13. Baci e morsi a Monteriòlo
“Bimbo, mi prendi la palla che è caduta in mare?”
La richiesta veniva dalla spiaggia. Clé, che si trovava in acqua, afferrò la palla rossa e verde e la gettò alla ragazzina sconosciuta, leggermente contrariato, sia dall’improvviso tono confidenziale, sia (soprattutto) per essere stato chiamato “bimbo”. Ma chi si credeva di essere quella sorta di Pinocchietto, tutta spigoli e movimenti a scatto?
Clé, tredici anni, era ormai sicuro d’aver diritto almeno alla qualifica di ragazzo, se non di giovane o addirittura di giovanotto. Non gli era forse capitato, mentre sbiciclettava con Rolando per le campagne fiorentine, di fermarsi dinanzi a una casa colonica per chiedere dell’acqua da bere, e di sentire una ragazzina che gridava: “Mamma, e c’enno du’ giovinotti e’ vorrebbino dell’acqua.” Dunque se era “giovinotto” per una contadinella, perché non lo era per questa smorfiosa?
Adesso Clé si trovava di nuovo a Castiglioncello, ospite per due settimane dei nonni. Ma ormai era settembre e i compagni d’una volta, i fauni delle scogliere, non c’erano più; Rolando chissà dove si trovava; Phyllis era convolata a nozze con un diplomatico inglese, e Gentile era rimasto a casa. Clé si sentiva abbandonato e solo: date le circostanze, guardò meglio la ragazzina del pallone; dopotutto non era poi tanto Pinocchietto! Alta, magrissima, con i capelli lisci e neri, tagliati a caschetto, aveva due occhioni scuri, con le iridi color carbone, e non sapevi dire se fossero semplicemente d’eccezionale grandezza, oppure d’eccezionale bellezza. Poi, per quanto acerba in tutto il torso, rivestito d’un costume blu scuro attillatissimo, e priva d’una pur minima aurora di seno, era per così dire matura di cosce (come avviene spesso per le Lolite), due pezzi d’arto polposi, muscolosi, sportivi, insomma decisamente simpatici.
“Come ti chiami, bimba?” chiese quasi per vendetta Clé.
“Bimbo, ne vuoi sapere troppe stamattina!” rispose con aria piccata la ragazzina, che però poi si decise a parlare. “Veramente mi chiamo Margherita, ma solo il babbo insiste a usare un nome così faticoso e lungo... Avevo una governante inglese, e lei mi chiamava Daisy. Ormai sono Daisy per tutti, capisci?”
“E Daisy sarai anche per me, va bene? Del resto siamo colleghi in nomacci... Pensa, io mi chiamo Anacleto, per via del nonno... Poi naturalmente divenni Cleto, e addirittura Clé.”
“Allora Clé, prendi la palla, to’! Giochiamo, vuoi? Quest’anno Castiglioncello è un vero mortorio, è insopportabile, non ti pare?”
Daisy abitava nel medesimo albergo, il Miramare, dove stavano i nonni. Ora, ripensandoci, Clé aveva già visto la ragazzina, nella sala da pranzo, qualche tavolo più in là, mentre prendeva i pasti con la madre e con una governante. La mamma di Daisy stava anzi stringendo amicizia con i nonni, o almeno Clé la vedeva spesso conversare a lungo con loro, seduta anche lei sotto i lecci che ombreggiavano il terrazzo dell’albergo.
“Hai anche la governante, eh?” osservò criticamente Clé alla sua nuova amichetta. “Di noi due sei tu la “bimba”, mi pare!”
“Uff, uggioso! E va bene, ho la governante sì, ma Mademoiselle Dulac mi fa solo lezioni la mattina, due ore, e qualche volta, ma solo con il tempo cattivo, nel pomeriggio. Per il resto, come vedi, sono liberissima. Faccio esattamente quello che mi pare! Sì, signor bimbo.”
Mademoiselle Dulac era una sorridente e benevola biondona cinquantenne, ormai arenata nella sua gioviale bruttezza, tutta concentrata nelle delizie del mangiare, quindi costituzionalmente inadatta a star dietro, fosse pure da lontano, a una piccola capricciosa, testona e instancabile come Daisy. La madre della bimba, la signora Marina, era molto diversa. Era una donna forse quarantenne (ma i ragazzi calibrano male le età degli adulti), piccola, magra, ben proporzionata, nera di capelli, ordinatissima, truccatissima, ingioiellatissima, sempre vestita a colori o disegni allarmanti, a strisce, zebrature, patacche di tinte violente; in più aveva due occhi a spillo che spaventavano Clé, sembrava che lo svestissero, lo perforassero, denudandolo di quella certa sua cappa segreta, nella quale spesso e istintivamente si rifugiava, quando il mondo esterno diveniva ostile. I nonni dicevano: “Eh, la signora Marina è una fine psicologa!” Cosa significava? Per Clé erano ancora termini difficili. Era forse una maga?
