12. I fauni dei boschi, i fauni delle scogliere
Clé aveva vissuto il periodo della scuola elementare in modo sussultorio e dilettantesco. Certo i tempi non erano favorevoli alla regolarità. Quelle che per lui sarebbero state le prime classi combaciavano con la fine della prima guerra mondiale, poi c’erano stati gli anni disordinati dell’immediato dopoguerra quando, almeno in certi momenti e certi luoghi, era addirittura pericoloso circolare per le strade, dove opposte fazioni potevano scontrarsi violentemente tra di loro. Durante la guerra, il dottor Roberto Raimondi si trovava al fronte come militare. A quei tempi Clé stava molto con la mamma; a cinque, sei anni, il bambino parlava più inglese che italiano, pronunciava quella che doveva essere la sua vera lingua con un certo accento forestiero, per cui spesso veniva preso in giro. Come Clé passava dalla vita colta e ordinata della villa a quella molto più libera e dedita ai lavori manuali della casa colonica accanto, così saltava dall’inglese al tosco-becero dei dintorni di Firenze. L’italiano vero era una terza e quasi forestiera alternativa. Poi con l’aiuto della signorina Pagni, con l’assistenza di non si sa quali santi del paradiso, Clé aveva imparato a leggere e scrivere l’italiano autentico, e a fare uso della tavola pitagorica. Il ragazzo era favorito da una memoria prensile, e da una curiosità insaziabile per tutto. La tavola pitagorica, per esempio, lui se la vedeva in testa come una fotografia, bastava chiudesse gli occhi. Per l’esame di licenza elementare Clé venne condotto dalla signorina Pagni a una scuola lontana da casa, situata in una via dal nome fatato: delle Cento Stelle. Questo particolare lo rese felice. Fin da quei tempi primordiali Clé provava segreti piaceri al suono di nomi speciali, di parole-gioiello (come: “crisoprasio”), di sillabe in eufoniche fioriture. Un difetto, una debolezza? Chissà. Certo una ben definita caratteristica. L’esame andò bene, specie per la geografia e l’aritmetica.
Con l’autunno del 1922 la famiglia poteva dirsi ormai saldamente riunita. Grossi eventi scuotevano il Paese (28 ottobre, marcia su Roma), ma Firenze era tornata alla sua tranquillità provinciale. Un giorno, verso la fine di settembre, il dottor Roberto Raimondi, indossato un cappottino leggero da mezza stagione, con cravatta, cappello e bastone da passeggio, accompagnò Clé fino a scuola, er il suo primo giorno di ginnasio. “Adesso studierai rosa rosae” disse il dottor Raimondi, “non ti senti già grande?” poi abbracciò il figlio con una tenerezza commovente, indimenticabile, prima di lasciarlo solo tra i compagni. A ripensarci, fu uno degli ultimissimi momenti di dolcezza, di vera intimità, tra padre e figlio. Di lì a poco, con l’inizio dell’adolescenza, successe qualcosa ai meccanismi delicatissimi che legano due generazioni tra di loro. Da principio ci fu come una nebbiolina di freddezza, di lontananza, poi piano piano un vallo, infine una voragine.
Perché il dottor Raimondi aveva scelto come ginnasio per il figlio maggiore le Scuole Pie Fiorentine, fondate nel Settecento, e rette da un ordine cittadino chiamato dei Padri Scolopi? Allora Clé non se ne faceva minimamente un problema, accettava gli eventi come sgorgavano dal torrente della vita. Anni più tardi, quando s’era formato in lui un certo sistema d’idee riguardo a latitudini e longitudini dell’esistenza, ripensando a quel mattino d’autunno, gli parve di scorgere monti e valli che disegnavano un plausibile panorama. La vita al villino di Roma, specie durante il gran decennio che precedette la prima guerra mondiale, era stata benedetta da ogni sorta di privilegi: quello economico (non mancava nulla, proprio nulla alle necessità e alle comodità dell’esistenza), quello sociale (vi s’intrecciavano relazioni e conoscenze molteplici, varie, interessanti, importanti), quello culturale (libri, musica, conversazioni), la tensione si manteneva insomma ai più alti livelli. Ma esisteva una faglia nascosta, importantissima: quella religiosa. Da un lato stava nonno Anacleto. Forse era fondamentalmente agnostico, forse nutriva in cuore una fede deista fuori d’ogni schema. Chi lo sa? Ma in Italia, specie allora, tra fine Ottocento e primi Novecento, chiunque si opponesse in qualche modo, anche solo con parole, commenti, sorrisi mal piazzati, alla religione consueta e istituzionale, veniva spinto in mille modi differenti verso l’unico ruolo riconosciuto a simili persone: quello dell’ateo, del materialista, di chi “non crede in nulla”. Al nonno Anacleto si contrapponeva nonna Ginevra nel ruolo classico della sposa dolce e pia, devota e praticante, se non addirittura bigotta, la quale resiste alle miscredenze del consorte con sospiri, sguardi da santa del Perugino, orazioni e acqua benedetta. Quanto la sua fede fosse profonda e sostenuta dall’intelletto sarebbe stato difficile dire, ma che fosse squisitamente sincera non v’era dubbio.
