare, mese dopo mese, solo di cavalli, di cricket, di alberi genealogici del vicinato...: ‘Cara, prendi il Debretts, il Book of Landed Gentry, l’albo della nobiltà possidente, vediamo un po’ chi sono questi Kingley-Powell che sono venuti a stare a Beechive Hill...’ Ugh! I just could not stand it any longer, I fled. Cosa fatale nell’Inghilterra d’allora: lui ottenne subito un divorzio a completo suo favore.”
Si direbbe che i ragazzi abbiano delle speciali difese interiori che li proteggono dalle onde d’urto di simili sommovimenti famigliari del passato. A Clé dispiaceva che la mamma piangesse, e cercava di consolarla (riuscendoci), ma Captain Cummings, la villa nel Galles, perfino Wanda e Igor, gli apparivano come larve indistinte d’un mondo lontanissimo, quasi inconsistente. L’importante era che la nuova famiglia fosse calda e unita, e di questo si sentiva sicuro; ciò gli dava grande forza e consolazione. Ora, con lo zio Miscia in vena di confidenze, gli erano sorte improvvise nuove curiosità sugli eventi di famiglia. Ma zio Miscia da quell’orecchio pareva non sentisse: “Nun so’ fatti pe’ rigazzini,” sentenziò (quando era seccato parlava in romanesco).
Qualche giorno dopo zio Miscia annunciò: “Domattina andiamo da Pierone, a Tivoli, che ne dici?” Clé fu entusiasta dell’idea, la nonna lo era molto meno. Clé capì anche perché. Zio Miscia aveva sempre macchine nuove e diverse. Quella mattina un meccanico era venuto a portargli dinanzi al cancello del villino una lunghissima e potente Ceirano (marca che oggi non esiste più) a due posti, da corsa su strada. Clé ne ricorda ancora la targa. A quei tempi le targhe erano bianche e rettangolari: un numero rosso indicava la provincia, seguita dal numero di registro in nero. Venticinque era Firenze, Roma aveva il cinquantacinque. La targa di zio Miscia cominciava con uno splendido cinquantacinque rosso che dava a Clé un senso formidabile di superiorità. “Olé, siamo della capitale, ‘semo romani’, lo vedete o no?”
Il motore stava chiuso dentro una sorta di siluro metallico tenuto a posto da due cinghie di cuoio spesso che davano un aspetto spavaldamente artigianale all’insieme. La messa in moto, come usava allora, era a manovella, dura, difficile, e persino pericolosa, se uno non ci sapeva fare. Appena partiti era cominciata l’avventura. Zio Miscia era indubbiamente bravissimo, ma Clé non le aveva mai neppure immaginate velocità del genere. “Ora centriamo quella carrozzella!” diceva per scherzo zio Miscia. Poi gli arrivava quasi addosso come un fulmine, sterzando all’ultimo istante. Da principio Clé prese dei begli spaventi, ma con il tempo s’abituò, sia alla velocità sia allo stile fantasioso di guida dello zio.
Appena lasciata Roma, dove le vie erano lastricate, il nastro stradale si presentava polverosissimo, cosparso di sassi. Se non pioveva, se non aveva piovuto poco prima, la polvere era una nemica micidiale. Per fortuna le macchine erano poche. A ogni modo un sorpasso poteva diventare un colpo di roulette alla russa. Se c’era vento laterale, bene, arrivavi vicino alla macchina da superare tenendo più o meno la situazione sotto controllo con gli occhi; ma se non c’era vento potevi prepararti al peggio.
In un turbine di farina sottile che rendeva la visibilità quasi nulla, come una nebbia di quelle brutte in Val Padana, risalivi fin sotto la macchina da superare. Infine dovevi azzardare, uscire di lato dal turbine e tentare il sorpasso. Ma se intanto arrivava una macchina dalla direzione opposta? La potente Ceirano di zio Miscia era così veloce che i sorpassi, ce ne furono due o tre, risultarono molto facilitati. Intanto, sia zio Miscia che Clé si erano entrambi infarinati di polvere come pesci da gettare a immediata frittura.