Intanto Clé aveva appurato che la bimba aveva circa due anni meno di lui. Superati i malintesi iniziali, i due ragazzini andavano scoprendo di stare benissimo insieme. Anzi, non si lasciavano che per le ore di francese la mattina, per i pasti, e nel pomeriggio tardi, se il tempo era brutto, evento raro lungo le coste tirrene d’estate, anche nel mese di settembre. Il nonno aveva a disposizione permanente una barca a remi di cui ovviamente, con la sua gamba rigida, non faceva mai uso. Clé se ne era subito appropriato e scorrazzava dalla mattina alla sera per la baia e lungo le scogliere. Naturalmente ben presto invitò anche Daisy ad accompagnarlo. I due ragazzini si divertivano, con poco successo è vero, a pescare, muniti di lenze, di ami, e di paguri raccolti lungo gli scogli. Una volta che erano fuori, Clé chiese a Daisy: “Chi è il tuo amico preferito da queste parti?” E Daisy, dopo ripetuti mutismi, sorrisi e curiosi rossori, rispose: “Ha un nome di tre sillabe.” Clé cominciò subito a fantasticare: che fosse Re-na-to, il ragazzino figlio d’una coppia torinese, ospite dell’albergo? “No, no!” “E allora, magari sarà Al-ber-to, quello dello stabilimento dei bagni... Ma possibile tu abbia certi gusti? E poi avrà diciott’anni!” “No, no! Non indovini?” Finalmente venne fuori che per tre sillabe Daisy intendeva tre lettere; e che il trigramma andava letto Clé.
Sicuro della sua posizione d’eminenza su ogni possibile rivale, Clé si sentì beato, leggero come un petalo o una farfalla abbandonati sul vento nell’azzurro. Che colori splendidi la baia! Che meraviglia i fondali, con le rocce strane coperte d’alghe multicolori che si perdevano in un verde maestoso! Che simpatici tutti, i nonni, la signora Marina, il bagnino Dèlago, i suoi figli scorbutici! Che delizia la cotoletta impanata dell’una, generalmente ritenuta insipida e noiosa! Insomma la vita andava tutta riveduta, rivalutata, tradotta in inni di gioia. Se Clé avesse conosciuto allora la Nona Sinfonia, certamente avrebbe canticchiato il glorioso motivo del peana di Schiller.
Quella sera per caso, Clé s’incontrò con Daisy nel corridoio lungo e deserto del piano d’albergo dove lei e i nonni avevano le stanze. Daisy e Clé s’affacciarono in silenzio a osservare il mare incendiato dai colori del tramonto, poi senza dir nulla si guardarono in faccia, e un lungo bacio, innocentissimo, ma pregno di sentimenti nuovi, strani, iridescenti, saldò le loro labbra. Purtroppo si sentirono dei passi dietro l’angolo, e i ragazzini dovettero scappare in direzioni opposte. Clé non connetteva minimamente questa nuova gioia con la visione di Phyllis nuda, avuta proprio lì nel medesimo albergo, un paio d’anni prima, né con i brividi intensi di “paradiso” scoperti in quegli attimi di fuoco, si trattava di tutt’altro continente dell’esperienza. Era un paesaggio di tenerezze, di dolce intimità, di confidenza segreta, mai sfiorato fino ad allora. Che fossero i primi brividi, i primi sospiri, di quella cosa tanto decantata da tutti, l’amore? Visto dal di fuori, per esempio a scuola, leggendo Dante o Manzoni, l’amore faceva, diciamolo francamente, un po’ ridere, cadeva presto nel faceto. Era il caso di scoprirlo adesso dal di dentro? Di vederlo come terremoto del cuore, non più come enigma degli altri?
Daisy, in pochi giorni, aveva perso molto del suo fare un po’ sciocco di piccola imperatrice, ed era divenuta dolce, mansueta, piena di premure e d’attenzioni per Clé; un’autentica e quasi incredibile trasformazione. Intanto parlava per ore, sia del babbo, il dottor Paolo Levi-Ragusa, che lei idolatrava, sia della tenuta di Monteriòlo, “sperduta laggiù nelle Maremme”, dove “si va in giro quasi esclusivamente a cavallo”. Sembrava che laggiù si vivesse come nelle pampas dell’Argentina, o qualcosa di molto simile.
“Sai, ho il mio cavallo personale!” raccontava Daisy. “E anche la mia sella, una cosa importantissima, non immagini neppure! È stato un regalo del babbo per Natale, l’anno scorso... il mio cavallo si chiama Crock. Tu lo vedessi! È così nero che si direbbe quasi viola. Poi è un colosso. Mi sembra di trasformarmi in Gattamelata, quando gli monto in groppa! Assurdo per una ragazzina come me, lo so... Ma laggiù tutto è assurdo, fenomenale, fantastico. Per questo piace a papà. E per questo piace anche a me. Alla mamma non so, infatti lei se ne sta quasi sempre a Milano. Il babbo resta invece tutto l’anno a Monteriòlo, dice che le città lo soffocano, gli fanno venire le smanie. Noi due siamo veramente felici solo in Maremma. Fino a pochi anni fa non c’era neppure la luce laggiù. Quando veniva il buio si accendevano le lampade ad acetilene... Non hai un’idea del fascino, mi piaceva moltissimo.”