I giovani erano dunque cresciuti in questo occulto campo di battaglia riportandone varie conseguenze. Della Dorina sarebbe stato difficile dire qualcosa di preciso; si sposò presto e bene, ebbe subito figli a cui badare, parve a tutti navigare serena per il suo cammino. Michele, estroverso e attivo, seguì senza tentennare i passi del padre. Del resto era il beniamino del genitore, tra i due correvano consonanze profonde di personalità. Roberto, in maniera del tutto invisibile, fu il più colpito, il più lacerato. La sua natura introversa e compulsiva, il suo rispetto per le tradizioni, le istituzioni, le gerarchie, gli ponevano continui problemi difficili da risolvere. I tempi, gli studi, le influenze di famiglia e amici gli impedivano di credere alla cieca, come un puro atto di naufragio; d’altra parte l’attaccamento alla madre gli suggeriva nostalgie, rimproveri, ripensamenti ben nascosti sotto la patina del controllo di sé. Allora che succedeva? Quando capitava il caso poco impegnativo, o il momento di un’adesione esteriore, Roberto poteva pure comportarsi da credente, da sostenitore delle sante tradizioni. Clé aveva notato, per esempio, che dava sempre abbondanti elemosine ai mendicanti dinanzi alle chiese, o a quelli che venivano il sabato a stendere la mano fuori dell’uscio di casa. Iscrivere il figlio maggiore alla scuola degli Scolopi non rientrava forse in quest’ordine di manifestazioni?
Alcuni anni dopo Clé, ripensando alla carriera artistica del padre, vi rintracciava tre periodi: nel primo il tema di fondo era stato l’amore per Iris, e con lei per la famiglia. Anni felici, opere felici. In un secondo periodo, pur dedicandosi ad altri orizzonti, aveva amoreggiato ripetutamente con la religione cattolica modellando una Via Crucis, le porte in bronzo di una celeberrima basilica romana, la balaustra di uno scalone in Vaticano, statue d’Evangelisti, di Madonne, di Angeli. Nel terzo, ahimè, il meno luminoso, aveva posto il proprio dono straordinario per il disegno e la facilità di modellare immagini al servizio di chi gli commissionava monumenti e fregi, fontane e pannelli decorativi. Se il primo ciclo era stato quello più genuino e fruttifero, il secondo era, in un senso psicologico, il più interessante. Clé non vide mai il dottor Raimondi in amicizia con sacerdoti o frati, non gli vide mai tra le mani un libro pro o contro la fede, non lo vide mai concedersi a pratiche religiose. Però il flirt con la religione attraverso le dita e la creta continuò per anni. Era una sorta di alibi magistrale e, forse, di segreta soddisfazione? Che fosse un suo modo sibillino di pregare? Chi lo sa, chi lo sa!
Salutato il babbo che se ne andava, chiusa la porta della nuova classe, Clé si guardò intorno. Professori, libri, aule, lezioni, rosa rosae, gli dicevano veramente poco per il momento. Il clamoroso fatto nuovo furono i compagni, le nuove amicizie, alcune delle quali dovevano poi durare una vita intera.
Il primissimo legame lo strinse con Rolando Wissler. L’età dei due ragazzi era pressoché la stessa e i caratteri avevano parecchi punti in comune, ma i loro fisici non potevano essere più diversi. Clé era un biondo-castano, magro, di statura medio-alta, dagli occhi scuri e dalla pelle a peluria chiara che prendeva egregiamente il sole, abbronzandosi quasi senza rossori o infiammazioni. Rolando, anche lui magro, leggermente più basso, aveva occhi e capelli nerissimi; era meno muscoloso di Clé, ma molto più agile, sciolto, e sensibilissimo ai ritmi. Clé per esempio non riuscì mai a ballare bene, Rolando fu un ballerino di classe; Clé giocava a tennis da povero tanghero legnoso, Rolando saltava, sgusciava, schizzava di qua e di là come un folletto.