Una delle particolarità di quei tempi da saga era la seguente: le strade venivano riparate stendendo sulla terra un letto di pietre, grandi più o meno come un uovo, annaffiando il tutto e passandovi poi sopra con uno schiacciasassi a vapore. Il lavoro di ridurre delle pietre di svariate dimensioni a frammenti piccoli, e tutti più o meno della medesima grandezza, veniva eseguito sui bordi delle strade da miseri operai, chiamati appunto “spaccasassi”. Oltre a dover respirare polvere a ogni passaggio di veicolo, i poveretti finivano quasi sempre per darsi qualche martellata sulle dita, che infatti vedevi per lo più fasciate di cenci. A un certo punto uno spaccasassi ci fece un cenno patetico di alt, sollevando una mano tutta rossa di sangue, chissà che martellata era sfuggita al disgraziato, tra l’altro anziano. Zio Miscia, che aveva un lato populista molto spiccato e molto simpatico, si fermò subito, fece salire lo spaccasassi nello spazio strettissimo di cui disponevamo, e via verso La Campanella, un poderuccio tra Settecamini e i piedi dei colli di Tivoli. Con i suoi modi sempre un po’ strampalati, zio Miscia fece addirittura chiamare un medico per mettere a posto la mano dello spaccasassi, un dito del quale era quasi maciullato e sanguinava con abbondanza.
Il Pierone, un giovane alto, bruno e forzuto, evidentemente era stato in guerra a lungo: non solo era rivestito con i capi d’uniforme grigioverde, cui mancavano solo le stellette, ma salutava zio Miscia mettendosi sull’attenti, e rispondeva alle sue domande con degli scattanti “signorsì”, oppure “signornò”, che a Clé fecero venire una gran voglia di ridere. Forse questo era un caso speciale dovuto alla guerra terminata da poco, ma Clé non riusciva a cacciarsi dalla testa un paragone (forse stupidamente superficiale) tra le relazioni alla buona, quasi fraterne, che correvano in Toscana tra contadini e “padroni”, e questi comportamenti che suggerivano abissali differenze di classe. Zio Miscia, con tutto il suo populismo nei confronti degli estranei, qui doveva fare il padrone, e lo faceva. Clé si divertiva intanto a osservare l’orto con occhio da esperto. Era ben tenuto: “Quasi quasi Martino non avrebbe saputo far meglio!” commentava tra sé.
Le ombre si allungavano, sulla mole del monte Gennaro dormivano delle grasse nuvole violacee e rosa. Zio Miscia e Clé ripresero la via per Tivoli nella loro rumorosa, prepotente Ceirano, spaventando lungo il tragitto greggi di pecore che spandevano per aria odori pastorali.
La strada, sempre polverosissima, petrosa, con buche e ferite d’ogni genere, saliva con ampie curve tra oliveti di prodigiosa antichità, verso il paese adagiato tra groppe montagnose, brulle e solenni. Clé, abituato alla gentilezza da miniatura delle campagne intorno a Firenze, godeva di questi vastissimi spazi, forti ed essenziali. Era quasi un primo elementare assaggio d’esotico. “Devo parlare con un tale,” annunziò zio Miscia parcheggiando la macchina all’ingresso del paese, “fatti un giretto, vai a vedere le cascate... Ci ritroviamo qui, tra poco.” In quel momento stava arrivando in paese dal basso, da Roma, il locale trenino a vapore. Sembrava un giocattolo. I binari erano in salita e la locomotiva sbuffava con un’espressione di sforzo drammaticamente umano; gemeva, fischiava, lanciava getti di vapore, agli scambi, con le sue ossa di ferro, produceva dei fragori quasi musicali: tata-clan! plok! tata-clan!
