11. Zia Violet e le scosse culturali

Cos’è un terremoto? L’effetto di uno scontro tellurico profondo tra scudi, o placche mobili, della crosta terrestre. La scossa culturale è qualcosa di molto simile; si avverte quando due scudi del pensiero umano, diversi per contenuti culturali, religiosi, linguistici, o di semplici usi e consuetudini, entrano in collisione tra di loro.

Portatrice d’uno scudo culturale assai diverso da quello in cui Clé si andava formando, poteva dirsi per esempio la zia Violet, sorella maggiore della mamma. Le due donne, benché nate dai medesimi genitori, erano molto diverse tra di loro, sia nell’aspetto fisico sia per formazione, mentalità, posizioni intellettuali e forse addirittura per carattere. Clé sapeva che, dopo gli anni comuni della prima infanzia, erano cresciute lontane l’una dall’altra formandosi in modo diverso. La mamma, trascorsa un’infanzia libera e gioiosa in Ungheria (anni su cui avrebbe poi scritto un libro incantevole: A child went forth), era stata spedita dodicenne a Londra e chiusa in un collegio, dov’era rimasta sino alla maggiore età; zia Violet era invece cresciuta con dei parenti inglesi di provincia.

La mamma, molto bella ed elegante, aveva goduto di notevoli successi in società; il suo primo libro di ricordi le aveva dato un nome, e altri seguirono ben presto. Si era inoltre, certo troppo precipitosamente, sposata con quel capitano Herbert Cummings, che le aveva dato due figli senza però riuscire a renderla felice. Zia Violet s’era sposata anche lei giovanissima, ma con un medico, zio Laurence, che era poi divenuto un notissimo e rispettato cardiologo.

Di tanto in tanto gli zii Violet e Laurence capitavano in visita e vacanza a Firenze. Zio Laurence era un uomo alto, calvo, occhialuto, convenzionale nel vestire, di poche e importanti parole, il quale metteva addosso a tutti un’inspiegabile soggezione. Perfino il dottor Raimondi la subiva, e Clé notava il fatto (con perverso piacere) da certi impappinamenti nell’inglese del genitore. “L’ha detto perfino zio Laurence” valeva in casa quanto un ipse dixit d’Aristotele. Zia Violet doveva descriversi come decisamente brutta; il Creatore era stato poco generoso nel costruirle la faccia, il mento era troppo forte, il naso troppo marcato per una donna, soltanto gli occhi riuscivano a esprimere benevolenza e tenerezza. Ciascuno di noi, a volto immobile, è munito di un’espressione di base, difficilmente modificabile, e in questo siamo a totale mercé del caso. Basta una piega all’ingiù nel taglio della bocca, per esempio, ed eccoti un’espressione annoiata, o arcigna, o addirittura scostante, che magari poi non corrisponde affatto agli atteggiamenti reali, di fondo, della persona in questione. Si possono anche presentare delle facce che si potrebbero definire un ossimoro, con la bocca sorridente e gli occhi disastrati, o viceversa, per cui sino al momento in cui tutte le fattezze si mettono in moto, esprimendo l’autentica vita interiore, non sai bene cosa aspettarti. Questo era un po’ il caso di zia Violet; ci voleva del tempo a scoprire che era generosa, adorabile, ricca di buon senso, costantemente mossa dal desiderio di fare del bene. Certo la disciplina silenziosa che zio Laurence imponeva in famiglia, con il solo suo esempio di vita, l’aveva profondamente plasmata, tanto che quando parlava della sorella si sarebbe detto sottintendesse spesso qualcosa come: “Quella vaga, decorativa, edonista di tua madre, quel monile, che vuoi che ne sappia della vita?”

C’erano poi dei lati occulti nell’impasto famigliare di cui Clé andava piano piano rendendosi conto: mentre la mamma simpatizzava per il Cattolicesimo (a cui poi finì formalmente per convertirsi, poco prima di morire), zia Violet si confessava protestante, nemica d’ogni forma di popery e con tempra piuttosto accalorata. Clé era troppo piccolo per interessarsi a queste cose, ma ripensandoci più avanti nel tempo poté concludere che, pur restando nell’ambito della Chiesa anglicana, la zia doveva seguire tendenze, gusti, pratiche della Low Church (Chiesa bassa). Com’è generalmente risaputo, la Chiesa anglicana è simile agli arcobaleni, possiede cioè un vasto fascio di colori; si va dalla High Church (Chiesa alta), praticamente definibile come un Cattolicesimo acefalo, che non si riconosce cioè nel Pontefice romano, ma accetta tutto il resto del grandioso sistema, a forme di Chiesa bassa e bassissima, le quali sono assai vicine al Protestantesimo vero e proprio delle sette, soprattutto in questioni di pratica liturgica, di atteggiamenti verso l’arte e l’architettura religiose. Spesso viene dimenticato, o volutamente trascurato, il fatto che un certo periodo della Riforma inglese fu accompagnato da una vera campagna iconoclasta, meno virulenta e meno lunga di quella notissima bizantina, ma abbastanza accanita da svuotare in gran parte le chiese isolane dei frutti artistici del Medioevo.