Tanto Clé che Rolando si recavano da casa a scuola, e ritorno, in bicicletta. Questa fu la prima cosa che li unì. “Ehi tu, da che parte vai?” “Io alla Colonna... E tu?” “Io a Bagno a Rìpoli!” “Allora facciamo la strada insieme!” Clé abitava a circa un paio di chilometri dalla scuola, Rolando molto più fuori, in campagna, a sei o sette chilometri di distanza; ma le direzioni erano le stesse, e i due ragazzi percorrevano ogni giorno almeno parte del tragitto insieme. Vennero subito scoperti gusti in comune: i lavori di campagna, tagliare la legna, arrampicarsi sugli alberi, esplorare strade e stradine in bicicletta. Il fiume Arno, in realtà un torrentaccio sregolato, capace di piene disastrose, ma per lo più un rigagnolo verde “sdraiato come un lazzarone attraverso la città” (Ottone Rosai), divenne, nella sua parte a monte di Firenze, in aperta campagna, dove scorreva tra rive sassose fiancheggiate da pioppi, una sorta di loro parco privato e felice. Ci arrivavano lungo viottoli segreti, un po’ in bicicletta, un po’ a piedi spalleggiando il veicolo per dirupi impervi, poi gettavano le vesti sui rovi, e giù nudi nell’acqua vagamente odorosa di terra disciolta. A quei tempi l’inquinamento era limitatissimo, non esistevano detersivi, le industrie a monte erano poche.
La casa di Rolando stava sopra una collina dalle parti di via del Carota, e si chiamava “Il Frantoio”, perché una volta si diceva avesse ospitato appunto un frantoio per olive, da lungo tempo scomparso. Strutturalmente le dimore di Clé e di Rolando erano consimili: il tutto, insieme a campi e boschi per circa un paio d’ettari, costituiva “La Proprietà”. Nel caso che riguardava Clé si aveva un’autentica villa da un lato, e un insieme di casa colonica, stalle, fienili, serre, limonaie dall’altro: ve n’era netta distinzione spaziale e gerarchica – come ai tempi di Plinio, duemila anni prima – tra dimora di rappresentanza del padrone e case dei lavoratori, con gli spazi per le diverse trasformazioni dei vari prodotti agricoli. Al Frantoio tutto era molto più semplice; ci si trovava di fronte a una fila di costruzioni similissime tra di loro, aperte verso sud-ovest, che ospitavano mezzadri, vacche, fieno, polli, tini di vino, derrate varie – e padroni. L’unica distinzione che veniva da fare era la presenza di una sorta di patetico avanzo di giardinetto (qualche pianta di bossolo, un paio di rose a cespuglio) dinanzi alla porta diciamo “principale”. Clé s’innamorò subito del Frantoio. Gli sembrava tanto più vera, genuina, essenziale della Villa Raimondi, con tutti i suoi complicati dualismi spaziali e sociali.
Clé venne accettato prestissimo come uno di famiglia dai genitori di Rolando, nonché dai loro mezzadri, i Bigiani (non molto dissimili da Martino e i suoi). La storia dei Wissler era complicata e infelice. Il nonno Siegfried Wissler (Clé non lo conobbe mai, era deceduto pochi anni prima), uomo pare di sagacia, mezzi, intuiti sicuri, si era trasferito dalla Germania (Hannover) a Firenze verso la fine dell’Ottocento, aprendovi una libreria che presto divenne la più eminente della città. Herr Siegfried Wissler faceva parte di quella numerosa e influente colonia di stranieri che dava a Firenze un suo particolare sapore. Gli inglesi dominavano, seguiti da francesi, tedeschi, russi, olandesi – e più recentemente dagli americani. Siegfried Wissler si era istallato in una delle più belle ville di via San Leonardo bassa. Via San Leonardo è uno dei gioielli di Firenze. In antico uscendone per porta San Giorgio, conduceva dalla città fino ad Arcetri, percorrendo la groppa pianeggiante di un’altura; poi la costruzione del viale dei Colli, ai tempi di Firenze capitale (fra il 1865 e il 1870), divise in due la via, e ne risultarono una più alta e una più bassa. Per un certo tempo il musicista Čajkovskij abitò in una delle tante ville sorte lungo la via. Come avviene per i tracciati stradali molto antichi, via San Leonardo non procede diritta, ma “segue il vagolare delle vacche”, avanzando tra curve deliziosamente irragionevoli, slarghi, restringimenti e piazzuole. I vari proprietari, come è successo quasi dappertutto nei dintorni di Firenze, isolarono dalla strada i loro orti, giardini e campi, per mezzo di rustici muri poco più alti della statura umana, in modo da escludere lo sguardo dei curiosi. Molti di questi muri sono rivestiti di calcina grossolana resa grigia dagli anni, su di cui muratori giocosi tracciarono (e ogni tanto tracciano ancora) motivi di varia decorazione con una forchetta da buttar poi via.