L’aria ormai imbruniva. Clé s’aggirò curioso per le stradine in salita, in curva, con discese improvvise, della Tivoli vecchia. Nelle case si accendevano fuochi e lumi, per lo più a olio. Veicoli non se ne vedevano, ma il viavai di asini, di muli, di cavalli era intenso. Ogni bestia era carica e si notavano sacchi, fascine di frasche, troncotti di legno, paioli anneriti dal fumo, panieroni di verdure. Gli animali erano guidati da uomini e ragazzi vestiti alla rozza, dall’aria stanca e un po’ feroce dopo ore e ore di fatiche. Molti calzavano le cioce, una suola di cuoio munita di legacci che avvolgevano le gambe, ulteriormente protette da una pezza di cotone o di panno bianco. La gente non parlava, si dirigeva ormai a testa bassa verso la cena, il giaciglio. Si sentiva unicamente lo scalpiccio delle bestie, interrotto da vari aah, iih, di chi le guidava, o le tirava per la cavezza. “Qui non è come da voi,” spiegò zio Miscia a Clé, in seguito, mentre dal paese si dirigevano verso Roma, “qui pochi abitano nei campi stessi, qui preferiscono stare in paese. Antiche paure, briganti, malaria chissà... Calano ai poderi con l’alba, magari prima dell’alba, e tornano su di sera.”
Zio Miscia era allegro, forse aveva concluso un buon affare, certo gli avevano dato da bere del vino, lo si sentiva dal fiato. Come, non si sa, ma prese a parlare del fratello. Forse la leggera ebbrezza gli facilitava qualche risposta alle domande di Clé d’alcuni giorni prima.
“Roberto, tuo padre, è un genio vero! Farà moltissima strada. Tra cent’anni se ne parlerà ancora, mentre io... che ne so, a volte mi fa rabbia, me ne sento umiliato, schiacciato. Siamo così diversi! Pensa, lui non ha neppure la patente! Avviare un motore? Girare a strappo quella maledetta manovella? Cose da meccanici! Lui è nato signorino, signorone. Lo vedi come si lava compulsivamente le mani quando torna da fuori? Un occhio freudiano ci vedrebbe un bisogno continuo di purificazione. Ama le cose fini, eleganti, costose. Odia tutto ciò che è volgare, triviale. Le parolacce lo terrorizzano, vero? Prova a dire ‘cazzo’, o ‘madonna ladra’, e vedrai che sguardi sdegnosi che ti dà... Io mi divertivo a scandalizzarlo quando stava ancora da noi... Poi se n’è andato. Già, volevi sapere per come e perché. Be’, tutti ci immaginavamo che finisse per sposare qualche contessa o marchesa conosciuta ai balli, alle feste di quella snobbona di zia Clarissa, o magari un’ereditiera di Boston o di Buenos Aires. Invece. Non so, lo notarono tutti in casa. Dopo una famosa serata dal pianista Bertani s’era immusonito. Qualcosa gli rimuginava dentro. Le prime notizie, vaghissime, ci giunsero via confidenze bisbigliate negli orecchi della mamma da Dorina. Che vuoi, quei due sempre insieme, fratello e sorella (li chiamavamo ‘gli incestuosi modello’), i segreti dovevano sfuggire per forza. Per prima cosa sapemmo che era straniera. E fin qui tutto bene. Quante volte nonno Anacleto diceva: ‘La Svizzera sarà modello di un’Europa futura... Italia, Francia, Inghilterra, Germania diventeranno come cantoni di una Europa unita. Noi siamo i modelli, le cianotipie del futuro.’ Dunque nessuna obiezione da quel lato lì...”
Ormai era quasi notte. La Ceirano aveva raggiunto la pianura. Come succedeva tanto spesso in quei tempi d’automobilismo arcaico, una gomma s’afflosciò. Per fortuna il guasto avvenne passando per le Acque Albule; c’era dunque qualche luce. Fu scovato perfino un benzinaio. Allora la benzina si vendeva a latte, niente pompe, distributori e simili. Campeggiava in grande la scritta BENZINA LAMPO.
Zio Miscia aveva ancora carburante in abbondanza per arrivare a Roma, ma ne acquistò una latta per imbonirsi il venditore, che infatti lo aiutò a cambiare la ruota. Finalmente il viaggio riprese. Clé stava zitto, sperava che zio Miscia continuasse il racconto. O era rinsavito dal vino tiburtino? No, per fortuna.