Zia Violet e Clé si recavano spesso in giro per Firenze to see the sights (per visitare i luoghi celebri). Quando uscivano di casa, zia Violet inalberava sulla fluente chioma castana, tenuta ben alta con sapiente lavoro di forcine, un cappellino di paglia viola con fiori rosa. Martino aveva definito zia Violet in quell’acconciatura “un bellissimo albero di Natale”. Clé, nel forte senso di conformismo che si agita nei bambini, soffriva acutamente di dover passeggiare per la città con un albero di Natale, anche se bellissimo. D’altra parte proprio “l’albero di Natale” aveva la simpatica virtù di parlargli da pari a pari di tante cose “come fosse un piccolo uomo”, non un bambino o un ragazzino. A ripensarci, quasi nessuno al mondo gli faceva quest’insigne onore, e Clé ne era incantato. “Quando sarai grande,” gli diceva zia Violet, “dovrai fare qualcosa di veramente utile per la società, vero? Il medico, per esempio. Ma anche essere capitano di marina è bello, no? Oppure dirigere una fabbrica, o costruire ponti, case, ferrovie. Pensa a quante vite puoi fare del bene. Your father,... and your mother...” seguiva un silenzio, ma Clé intuiva facilmente che zia Violet li considerava ambedue “monili”, esseri graziosi sì, simpatici sì, ma da non prendersi troppo sul serio. E da scartarsi nel modo più rigoroso come modelli per il futuro di giovani vite.

Zia Violet e Clé visitavano gallerie e chiese fiorentine. In vari casi Clé quasi arrossì di vergogna; come nativo della città avrebbe dovuto fare lui da guida, viceversa era la zia Violet, con il suo Baedeker in mano, che gli indicava edifici famosi, o opere d’arte da ammirare. Un giorno per caso zia e nipote, percorrendo la via Tornabuoni con i suoi negozi celebri ed eleganti, finirono per fare una capatina all’interno di San Gaetano, una delle poche chiese barocche di Firenze. Paragonata al Barocco vero di Roma o del gran Sud, siamo a livelli castissimi, di medicea morigeratezza, ma insomma qualche segnacolo d’esuberanza artistica non mancava. “Io non capisco come si possa pregare qua dentro, tentare un avvicinamento a Dio, con tutta questa folla di statue, di nudi, di vesti preziose, di ori,” sospirava zia Violet, sempre però trattando Clé come una compagnia adulta a cui si confidano senza remore i propri pensieri e sentimenti. Clé fu colpito fortemente da questo ribaltone acrobatico dei consueti punti di vista. A casa, tra i genitori e i loro amici, si viveva continuamente un culto addirittura mistico, lirico, per qualsiasi forma d’arte. I nomi, senza arrivare a Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Botticelli – i numi massimi del Pantheon della Bellezza – ma perfino quelli del Guercino e del Sassoferrato venivano pronunciati con il timor reverentialis che possono riscuotere in convento i nomi di santi minori, ma sempre oggetti di purissima dulia. L’idea che l’arte, magari solo un suo aspetto, un suo periodo, potesse essere ritenuta ostacolo, peso, gravame allo spirito, quindi bruttura e male, da principio fu intimo scandalo, oltraggio inaudito; poi – ripensandoci – piacque a Clé come capriola mentale, un modo cioè di vedere le cose da un punto di vista nuovo, inaspettato, sorprendente.

Anni più tardi Clé, visitando Roma e la Cappella Sistina, ebbe a ricordarsi vivamente di zia Violet, quando lesse che papa Adriano VI, il batavo (era nato infatti a Utrecht, in Olanda), vedendo le pitture di Michelangelo, restò scandalizzato ed esclamò che si trattava di “una stufa (un bagno) d’ignudi”. Qualcosa di analogo aveva scritto su di lui il Vasari: “Sprezzando tutte le buone pitture e le statue, le chiamava lascivie del mondo, cose obbrobriose e abominevoli.” Pare anche che l’intransigente Pontefice disceso dal Nord, avesse cominciato “a ragionar di voler gettare per terra la Cappella del divino Michelagnolo...” (Vasari, Vite). Meno male che Adriano VI restò sul seggio di san Pietro per pochi mesi, tra il 1522 e il 1523, altrimenti forse sopravvivrebbero solo dei disegni preparatori per un immenso capolavoro svanito nel nulla! Si può forse supporre che l’Eterno barbuto, il quale crea cose ed esseri con tanto impegno e gioia sulla volta famosa, pensasse bene di richiamare il batavo in cielo prima che facesse irreparabili danni?