Una volta, frugando con Rolando fra i tanti libri che c’erano al Frantoio (ovvia eredità del nonno Siegfried; ce n’erano almeno due stanate piene), saltò fuori un album di vecchie foto sbiadite. Vi comparivano vedute degli interni di Villa Wissler a via San Leonardo, del giardino, nonché diversi gruppi di persone (parenti, amici, ospiti vari?) sedute, o in casa, o nel giardino, con l’aria d’essere state sorprese durante piacevoli, dotti conversari. Libri aperti, o appilati sui tavoli, suggerivano tante cose. Clé aveva idee imprecise sul mondo germanico; certo la guerra non aveva contribuito a renderlo simpatico. Quando fu? Forse nel ’18, Clé era diventato per un certo tempo amico d’un coetaneo di nome Eugenio, di madre tedesca. I due giocavano agli aerei, ai bombardamenti. Gli aerei di Eugenio, provenienti dalla Germania, con tanto di caratteristica croce nera sulle ali, vincevano sempre; a Clé facevano l’impressione di malefiche libellule, d’insettacci mostruosi e velenosi. Ma ora Clé stava scoprendo un’altra Germania, quella umanistica, studiosa, occhialuta, magari incerta, forse debole, e l’impressione era del tutto diversa.
Il figlio di Siegfried e padre di Rolando si chiamava Helmut. Benché fosse tedesco anche di madre, era nato in Italia, crescendo quindi bilingue e partecipe delle due culture. Ma in quanto a personalità era del tutto diverso dal padre. Capacità organizzative e mordente zero. Era un sorridente sognatore e filosofo, mingherlino, biondissimo, vagamente somigliante a un’edizione germanica di Gandhi. Veleggiava attraverso la vita nutrendosi di verdure e leggendo Schopenhauer, Tagore, Lanza del Vasto. Idolatrava l’India. Oggi forse si sarebbe affiliato agli Hare Krishna.
Agli inizi del Novecento i Wissler, con spirito avventuroso, amavano recarsi d’estate a villeggiare in luoghi insoliti, away from the beaten track. Un anno erano andati all’isola del Giglio, ancora ignota ai turisti, un anno a Castelluccio, ai piedi del monte Vettore, il luogo in Italia che più richiama gli altipiani del Tibet, un anno infine scelsero un paesino dell’alto Appennino modenese, non lontano da Vidiciatico. Helmut girava in sandali e pantaloncini da cultore del sole per le groppe del Corno alle Scale e della Nuda. Qualche volta lo accompagnava di nascosto (i mores di quelle tempora non permettevano altro) una prospera, franca, energica, simpatica ragazza del paese dai capelli neri e dagli occhi fuschi, di nome Rina. Chissà, tra quelle profumate frasche di faggio, per quelle radure odorose di fragole, che mai successe. Fatto sta che la Rina si trovò incinta, e nacque Rolando.
Poco dopo cominciarono i guai. Il nonno Wissler morì e i suoi beni, l’avviatissima e celebre libreria, la villa nobile e incantevole di via San Leonardo, vennero incamerati dallo Stato italiano, in quanto proprietà del cittadino d’un Paese nemico. Helmut, essendo nato in Italia, poté restare a lungo defilato nel suo eremo acquistato anni prima, finché le cose andarono bene. Poi, un brutto giorno del 1919 (la guerra era ormai finita da tempo ma la burocrazia italiana, come si sa, non perdona), si presentarono dinanzi alla porta della modestissima villa due agenti in uniforme con un fascio di fogli in mano. Rolando aveva otto anni, e la scena lo impressionò moltissimo. Lo condizionò per la vita. “Chi è Wissler?” chiesero con modi, pare, duri e volgari. Helmut e la moglie si fecero avanti. “Ah, siete voi? Avete tempo un mese per sloggiare. Qui non v’appartiene più nulla. Leggete” e piantarono sotto il muso di Helmut un foglio pieno di timbri nel quale si annunciava che ai Wissler, come cittadini di Stato nemico, veniva sequestrato ogni bene. Helmut, mezzo rincitrullito dal colpo inaspettato, dovette firmare alcuni dei documenti. Poi gli agenti bruscamente, senza dire altro, se ne andarono.
Fosse stato per Helmut, le speranze di salvarsi sarebbero state scarse. La sua natura di sognatore passivo lo avrebbe spinto ad accettare il rovescio di fortuna come si accetta un’alluvione, un terremoto, una peste. Forse, con quel fondo segreto di sadhu che gli covava in cuore, avrebbe addirittura benedetto il fato che lo spediva nudo, o quasi, nella foresta, tenendo in mano la ciotola del mendicante, libero da ogni peso, da ogni obbligo. Per fortuna esisteva la Rina: “Ma via, Helmut,” ripeteva risentita, “dobbiamo reagire! È un’idea pazzesca quella di mandarci via da qui, dalla nostra casa... Tu sei nato in Italia. Vedrai c’è un errore. La guerra è finita da lungo tempo, che c’entra il sequestro? Scommetto che sono quei delinquenti negli uffici che hanno inventato una bella scusa per arraffarsi per loro ciò che è tuo, e di Rolando!” Quella che era stata soltanto una fanciulla esuberante dell’alto Appennino emiliano, con gli anni, s’era trasformata in una padrona di casa instancabile e capace di prendersi in mano tutte, o quasi tutte, le responsabilità della famiglia. La Rina cominciò a frullare per gli uffici, a visitare e rivisitare certi avvocati influenti, e tanto fece che prima ottenne vari rimandi, e finalmente la revoca dell’ingiunzione. Intanto, come si può bene immaginare, tra parcelle d’avvocati, spese di giudizio e simili, il modesto patrimonio dei Wissler si ridusse quasi a zero. Niente paura! Con la Rina per capitano, la nave non sarebbe andata di sicuro a fondo. Tornando con gran coraggio alle sue radici paesane, essa aprì una pensione per stranieri non lontano dal centro di Firenze, e superò gli anni più duri di crisi, facendo lei stessa la cucina per gli ospiti, spazzando le loro stanze, ricomponendo i loro letti disfatti.