“Poi venne fuori un altro particolare... che Iris,” zio Miscia pronunciava il nome correttamente: Airis; Clé soffriva quando la gente chiamava la mamma all’italiana, Iris, “cioè Airis, aveva otto anni di più di Roberto. Ma anche questa venne trangugiata. Non era l’ideale, ma insomma sono cose che capitano... In seguito ci dissero (sempre via bisbigli di Dorina) ‘è incinta’. Eh già, eri tu. Ah, ah Clé, sei figlio dell’amore, di quello genuino, a ventiquattro carati, amor omnia vincit. Per quello sei venuto così cerbiatto! Tuo padre Roberto era cambiato da così a così. Chi lo vedeva più in giro? Per fortuna Dorina s’era già trovata Marco per fidanzato, sennò niente più bella vita. Roberto era innamorato, ma ti dico innamorato folle. Del resto lo è ancora. Che invidia mi fa, Clé. Ah, se avessi anch’io una ragione di vita come ha lui! Sempre meglio di me, più di me, fortuna più sfacciata, anche l’amore, il grande amore! Sai che vedo tua madre in ogni scultura che quello tira su con la creta nello studio? Sempre lei, con quel suo stupendo collo da regina Nefertiti, sai il celebre busto millenario di Berlino... Del resto, ha ragione, Airis è una gran donna in tutti i sensi. Sei fortunato anche tu, piccolo mostro!”
Zio Miscia rimase zitto per alcuni chilometri di scossoni e di polvere. Viaggiare di notte era meno pericoloso che di giorno, almeno si vedevano, grazie ai fari, le macchine che arrivavano dall’altro senso, anche se la sottile farina di sassi riempiva l’aria.
A Clé non dispiaceva affatto quanto veniva a sapere da zio Miscia. Era bello sentire che i genitori s’amavano: che la fiamma tra loro era nata in modo tanto irresistibile da fracassare tutto. Certo “figlio dell’amore” non glielo aveva mai detto nessuno, neppure l’Ida con cui aveva tanta confidenza! Suonava buffo. Quasi un titolo di film, o di una canzone un po’ svenevole.
“Ma poi,” riprese zio Miscia, “il vero segreto esplose con selvaggio clamore tra le bifore gotiche del villino. Nonno Anacleto, con le sue ben note idee democratiche e repubblicane, spesso francamente socialiste, sarebbe stato pronto a considerare molte situazioni anomale, che so io, la fidanzata operaia o contadina, insomma una brava ragazza qualsiasi ‘senza passato’, ma tua madre, come sai, era divorziata, legalmente divorziata. A quei tempi, a Roma, non si trattava dell’inaccettabile, si trattava dell’inconcepibile. Si era parlato di ricevere Airis in casa, saputa però con sicurezza la cosa, non se ne fece più nulla. Il suo nome non veniva neppure sussurrato. Ormai era guerra aperta. ‘Babbeo’ gridava nonno Anacleto a mio fratello, ‘ma se ha otto anni più di te!’ Cercava istintivamente, alla disperata, di ferire Roberto per redimerlo, sollevando antichi argomenti maschilisti di mediterraneo vigore. ‘Divorziata!’ esclamava sudando freddo, tenendosi un fazzolettino ricamato sulla bocca, la mamma. Poi tentava la via della ragione: ‘Ascolta Roberto, tu adesso sei un malato, un ferito, non distingui, non hai più l’equilibrio giusto. Lascia fare a noi che ti amiamo davvero. Papà le farà uno splendido regalo, ma che se ne vada, che torni ai paesi suoi... Cosa ti prende, figlio mio? Oh, Vergine santissima! Persuaditi, sono uccelli di passo, maliarde, avventuriere internazionali. Hai avuto tante soddisfazioni, che vuoi di più? Non scambiare il gioco con la vita vera. Il bimbo? La persuaderemo noi a darcelo. Lo alleveremo noi. Come ha lasciato gli altri due, lascerà anche questo, è fatale...’ ‘Mamma, ti prego, ti scongiuro!’ faceva Roberto contorcendosi le dita. E la mamma: ‘Oh Dio, Maria Vergine santissima, che calvario! Divorziata, capite, divorziata...’ Insomma la casa, all’ora dei pasti, era divenuta un teatro, ospitava un drammone a puntate. Io e Dorina ce ne andavamo fuori; era una situazione troppo penosa. Il divorzio, non solo era ben lontano dall’esser contemplato dalle patrie leggi, ma era del tutto estraneo al costume, alla mentalità del tempo, dell’anno di grazia 1911 o ’12. Di alcuni, specie di persone molto in vista o con grandi mezzi, si sentiva dire che avevano ottenuto un ‘annullamento’, sentenza che in un certo modo ‘rimetteva le cose a posto’. Ma il divorzio era ‘mostruosità straniera’, lacerazione da rifiutarsi nel modo più assoluto, capisci?”