Purtroppo si stava ormai avvicinando il giorno del ritorno di Clé a Firenze. Il ragazzo, all’idea di lasciare Castiglioncello, che ormai gli pareva il luogo più incantevole del mondo, di dire addio a Daisy e tornare alle cose uggiose, piatte, scolorite d’ogni giorno, si sentiva sprofondare il cuore in petto dalla disperazione. Poi, di colpo, il miracolo. La signora Marina venne fuori con una proposta stupenda.
“Caro il mio Clé,” disse con un affabile sorriso, “invece di tornartene a Firenze, perché non vieni con noi a Monteriòlo? Il papà passa domattina a prenderci in macchina... Ho già fatto cenno della cosa ai tuoi bravi e simpatici nonni, e loro sono d’accordissimo... Possiamo telefonare a casa tua a Firenze, per avvertire i tuoi genitori, che ne dici?” Clé (c’era da dubitarne?) fece salti di gioia, quasi quasi dava anche un abbraccio alla signora Marina, che in quel favoloso frangente gli parve meno inaccessibile e sibillina del solito. Naturalmente il ragazzo corse subito a cercare Daisy.
“Lo sai?”
“No, cosa?”
“Che vengo anch’io a Monteriòlo domattina con voi!”
“Fantastico, Clé!” esclamò Daisy afferrando il compagno tra le braccia e saltellando con lui sul terrazzo. “Un colpo della mamma, scommetto... Pensa che a me non ha detto nulla, quella vipera! Le piace spesso fare così, ‘epatare il borghese’, inventare piani ‘alla Mussolinette’, come dice Mademoiselle Dulac.”
Il giorno dopo sveglia alle cinque, con una sensazione d’ali ai piedi... di leggerezza, d’incipiente avventura! Alle sei c’era già il dottor Paolo Levi-Ragusa dinanzi alla porta dell’albergo, con la sua macchinona americana, color verdolino.
“Allora, saresti tu il famoso Clé di cui ho sentito tante cose simpatiche!” esclamò l’uomo con un accento vagamente settentrionale, tra lombardo e veneto, dandogli una sorta di rude carezza-scappellotto sulla nuca. “Sai andare a cavallo? No... Be’, imparerai prestissimo, vedrai. Hai l’aria di essere in gamba. Ti troveremo la bestia giusta, non sarà difficile.”
Clé, che era già predisposto favorevolmente dai tanti racconti fattigli da Daisy, restò subito incantato dal dottor Levi-Ragusa. In silenzio se lo definì un vero ortòmo, come Martino (prima del “vi s’ammazza tutti”, bene inteso). In realtà era un vigoroso quarantenne abbronzato, con i capelli scuri appena brizzolati alle tempie, la faccia scavata e scolpita dell’uomo d’azione che ama l’aria aperta, vestito con cura, ma anche con una certa simpatica trascuratezza campagnola. Una pipa consunta faceva continuamente il giro tra mani, bocca e tasca. “Ecco come vorrei essere da grande!” rimuginava Clé aiutando il portabagagli dell’albergo, una cameriera, Mademoiselle Dulac e Daisy a caricare valigie, borse, sacchi, fagotti vari sulla macchina. Finalmente arrivò anche la signora Marina e fu possibile partire.
Che emozione! Era un sogno, una fantasia tra le più improbabili che invece s’avverava, un miraggio sperduto nella notte che diveniva realtà. Clé, seduto accanto a Daisy, le stringeva di nascosto la mano e avvertiva di continuo i responsi di lei. Dopo Cècina aveva inizio l’autentico ignoto, la vera Maremma; ormai si stava penetrando nel mondo delle favole, delle leggende. Si vedevano sempre meno case, meno paesi, i campi coltivati erano più rari, e infinite distese di brughiera prendevano il loro posto; talvolta compariva una subitanea sventagliata di mare luccicante nel sole. La via Aurelia era allora in gran parte sterrata; traffico ce n’era pochissimo. Clé pensava alla gita verso Tivoli, di qualche anno prima, insieme allo zio Miscia. A pomeriggio avanzato, nei pressi di Grosseto, la macchina lasciò l’ultima strada decente, e imboccò una sorta di tratturo che richiedeva il passaggio a guado di successivi torrenti.
“Adesso è uno scherzo, caro Clé,” osservò il dottor Levi-Ragusa. “Ma sai che d’inverno ci sono giorni in cui l’acqua arriva al cofano della macchina, e qualche volta non si passa neppure... Allora non resta che arrendersi e tornare indietro.”
“Eccolo, Monteriòlo!” gridò Daisy, puntando la mano verso una distante collina, nel bel mezzo d’una pianura sconfinata e disabitata, tutta gialla di stoppie d’un grano raccolto al principio dell’estate. Tra il passaggio repentino degli alberi al lato della strada, si riusciva a indovinare in distanza un grosso edificio dalla sagoma possente, bassa e chiotta: a momenti si sarebbe detto un castello, a momenti una vecchia villaccia stracotta dal sole e dai secoli.