Quando Clé, tramite il compagno di scuola Rolando, conobbe i Wissler, essi stavano ancora al Frantoio. Erano gli anni del tira e molla con le autorità. Naturalmente Clé non ci capiva nulla, inoltre, viziato com’era dalle singolari fortune che lo avevano accompagnato sin dalla nascita, non s’interessava di simili fatti. Però Rolando ogni tanto gli raccontava qualcosa, per esempio della visita angosciosa di quei famosi agenti con i fogli in mano; così piano piano Clé cominciò a rendersi conto di tanti lati oscuri della vita, di cui a Villa Raimondi non giungevano nemmeno gli echi più fiochi. Ciò che lo colpiva di più era un atteggiamento, ormai incarnitosi in Rolando, di odio istintivo e profondo per ogni sorta di autorità, qualsiasi essa fosse; carabinieri, polizia, Comune, Stato, governo, partiti, tribunali, giudici, preti, chiese, tutto e tutti. “Allora sei un anarchico!” esclamava Clé. “Ma no!” ribatteva Rolando. “Sono uno che vuole giustizia!” Rolando non aveva la natura del teorico, non poteva dirsi un cerebrale, era invece un essere tutto istinti, fiuti, antenne; inutile cercare in lui coerenza. Del resto, ciò che lo rendeva amico di Clé, e di tanti altri, era un suo particolarissimo charme fatto di allegria, prontezza a buttarsi in qualsiasi impresa, amore per la natura, fedeltà nei rapporti umani.
Finalmente Clé aveva trovato un vero amico, un vero compagno per qualsiasi gioco, un compagno che si rivelava spesso più forte di lui, sempre più agile, più bravo, più destro, talvolta più coraggioso fino a rasentare la temerarietà. D’estate c’erano l’Arno, le nuotate, i tuffi, in altre stagioni c’erano i boschi di Montisoni. Il mondo immaginario dei ragazzi era quello dei Pellerossa. Quindi archi, quindi frecce. Il loro artigianato in questo campo si perfezionava costantemente. Gli archi erano di bambù semisecco, intero, non tagliato per lungo. Le frecce erano di canna, munite in punta d’un chiodo in ferro a cui era stata tolta la testa, tenuto ben fermo da molteplici giri di capillare filo metallico, e arricchite in coda da penne di gallina. Era un armamentario efficace, pericoloso. Uccidere piccioni o gatti era facile, ma queste cacce erano considerate volgari. Molto più difficile era colpire tordi o merli, eppure i ragazzi ci riuscirono diverse volte, portando gli uccelli come splendidi trofei in casa, in cucina. Tra i libri di Wissler era stato scovato un testo illustrato sui Sioux, e altri Pellerossa delle praterie: Rolando s’era scelto come nome “Toro Seduto”, Clé aveva preferito “Lungafreccia”.
Al Frantoio non abitavano solo Helmut Wissler con la moglie e il figlio; con loro stava anche la madre della Rina, detta “il Nonnone”. Era vecchissima e possente di corpo, quasi immobilizzata sopra un seggiolone regale, ma sveglia di capo come una giovinotta. Per uno di quei ponti amorosi che saltano generazioni, teneva in grandissima simpatia non solo Rolando, ma anche Clé, il suo inseparabile amico. Nata intorno al 1850 a Ferrara, quante ne aveva viste! All’incirca ventenne era andata in sposa al babbo di Rina, un giovane aitante che aveva compiuto il servizio militare nella città degli Estensi. Ma il neomarito abitava in un borgo sconosciuto, in alto tra le selve di castagni dell’Appennino emiliano. Non era una cosa semplice arrivarci! Il Nonnone parlava velocemente in un ferrarese stretto, eppure non si sa come Rolando e Clé riuscivano a capirla. “Fino a Porretta le cose furono semplici, ma poi (risata), poi mi caricarono sopra un mulo (risata). E chi c’era mai salito in groppa a un mulo? Dopo poco (risata) caddi in un fosso. Mi ripresero, altro mulo e via. Insomma la sera tardi, dopo molte ore di cammino su quel mulo, ecco il paese. Tanta festa! (risata). Necci, castagnaccio, dolci, vino (risata). La mattina dopo ci dico: ‘Datemi del pane.’ Cosa? (risata). Non sapevano neppure cos’era il pane lassù. Tanti pasticci anche buoni, ma solo in farina di castagne (risata). Castagne, castagne, castagne (risata), non conoscevano altro.” “Ti abituasti Nonnone?” “Eh certo, che dovevo fare? (risata). Tornare a Ferrara?” (risata, scroscio di risate).