Con gli anni, e in seguito da grande, questa molteplicità di visioni del mondo doveva divenire per Clé, non solo un piacere, ma mezzo di studio, di ricerca. A quei tempi si dilettava di schegge e frammenti, senza capire ancora l’importanza di simili operazioni. Per esempio c’erano gli sguardi opposti sulla furbizia – a cui si è già accennato. In fondo era come avvalersi di parallassi mentali per capire meglio il mondo al di là delle apparenze. Parallassi? Sì, gli astronomi d’un tempo misuravano la distanza delle stelle più vicine (oggi hanno metodi molto più sofisticati, che valgono anche per quelle lontane) prendendo come base di triangolazione il diametro del percorso ellittico della Terra intorno al Sole. Se fai una misurazione a gennaio e la rifai in luglio, ti avvali d’una base di circa trecento milioni di chilometri, non molto rispetto agli androni smisurati dell’universo, eppure già qualcosa: almeno le stelle vicine dimostravano piccoli spostamenti rispetto alle “stelle fisse”, e servivano a misurarne la distanza assoluta da noi. Clé non faceva ancora simili ragionamenti, ma se il tutto gli fosse stato spiegato passo per passo l’avrebbe certo capito e molto apprezzato. Che l’arte fosse, da un lato, glorioso viale fiorito su cui ci s’incamminava verso i plagi del divino, e dall’altro una sorta d’ostacolo oscuro sulla medesima ascesa, serviva a spiegare, a sviscerare più a fondo il fenomeno arte, il fenomeno essere umano, e il superfenomeno Dio.

Qualche anno dopo Clé rimase solo per un paio di settimane con zia Violet in una villa che zio Laurence aveva affittato nei dintorni di Firenze. I genitori erano partiti per un ignoto viaggio (Polonia? Ungheria? Pareva fosse un Paese dell’Est). Zia Violet aveva una sua cuoca inglese di nome Mrs Maddock la quale riusciva a bollire patate, cavoli, fagiolini, carote e altre verdure fino a quando si presentavano in tavola come una pasta pressoché disfatta di fibre vegetali, color pallore sporco. La carne, benché buona all’origine, quindi difficile a sciuparsi, subiva anch’essa trattamenti tali da presentarsi al palato in modo del tutto scoraggiante, anche nel caso di uno stomaco giovane, energico e desideroso di riempirsi dopo un pomeriggio di scorrazzate per i boschi e i torrenti dei dintorni. Clé, abituato alla gustosa cucina toscana, protestava, si lagnava, e tanto si lamentò che un giorno zia Violet venne fuori con una splendida scossa culturale: “But, my dear boy,” esclamò serissima, “food must not taste good!” Stupenda affermazione, subito appesa alle pareti più in vista negli Uffizi della mente, a illuminazione di civiltà contrastanti. Quello che in uno scudo culturale dell’umanità era gioioso e innocente piacere, in un altro continente dello spirito si trasformava in indulgenza peccaminosa. E meno male che zia Violet era solo protestante, fosse stata ebrea, tutta la cucina andava riveduta per renderla kosher!

La sera, spesso zia Violet aveva la buona abitudine di leggere e spiegare al ragazzino varie storie delle Bibbia (ricordare, in greco Tà Biblía è plurale!). Le prime volte Clé sopportò l’elargizione come una lagna mortale, ma poi il fascino delle antiche storie accalappiò anche il piccolo ribelle, che stava ad ascoltare avidamente, e imparava i fattacci del paradiso terrestre, le avventure di Noè nel diluvio, le cronache di Esaù e del piatto di lenticchie, gli eroismi di Giosuè e la caduta di Gerico...

Anni più tardi, Clé avrebbe ricordato con gratitudine i racconti di zia Violet, che almeno gli permettevano di capire molta parte dell’iconografia artistica della propria civiltà. Né la scuola, né altri in famiglia gli avevano mai aperto simili orizzonti. Non si trattava di credere o non credere, ma di prender contatto con le fondamenta, le pietre angolari, in senso quasi materiale, d’una civiltà. Come del resto in India bisogna saper qualcosa del Mahabharata, delle dieci manifestazioni di Vishnu, della Trimurti Brahmanica, di Krishna, se si vuole comprendere qualcosina di quell’immensa civiltà e delle sue arti.