Poco dopo, guadato l’ultimo pigro corso d’acqua, la macchina affrontò una breve salita con due o tre curve, infine si fermò dinanzi alla fattoria di Monteriòlo. Clé vide un edificio grande, molto regolare e ben fatto, addirittura armonioso, tutto in mattoni bruniti dal solleone e dalle intemperie. Il corpo principale della casa si prolungava con due ali tozze, che abbracciavano simpaticamente una corte ghiaiosa d’arrivo per pedoni, veicoli e cavalli. La facciata mostrava al primo piano un ampio loggiato ad archi, abbellito da grossi vasi rettangolari con gerani rossi, rosa e bianchi. A pianterreno colpiva l’occhio un portale d’ingresso fiancheggiato da colonne di pietra, con qualche pretesa decorativa, da villa.
L’arrivo dei padroni era stato annunciato per telefono: inoltre lo si era semplicemente spiato, guardando dall’alto della fattoria alla distante, ma visibilissima, strada d’accesso. In piedi dinanzi alla porta stavano varie persone: la fattoressa Simona, una donna anziana con una bella faccia da vestale romana, vedova da pochi mesi, il dottor Paoletti, tecnico agrario e braccio destro del padrone, Frediano detto “il Bestemmia” (per ovvie ragioni), un omaccio di fatica sulla cinquantina, bruttissimo, rugoso, con le mani da scimpanzé, però ingentilito da un sorriso che lasciava indovinare spiragli di benevolenza, e infine Corrado, il buttero dei cavalli, che poteva avere due o tre anni più di Clé, pur essendo più piccolo di statura; calzava uose di cuoio bruno, indossava una camicia zebrata bianca e blu, in testa aveva un cappellaccio scuro, floscio e teneva in mano un frustino. Il padrone di casa presentò sommariamente Clé a tutti e Daisy aggiunse: “Dopo ti spiegheremo meglio chi è chi, intanto andiamo su a bere qualcosa, e a levarci la polvere dagli occhi, dalle ciglia e dal naso.”
Clé fu subito colpito dai sorrisi incoraggianti e accoglienti rivoltigli dalla fattoressa Simona, dal Paoletti e perfino dal Bestemmia, ma restò poco rassicurato dall’indifferenza, anzi dagli sguardi di decisa antipatia e ostilità rivoltigli da Corrado. Sembrava dicesse: “Ma chi è questo bellimbusto? Che ci viene a fare qui da noi?” Forse il buttero era geloso della padroncina... Che la madre, psicologa e maga, avesse intuito qualcosa, e invece di farne problema o tragedia, pensasse di scacciare il chiodone Corrado a mezzo del chiodino Clé? Lampi d’immaginazione perversa traversarono la testa di Clé per un attimo, ma il ragazzino era troppo perdutamente incantato dall’avventura Daisy-Monteriòlo per seguire con freddezza, e a fondo, simili complicati pensieri.
Per alcuni giorni tutto filò a meraviglia. Venne subito trovato un cavallo per Clé, anzi una cavalla bianca di nome Popina; purtroppo c’era il problema della sella (Daisy l’aveva detto, ma Clé non aveva messo bene a fuoco dentro di sé la questione). Ora Clé doveva scegliere tra una sorta di poltrona maremmana, sulla quale si potevano anche dormire sonni tranquilli, e un sellino inglese da corsa, bellissimo, ma piuttosto risicato per un principiante. Saggiamente Clé scelse l’arcione maremmano.
“Mai stato a cavallo? Ah, ah, si vede!” gridava Daisy alla prima loro uscita insieme, riprendendo per qualche momento i suoi modi da principessa delle pampas. Clé incassava zitto, anche perché Daisy era assolutamente adorabile, con i suoi gambali neri e lucidi, i suoi calzoni d’un grigio leggero, la sua camicetta bianca a mezze maniche e, in capo, un caschetto coloniale come usava allora nelle Maremme.
La tenuta di Monteriòlo si estendeva per oltre mille ettari in una pianura senza case né strade, con pochi alberi qua e là lungo i torrenti che scendevano dalle montagne d’intorno, spesso celate dalla foschia, e allora d’un colore vagamente ceruleo. La massima parte della valle era coltivata a cereali di varia natura, prevalentemente a grano, ma ora la terra dormiva sotto l’oro delle stoppie irte, simili a capelli ribelli appena tagliati. Clé si ricordò come da bambino, a furia d’andare scalzo, otteneva un tale durone calloso sotto i piedi da riuscire a correre senza scarpe né sandali su simili stoppie, atto di fiera bravura, specie se testimoni ne erano dei compagni di scuola: ora ne sarebbe stato ancora capace? Sicuramente no. D’altra parte stava imparando a tenersi in arcioni sul cavallo, esercizio di grande privilegio e soddisfazione. Per fortuna il ragazzo era forte, sano, ben predisposto fisicamente e di gusti per qualsiasi sport. Salvo nel passaggio dal galoppo al trotto, quando gli capitava di perdere il ritmo giusto e di trovarsi sballottato qua e là come un ridicolo sacco di patate, non incontrò grosse difficoltà. Il galoppo? Ma quello era inaspettatamente facile, oltre che inebriante! Certo, ogni tanto gli tornava a mente la frase gettata là quasi per caso dal Bestemmia mentre lasciava la stalla: “Cavallo al galoppo, sepoltura aperta.”