Intanto uno dei contadini, nelle case di là del Frantoio, il Bigiani, pare si fosse improvvisamente malato; aveva una febbre altissima, delirava. Sua moglie, una donna scarmigliata di mezz’età, era venuta di corsa dalla Rina a chiedere aiuto. La Rina aveva aperto un armadietto e cercava delle medicine. Il Nonnone se ne accorse: “Macché medicine!” esclamò con una delle sue risate da sciamava della taiga siberiana. “To’, Rolando, prendi un piccione vivo, ma vivo, spalancalo con un coltello, ma che il cuore gli batta ancora! E legaglielo sul petto al malato, al Bigiani, vedrai come guarisce subito!”
* * *
Sarà stata un’estate agli inizi degli anni venti, quando Clé, Gentile e la governante Phyllis, vennero invitati dai nonni a Castiglioncello, sul litorale toscano a sud di Livorno. Il babbo era rimasto a Firenze a lavorare per una sua mostra personale che si sarebbe tenuta a Roma in inverno, la mamma era andata in Inghilterra per una delle solite visite ai parenti di là. I nonni, i nipotini e Phyllis occupavano una casetta distaccata dal grosso albergo, dove però tutti si radunavano per i pasti. Durante la giornata i nonni per lo più sedevano su comode poltrone di vimini, al rezzo di pini e lecci in vista del mare, godendosi l’aria fresca, conversando con vari conoscenti, o leggendo. Phyllis e Gentile avevano un loro posticino, con ombrellone, sulla spiaggia; Clé s’era subito organizzato per tonto suo. Macché albergo, sedie di vimini, spiagge e ombrelloni. Clé voleva esplorare un nuovo mondo.
Il mare! Clé non l’aveva mai visto prima, ma tra lui e quella sconfinata e nervosa pianura d’acque salate scoccò subito un amore forsennato. Bisogna dire che Castiglioncello era luogo di particolari incanti: un promontorio boscoso e cespuglioso si protendeva in mare, piombando poi sulle onde con una lunga e poderosa muraglia di scogli dal color fulvo, mentre dall’uno e dall’altro capo si rannicchiavano ospitali due piccole baie con spiagge sabbiose. V’era quindi di tutto per l’innamorato: scogli, rocce, fondali verdeazzurri, anse di sabbia odorosa di salmastro che calavano in acque tiepide, trasparenti, addomesticate.
Come non l’avrebbe saputo dire, ma Clé s’era quasi subito intruppato con una banda di cinque o sei ragazzini, più o meno della sua età, alcuni del luogo, altri di fuori. Clé aveva già imparato a nuotare in Arno; l’acqua di mare, che sostiene un poco più di quella dolce, gli parve quindi del tutto accogliente. A quei tempi lontani non esistevano purtroppo maschere, né occhiali da sub, ma Clé scoprì in men che non si dica la gioia dell’esplorare i fondali trattenendo il respiro. Forse fino a cinque o sei metri ci arrivava, e così scopriva certi scogli strani coperti di alghe, oppure delle anse di ghiaia bianca che, portata in superficie tra le dita, rivelava conchiglie fantasiose, o quegli opercoli chiamati “occhi di santa Lucia”, simili davvero a piccoli gioielli. Di tanto in tanto vedeva dei pesci, forse muggini, o saraghi, ma erano ombre indistinte. Il mare non era sempre tranquillo; ma Clé sapeva ormai il fatto suo, fin dove poteva osare, e si buttava in acqua anche quando i grandi gridavano: “Pazzo! Torna a riva!” Clé aveva già scoperto quant’è meraviglioso guardare da sotto le onde che si frangono contro gli scogli; un soffitto d’argento danzante che s’avvolge su se stesso, che genera comete di bollicine luminose nei raggi di sole. Intanto le alghe si scatenano in giostre folli, trascinate prima in qua poi in là dalla forza dell’onda. I fondali avevano anche loro voci misteriose; scoppiettii inesplicabili, o fruscii di barche a motore lontane.