Clé si sentiva turbato, molto turbato. Non aveva mai dovuto affrontare gli eventi che riguardavano la mamma da un punto di vista così duro, oggettivo, estraneo. Conosceva più o meno i fatti, ma li vedeva inquadrati nell’ottica inglese, quindi spinosi, ma accettabili. Uno prende il morbillo, la scarlattina, poi guarisce, e la vita continua come prima.
“Ma tu zio,” chiese Clé, “non prendevi le parti di tuo fratello, di Airis?”
“Eh, caro Clé, mi fai ridere! Non sai cos’è il nonno Anacleto quando s’intesta, s’arrabbia. Le mie parole sarebbero servite a poco. Lì erano in gioco i massimi principi, le concezioni cardine dell’esistenza.”
“E allora?”
“Visti inutili tutti i tentativi di ‘ricondurre la pecorella smarrita all’ovile’, si giunse inevitabilmente alla scena madre, madrissima. Io non c’ero, ma me l’ha raccontata Dorina. Come nei veri romanzi d’appendice, lei stava dietro una porta ad ascoltare. I tuoi nonni, Anacleto e Ginevra, stavano seduti al tavolo grande della sala da pranzo, la ricordi?, insieme con Roberto. In poche parole il nonno Anacleto gli disse a voce bassa, contenutissima: ‘Caro figlio, renditene conto, le cose sono giunte a una crisi estrema. O lasci, hem, hem, (zio Miscia disse così; Clé intuì che l’espressione vera doveva essere stata “quella donna”, e fu grato che gli fosse stata risparmiata), oppure lasci per sempre questa casa...’ Dice che tuo padre si alzò in silenzio, s’aggiustò la cravatta (come fa nei momenti di massima tensione) e uscì senza una parola dalla stanza, e dalla casa. La mamma poveretta fece per alzarsi, racconta Dorina, ma il nonno piombò come un avvoltoio sulla sua mano poggiata al tavolo e la immobilizzò. Non le rimase che sfogarsi in singhiozzi.”
Ormai la Ceirano tutta incrostata di polvere era vicina a Roma, si vedevano già, contro le luci della notte, i cipressi del Verano. Ci fu un breve silenzio. Forse zio Miscia pensò d’essere stato troppo esplicito con il nipotino, accanto a lui, zitto e pensoso.
“Allegria, Clé! Sono passati ormai dodici anni da quei trambusti. Sono un lontano ricordo. Dopo la tempesta, il sereno! Pochi drammi finiscono così bene. I tuoi sono sempre innamorati, tu e Gentile state crescendo... Il traffico tra Firenze e Roma è intenso. Saranno almeno cinque o sei anni che Airis viene da noi, è diventata in un certo senso la beniamina di casa, come avviene quando si è costretti dalla realtà a ricredersi.”
Zio Miscia si voltò a guardare il nipote lì accanto. Dormiva beato! Troppi chilometri, troppi sbalzi, troppe emozioni, la mamma, i nonni, Firenze e la villa, Roma e il villino, Captain Cummings, i fratellastri intravisti nella foto, amori, divorzi, dilemmi, cose di fuoco, cose di ferro. Il cerbiatto reagiva nel modo più sano e benedetto: con la dolcezza del sonno.