Daisy, la maledetta, si pavoneggiava nella sua maestria di cavallerizza, volteggiando di qua e di là sul suo Crock, gridando di tanto in tanto a Clé istruzioni sul comportamento corretto di chi voleva, non dico prepararsi per un concorso ippico, ma anche solo evitare la figura del babbeo piombato su di un cavallo per sbaglio. C’era poi il fatto che Crock era davvero una bestiona da tornei, e pareva riconoscibilmente felice quando Daisy gli urlava il comando: “Via Crock! Dài Crock!” lasciandogli le redini libere sul collo per il galoppo. In questi casi la misera Popina aveva l’aria di seguire il baldo compagno controvoglia, per puro dovere, o magari per rassegnazione. Con tutto ciò, Clé era incantato dalle nuove esperienze, e gustava con delizia piena e beata ogni attimo di quelle magiche ore. Via! E ancora via! Con certe galoppate sostenute Daisy e il compagno divoravano d’un colpo intere fette di pianura, raggiungendo le boscaglie verdi o i sughereti che la limitavano ai piedi dei monti di Sticciano o di Roccastrada. Ogni tanto i cavalli traversavano, con schizzi prodigiosi, e rumore di zoccoli tra i sassi, alcuni dei vari pigri corsi d’acqua della zona. Avveniva anche che Daisy e Clé scendessero da cavallo per far riposare un poco gli animali. Clé aveva imparato subito a saltare in groppa alla Popina, e a piroettare dalla sella al suolo: in questo era già diventato più bravo di Daisy, e se ne vantava.
“Andiamo a comprare due meloni dal Trinca, eh?” fece la ragazzina.
Una lunga trottata, seguendo il corso d’un fosso limitato da cespugli verdissimi, che contrastavano splendidamente con il giallo lucente dei campi, li portò a un rettangolo di terra recintata da siepi spinose, nel quale apparivano coltivati centinaia di meloni giallini, dalle coste rugose. Nume del luogo era “il Trinca”, così chiamato per la sua stretta amicizia con ogni sorta d’inebriante bevanda, un ometto ricurvo, di solito seminudo, d’età indefinita, con alcuni ciuffi di capelli bianchi ribelli sul capo color rame. Il Trinca abitava da solo in un capanno ai margini del campo. Si sarebbe detto un riuscito incrocio tra un uomo di Neandertal e un eremita della Tebaide.
“Allora, Trinca, come stai?” esclamò allegramente Daisy, svegliando lo gnomo dal suo sonno beato sulla branda cenciosa della capanna.
“Uh, signorina Desi, come sta? Quanto tempo che non la vediamo! O che s’è fatto il fidanzato? Complimenti! Ha trovato un bel pezzo di giovanotto...” (“Oh finalmente!” sospirò Clé in segreto. “Lo vedi che anche il Trinca mi classifica giusto!”) “Volete dei meloni, vero? Ora ve li scelgo subito, e i migliori. Quest’anno, con l’alido che c’è, sono saporitissimi.”
Il Trinca, senza attendere la risposta, si precipitò nel campo a scegliere i poponi, che poi vennero fissati in un sacco da passarsi a tracolla del giovanotto. Dopo di che, via al galoppo per la pianura, verso Monteriòlo.
Arrivati in fattoria, riconsegnati i cavalli a Corrado perché li riconducesse nella stalla, i ragazzi furono sorpresi dalla confusione che regnava in casa, e notarono subito delle facce lunghe, addolorate, lacrimose. “Ma cos’è successo?” chiedeva Daisy, seguita da un Clé muto e sorpreso.
“Eh, la povera Angelina!” ripeteva la Simona, asciugandosi le lacrime sui grembiule. “Pensa, è quasi incredibile, ma lei e il fidanzato, sì... Ruggero quel ragazzo tanto perbene, tranquillo, forse un po’ malinconico, quello di Sticciano, si sono suicidati.”
“No!” esclamò Daisy molto impressionata. “Ma non è possibile... E perché?”
“Vieni, venite fuori in terrazza,” ripeteva la Simona, “guardate lassù, vedete le case di Sticciano, sul colle? Là, vedete quella macchia bianca a destra delle case, dove comincia il bosco? È il lenzuolo che ricopre i due corpi... Ce l’ha detto Filippo il muratore, che è venuto dal paese un’ora fa a portarci la notizia. Oh, povera Angelina!”
Angelina era il nome di una giovane, che dava una mano in cucina e nella casa a Monteriòlo. Clé l’aveva appena vista di sfuggita arrivando... Una biondina graziosa, piccola, molto timida, che poi era sparita, recandosi probabilmente a Sticciano dal fidanzato.
“Ma perché, ma perché?” ripeteva Daisy rivolgendosi prima alla Simona, abbracciandola, poi alla mamma, anche lei confusa e in lacrime.
Nessuno riusciva a dare una risposta concreta. “Mah, non si capisce... neppure Filippo lo sapeva... Ha detto semplicemente che si sono tagliati le vene, e che stamattina presto li hanno trovati dissanguati. Non c’era più nulla da fare. Li hanno ricoperti con quel grande lenzuolo che vediamo anche da qui.”