In queste incantevoli esplorazioni, gran compagno di Clé era Fulvio, un ragazzino della stessa età e all’incirca della medesima corporatura. I suoi genitori vivevano in una vigna sui colli dietro Castiglioncello, e lui calava al mare in bicicletta. Durante i primi giorni, Fulvio, che si poteva dire fosse nato sul mare, faceva da guida a Clé, ma poi le parti s’invertirono; e fu Clé a trascinarlo in nuove prodezze. Per esempio il passaggio, risicato assai, entro un piccolo tunnel naturale sottomarino scoperto a qualche metro di profondità. “Ma via,” fece Fulvio al primo suggerimento della prodezza, “e se si nascondesse una murena là dentro? Pensa se t’azzannasse!” Fulvio, più esperto di mare, aveva ragione, ma Clé non aveva mai visto una murena, né s’immaginava quanto potesse essere pericoloso un suo morso, e quindi spensieratamente si gettò. Era stupendo entrare sotto l’arco naturale e scorgere più avanti, incorniciato dalle rupi nere nelle ombre, una sorta di giardino fatato d’alghe e di pietre, che il sole coloriva delle tinte più vaghe. La profondità era poca, quindi su tutto scorrevano e vibravano le luci, le ombre delle onde di superficie. Per Clé erano scoperte inaudite, che lo riempivano di una gioia segreta e dorata.
Quando fu che ai due (Fulvio e Clé) s’aggiunsero Renato e Giacinto? Impossibile dirlo. I ragazzi sono come le coccole di faggio, s’agganciano gli uni agli altri per natura, e via, eccoli subito in banda. Il regno di Clé e dei suoi amici era l’alta e frastagliata scogliera sulla punta del promontorio. Bisognava che il mare fosse in umore di calma assoluta, piatto come un lago, perché qualcuno s’avventurasse da quelle parti. Le imbarcazioni normali (allora niente gommoni o simili) erano di legno e molto pesanti: i barcaioli proibivano a chi le prendeva a noleggio di recarsi lungo la scogliera del capo, in quanto avventura troppo rischiosa. Insomma in quel labirinto di passaggi, strettoie, spiazzi, pozzi, archi naturali tra una rupe e l’altra, i ragazzini si sentivano, e sapevano d’essere, padroni assoluti.
Giacinto (che viveva d’inverno in Olanda e aveva la mamma francese) parlava un italiano svelto, ma capriccioso. Aveva sei mesi, forse un anno più degli altri. Fu lui che introdusse nella banda il culto del nudismo. “Un calcio a questi stracci!” gridava. “Sentite che liberazione, alla nuda!” Sì, era vero: Clé riconobbe subito che anche quel minimo straccetto blu dava noia. Clé s’accorse inoltre che Giacinto “aveva fatto lo sviluppo”, come dicevano i compagni: vantava cioè sul pube un nutrito cespuglio di peluria scura, sotto cui danzava un bananotto carnoso assai più cospicuo degli altri. Clé osservava con vergogna il proprio ventre liscio come la guancia di un neonato, e il proprio giocattolo ancora infantile. Era magra consolazione riconoscere che anche Fulvio e Renato gli somigliavano. Per i tre niente “sviluppo” ancora.
Piano piano, per gradi quasi insensibili, si finì con i giochini di sesso. Per Clé era un mondo totalmente nuovo, qualcosa di cui non aveva ancora la minima nozione, e per questo, scoperta affascinante. “Guardate che libidinoso!” esclamava Giacinto, seduto a cosce aperte sopra un sasso, carezzandosi il banano dritto come un bompresso di veliero, e per di più turgido, rosso. “Provate anche voi bimbetti,” predicava Giacinto, con l’aria leggermente sferzante d’un direttore d’orchestra dinanzi a dei musicanti inesperti. Era questo un sesso faunesco, scherzoso, di gran tripudio. Ridendo, schiamazzando, tra un tuffo e l’altro, tra una scrosciata e l’altra di spruzzi marini, i ragazzetti andavano scoprendo sensazioni elettriche che risalivano dai visceri più segreti culminando lì in quel triangolo da satiri, tra pancia e cosce. Giacinto finiva per raggiungere uno stato di estasi; allora s’appoggiava indietro alla parete rocciosa, chiudeva gli occhi, gemeva svergognato e beato. Non parlava d’orgasmo, termine ignoto ai ragazzi, bensì di “paradiso”. “Ahi, ho fatto un paradiso!” esclamava Giacinto svegliandosi. “Ora me ne faccio un altro. Dài, fatevi i paradisi anche voi!” Clé, per quanto provasse, non riusciva a raggiungere quei misteriosi e sublimi paradisi di cui parlava l’amico. “Mancherà lo sviluppo,” si diceva rassegnato.