Il dottor Levi-Ragusa aveva già dato ordine di preparare la macchina piccola della fattoria. “Andiamo a dire due parole di conforto ai genitori. Portiamo anche dei fiori... Forse sapremo qualcosa.” La famiglia Levi-Ragusa, con il Paoletti, e con Clé, partì quasi subito, e in capo a venti minuti fu a Sticciano alto, un giro di case vecchie, screpolate, forse venti-trenta fuochi in tutto (chi aveva mezzi si era ormai trasferito in basso, dove corre la ferrovia, a Sticciano Scalo). Alcuni ragazzini, che sembravano stare in attesa, guidarono i visitatori a una casa del paese, più o meno povera all’aspetto come le altre, e lì, in una cucina annerita dal fumo, trovarono una coppia anziana (l’Angelina pare fosse la più giovane dei loro figli) con gli occhi rossi e i capelli grigi in disordine, affranti dalla sciagura capitata loro addosso. Clé, quasi nascosto in un angolo, ascoltava il dialogo tra la signora Marina e il padre della fanciulla scomparsa.
“Ma cos’è successo, Barsanti? Come mai questa tragedia? Stavano bene insieme, no? Ed eravate tutti d’accordo, vero? Anche i genitori di Ruggero, mi sembra d’aver sentito...”
“Oh sì, signora,” rispose a stento l’uomo, un lavoratore agricolo dalla faccia e dal collo rugosissimi, mentre sul tavolo sovrapponeva con gesto di solidarietà la sua mano a quella della moglie. “Chi ci capisce qualcosa? È terribile proprio per questo. Guardi, signora, cosa ci hanno lasciato.” E l’uomo tirò fuori dal taschino della sua giacca grigioverde (ex militare, come usavano allora) un foglio di quaderno di scuola a righe, su cui stavano alcune frasi, buttate giù con calligrafia da prima elementare, ma vergate con calma, quasi con compiacimento.
Amatissimi genitori, perdonateci per la pazzia. Ma siamo troppo felici. Qualcosa ci dice che abbiamo scoperto un amore sublime. Più oltre non si va. In seguito tutto sarà discesa, disillusione. Un amore come il nostro può solo concludersi con la morte. Preferiamo andarcene insieme con questi sentimenti meravigliosi. Perdonateci! Oh, perdonateci! Saremo sempre con voi in spirito.
Angelina e Ruggero
Tutti restarono di sasso. Clé per conto suo non capiva, o intravedeva appena una vaga logica lontana, misteriosa, terribile e bellissima. Avrebbe voluto essere solo, riflettere, lasciare che dalla sedimentazione di questa notizia improvvisa e tremenda, si distillasse qualcosa. Daisy gli stava vicino, gli prese una mano, ma Clé la lasciò subito andare. Non sapeva neppure lui come, ma i sentimenti teneri, nuovi, incantevoli provati vicino alla bambina-fanciulla gli parevano, almeno in quell’attimo, frivoli, fatui, quasi indegni di quella storia eccezionale e smisurata d’amore di Angelina e Ruggero, che finiva per proporre in cielo (e nel cuore) un arcobaleno sacro e arcano.
I Levi-Ragusa e gli altri, Clé compreso, si recarono a deporre dei fiori sul grande lenzuolo bianco, quello che era così visibile da Monteriòlo, e che sarebbe rimasto impresso negli occhi del ragazzo per tutta la vita.
Ormai s’era fatto tardissimo, quasi le tre, e tutti avvertivano una voragine di vuoto in corpo. Il ritorno da Sticciano fu rapido e silenzioso; nessuno aveva voglia di parlare. I meloni del Trinca vennero serviti con il prosciutto locale, con il vino locale, con il pane locale... Clé ricordò quello che gli diceva Daisy, fin dai giorni di Castiglioncello: “Sai, Monteriòlo è simile a un’isola nell’oceano, c’è di tutto e per tutte le stagioni...” L’idea gli piacque, lo distrasse, lo riportò alla sua abituale superficialità, al suo abituale edonismo. I pasti venivano consumati in una saletta all’angolo del primo piano della fattoria, dal lato esterno che guardava a sud; dalla finestra si godeva una vista sconfinata sulla pianura. “Laggiù, oltre l’orizzonte,” spiegò Daisy, come riavendosi dall’ondata di sentimenti cupi e angosciosi ispirati a tutti dagli eventi di Sticciano, “sta il mare, che però non si vede... Troppo lontano! A sinistra c’è Grosseto, che forse si vedrebbe, se non ci fosse la collina di Montepescali di mezzo.”
Clé scoprì ben presto che il dottor Levi-Ragusa, al di là della saletta da pranzo, in una delle due ali del complesso edificio, s’era ricavato un ampio studio, o come lo definiva lui, un suo privato “pensatoio”. Le pareti erano rivestite da scaffali colmi di libri, non buttati là come avviene nelle case di chi legge poco, ma ordinati e divisi per argomenti, segno d’un amore non comune per la carta stampata. “Sai, l’inverno, quando c’è meno lavoro,” aveva detto a Clé la sera prima il dottore, “mi piace stare qui in santa pace a leggere. Cosa leggo? Be’, talvolta un bel giallo... Ma in genere i grandi di tutti i secoli. Non sai quante cose meravigliose ci sono, Montaigne, i romanzi inglesi dell’Ottocento, i russi... Se ci pensi un momento, non basterebbe una vita, da quanti tesori si sono accumulati nei secoli.” Poi Clé notò in un angolo un imponente grammofono, assai simile a quello di zio Miscia a Roma, e uno scaffale di dischi.
Clè s’immaginò subito quanto dovesse essere raffinato il piacere di stare lì sul seggiolone a semisdraio, disposto dinanzi alla finestra, ascoltando le musiche del cuore, e dando ogni tanto uno sguardo al cielo sulla pianura sconfinata, e ai suoi giochi di nuvole... Più che mai Clé si sentiva attratto dal personaggio Paolo. Prontissimo com’era a idealizzare gli adulti con i quali veniva a contatto, eccogli un nuovo splendido modello: il coltissimo nel suo pensatoio silenzioso, con musica, libri, finestra e natura! Il guaio era che gli entusiasmi di Clé per cose, luoghi, idee, modelli di vita, persone, s’accendevano come pagliai al sole, ma poi bruciavano in poche ore lasciando in mano un nulla di cenere. Inoltre da eminente piccolo esteta non rifletteva per nulla sul fatto che una tenuta come quella di Monteriòlo, con la sua pingue fattoria, valeva di sicuro somme strepitose di danaro. Qualcuno doveva aver sudato a lungo per mettere insieme tanta fortuna. Eredità? Va bene, significava semplicemente arretrare lo sforzo di una, due, dieci generazioni, ma un balzo economico in avanti, qualcuno, a un certo momento, doveva pure averlo compiuto. Fu solo molto più tardi che Clé cominciò a riflettere su questi e simili importantissimi tasselli del mosaico vita. Allora, scioccamente, viveva come fosse del tutto naturale “possedere una tenuta”, “vivere in una villa”, “occupare un comodo appartamento in città”.
Il giorno dopo, la mattina al caffellatte, la fattoressa annunciò che il camioncino di Monteriòlo stava recandosi a Grosseto. Daisy, afferrando Clé per mano, esclamò subito: “Uh, andiamo anche noi! Che ne dici? Così vediamo un po’ di mondo e io faccio qualche compera urgente... Per la lezione di francese ci concentreremo di più domani, vero Mademoiselle?” La governante brontolò qualcosa, ma sapeva già per lunga esperienza che era proprio inutile contrastare i piani di Daisy: andavano accettati e basta.
Prima di partire, Clé, senza dire nulla a Daisy o agli altri di casa, si affacciò per un istante sul terrazzo, guardando lontano. “Ah, meno male” pensò di sfuggita, in uno strano gioco d’alibi con se stesso, “il lenzuolo bianco non c’è più vicino alle case di Sticciano. Li hanno portati via.”
Il camioncino era carico di balle d’ogni genere, colme di semi, di radici, di erbe secche o di concimi, chissà, alcune dure, alcune piacevolmente soffici al tatto. Daisy, senza il solito costume di cavallerizza, in calzoncini corti e maglietta, saltò sul veicolo facendosi posto tra gli strani sacchi e involti che ne formavano il carico. Alla guida stava il Paoletti, un silenzioso individuo sulla trentina, con un cranio a cupoletta quasi privo di capelli, salvo qualche ciuffo rossastro sulla nuca.
Dall’accento sembrava veneto, ma parlava poco, mostrando un’indifferenza sovrana per quanto avveniva intorno a lui. Accanto gli si pose a sedere un operaio sconosciuto, piuttosto anziano, vestito da lavoro. “Signorina Daisy, venga in cabina, là fuori sta scomoda!” ripeté più volte l’operaio. Ma Daisy amava i viaggi avventurosi all’aperto, e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea. Quando il camioncino partì, i due ragazzi si erano ricavati una nicchia comodissima tra i vari involti, coprendosi poi con un ruvido telone verde.
“Ah, ah,” rideva Daisy, “siamo in prima classe, che ne dici?”
Ben presto le chiome dei pini che fiancheggiavano la strada per Grosseto cominciarono a fuggire all’indietro sopra le teste dei ragazzi, perdendosi in un paesaggio rovesciato, che metteva un leggero e dolce capogiro addosso. Alle curve, prese spavaldamente dal Paoletti, una volta era Daisy che finiva tra grandi risate addosso a Clé, e una volta avveniva l’opposto: di tanto in tanto, tirandosi il telone sopra le teste, i ragazzini si scambiavano un bacetto furtivo. Ma l’autentica vertigine erano i contatti tra le quattro gambe nude, nascoste sotto il grezzo telone, che sembravano aver intrapreso un discorso amoroso tutto loro. Né Clé né Daisy avevano alcuna esperienza in questo risicato frullio di nuove sensazioni, che andavano comunque catalogate tra le cose più belle e più deliziosamente emozionanti del mondo. Grosseto venne raggiunta in un tempo che a loro parve troppo breve.