Una di quelle mattine Clé, dopo essersi avviato verso la scogliera, ormai non soltanto parco segreto, ma giardino di strane delizie, era tornato a casa per riprendere un coltellino che aveva dimenticato, con il quale riusciva a togliere i ricci dagli scogli sott’acqua, senza pungersi. Clé dormiva da solo in uno sgabuzzino; accanto stavano Phyllis e il fratellino Gentile. Le due stanze erano separate da una porta. Clé notò subito un curioso suono di ripetuti sciacquii, lì nella camera accanto. Ebbe una tentazione immediata. Tra le tante ingiunzioni etiche ripetutegli dalla mamma, alcune emergevano in massimo rilievo: non dire bugie, non ammirare la furbizia, non aprire le lettere degli altri, non fare la spia ai compagni, non guardare da fessure o serrature! “Sono tutte cose,” continuava la mamma, “che abbassano chi le pratica, lo rendono abbietto. Devi sempre essere leale, aperto, tutto d’un pezzo, capito?” Ma lì, giusto ad altezza d’occhi, si presentava un foro da chiavi stupendo, favoloso, di quelli all’antica, si sarebbe detto un finestrino.
“I can resist everything, except temptations” aveva scritto una volta Oscar Wilde. Clé non ne sapeva nulla, si capisce, ma si trovò nell’identica congiuntura. Pose dunque l’occhio al finestrino. Di là, a due passi di distanza, stava Phyllis, completamente nuda, che si lavava a lenti colpi di spugna, quasi con voluttà. Clé rimase stordito dall’apparizione.
Phyllis aveva poco più di vent’anni, era deliziosamente formosa e rotondetta (qualche anno più tardi Clé avrebbe esclamato: “Ma è una delle Veneri di Ingres!”). Phyllis era tutta un poema di curve sode e soffici insieme, color del bronzo dove aveva morso il sole, bianco banana per le parti nascoste. Clé si trovò stravolto, incendiato. L’erezione furiosa esplose come mille soli. Ah, ecco un paradiso, due paradisi, senza neppure toccarsi, germogliati dal nulla come gigli. Clé s’allontanò dal chiavistello fatale e andò a sdraiarsi sul letto. Gli girava furiosamente la testa. Ma ora aveva capito cosa fosse un paradiso. Adesso sapeva.
* * *
Qualche settimana più tardi, tornati tutti a Firenze, vi fu in casa Raimondi una serata musicale. Il dottor Raimondi coltivava come sempre le migliori amicizie. Clé non avrebbe saputo dire come, ma quella sera una famosa violinista francese, che aveva dato un applaudito concerto in città, era stata invitata con il suo accompagnatore di piano, per intrattenere e rallegrare gli ospiti.
Dopo cena, dopo molte moine e battimani, i due si misero a suonare. Fino ad allora Clé non aveva mai ascoltato con impegno, o con abbandono, la musica seria; gli sembrava una cosa uggiosa da grandi, da signorini. Quella sera, chissà perché, seduto sopra un cuscino in un angolo della sala, il ragazzo visse un ignoto miracolo, subì un’importante e segreta trasformazione. I due musicisti eseguivano la Sonata per violino e pianoforte di César Franck. Clé si sentiva invaso come da una danza mistica, specie quando pianoforte e violino dialogavano tra di loro, ripetendo l’uno il motivo dell’altro in una ghirlanda mirabile di sospiri e dolcezze. Da quel momento la grande musica cominciò a entrare negli orizzonti e nei gusti più vivi di Clé, accompagnandolo poi per tutta la vita.
Partiti gli ospiti (per quella sera straordinaria niente regola del sonno alle nove), Clé si recò pensoso nella propria stanza. Chissà perché non aveva sonno. Scosso dalla musica? Forse. Stava bene infilato nel suo letto, quando la porta si apri ed entrò un’ombra femminile, vestitissima, ma scalza. Era Phyllis! Piangeva, sembrava fuori di sé. S’inginocchiò sul tappetino accanto al letto e pose il capo sulle ginocchia del ragazzo. Bisogna sapere che Phyllis suonava abbastanza bene il violino, forse in segreto covava delle ambizioni: “Un giorno, chi lo sa, anch’io...” “Ah, Clé,” ripeteva tra fiotti di lacrimoni caldi, “ora so davvero che non potrò mai... Non potrò mai suonare come lei! È crudele, terribile. Scusami sai, ma sei la sola persona a cui posso dirlo.” Clé non aveva la minima esperienza dell’universo donna, era imbarazzato, si limitava a carezzare il collo della giovane. Strano, ma il gesto sembrò farle bene. Smise di piangere. Intanto il contatto della mano di Clé con la pelle vellutata del collo di Phyllis portò con vivezza folgorante agli occhi del ragazzo la visione segreta, e forse proibita, di lei nuda alcune settimane prima, a Castiglioncello. Una fiamma gli salì su per il corpo. Prima che riuscisse a raccapezzarsi, di nascosto, sotto le coperte, si trovò “in paradiso”.
Phyllis si alzò: “Grazie caro,” mormorò, “perdonami del disturbo, dormi bene.” Poi scalza, silenziosa, sparì nel nulla.