In un cortile il carro si fermò per scaricare e ricaricare della merce. Il Paoletti, divenuto inaspettatamente loquace e scherzoso, offrì ai ragazzi un caffè e delle briosce. Daisy fece le sue piccole compere in cartoleria. Poi il camioncino ripartì per Monteriòlo. Questa volta purtroppo i pacchi erano troppo spigolosi, si trattava infatti di pezzi di macchinari imballati in gabbie di legno. Impossibile rifarsi la dolce cuccia dell’andata. Non restò che salire in cabina, tanto più che l’operaio era rimasto a Grosseto, e il Paoletti era solo alla guida.
La gita a Grosseto fu per Clé il momento culminante della saga di Monteriòlo. Il ragazzo navigava di beatitudine in beatitudine, ogni momento gli sembrava illuminato da una felicità leggera e mussante, impossibile a definirsi nei particolari, ma immensamente godibile nell’insieme. Quasi quasi – quando ci ripensava – gli pareva di capire davvero la fuga dalla vita dei fidanzatini di Sticciano. Se Daisy gli avesse proposto: “Facciamo qui punto e basta. Tagliamoci anche noi le vene!” cosa avrebbe risposto? Ma Clé sapeva benissimo che Daisy non pensava neppure da lontano a simili macabre follie. Lei era tutta per la vita, e per una vita che ruotasse intorno al personaggio Daisy. Come infatti Clé poté constatare il giorno dopo. Se la gita a Grosseto era stata “il momento delle delizie e dei sogni”, l’indomani doveva essere invece ricordato come “la data del tonfo”.
Sì, fu proprio come Icaro: vola, vola, avvicinati al sole, vedi il mondo dall’alto, poi un’attaccatura delle ali in qualche modo cede, e l’avventura stupenda finisce in una caduta tremenda. Clé si era preparato al mattino per andare chissà dove a cavallo, invece dopo il caffellatte, contrordine: “Oggi siamo in soffitta a medicare il grano,” annunciò Daisy con fare distante, addirittura sibillino. A Daisy piacevano le galoppate, eccome, ma teneva anche molto a collaborare (nel suo modo capriccioso) ai lavori di fattoria. In questo campo nessuno poteva capirla meglio di Clé, con i suoi ricordi delle antiche esperienze sull’aia e nelle stalle di Martino e della Gemma. Dunque va bene, andiamo “a medicare il grano”.
Terminata la colazione, i due ragazzi salirono su nelle vaste soffitte della fattoria, dove in appositi recessi di cemento compatto e liscio si conservavano delle vere e proprie montagne di grano, d’un bel colore rosso tigre. Si trattava di cospargerle con cura di medicinali per proteggerle dai parassiti. L’operazione fu lunga, perché i mucchi di grano erano tanti. Per un po’ venne su anche il tecnico Paoletti, ma poi se ne andò. Rimasti soli, Clé notò subito in Daisy una strana freddezza. Cos’era successo? Chi ci capiva qualcosa! Che Corrado si fosse lasciato sfuggire qualche osservazione ironica, o fuori posto, simile a quella del Trinca? Fatto sta che quando, prima di lasciare la soffitta, Clé fece per dare un innocentissimo bacio d’affetto alla compagna, lei lo respinse in modo quasi brutale, esclamando: “Uffa, ma quanto sei appiccicoso!”
Naturalmente Clé non volle insistere. Anzi scese le scale di corsa, da solo, e poi sparì fuori, con la morte nel cuore, andando a vagare senza meta tra gli ulivi che circondavano la fattoria. Allora era vero: il butteraccio insolente aveva ripreso il suo posto di guardiano della “regina di Monteriòlo”? Non voleva che la signorina Daisy avesse un amico, un adoratore di qualsiasi genere. Corrado, forse, non si proponeva come alternativa, però, simile a certi ottimi cani, esigeva un proprio spazio interamente libero di fedeltà. Daisy, in ogni modo, non poteva essere un pochino più gentile e considerata? Quell’“appiccicoso” era terribile, umiliante, peggio del “bimbo” di poche settimane prima. Il ragazzo si sentiva schiacciato, demolito, polverizzato.
Il giorno seguente, che doveva essere l’ultimo a Monteriòlo, Clé si trovò su un carretto privo di molle, guidato da Daisy e trainato da un cavalluccio mai visto prima. “Andiamo al sughereto,” spiegò con aria un po’ distratta la ragazzina, “vuoi venire? Dobbiamo portare degli arnesi e delle corde ai due boscaioli che lavorano laggiù.” Clé, non sapendo cos’altro fare, assenti. Ma Monteriòlo, la sconfinata pianura d’oro contenuta nella conca ormai familiare di monti violacei, il cielo settembrino cosparso di leggere candide nubi, ogni cosa aveva perso la magia dei giorni prima. Quasi quasi, l’idea di andarsene l’indomani, di tornare a Firenze, gli pareva gradita e benvenuta.
Il carretto era appena partito, quando s’intese il rumore di qualcuno che correva con molto fracasso (scarponi e gambali), lungo la strada in discesa, per raggiungere il veicolo. Era Corrado, che saltò pesantemente sul biroccino: “Bisogna che venga anch’io,” disse affannosamente, “devo portare le forbici a quelli del bosco”, e mostrò un grosso arnese da potatori infilato tra cintura e calzoni.
Inutile dire che il viaggio al sughereto sul carretto duro e ballonzolante fu tragicomico, anzi più tragico che comico. Per un bel pezzo gravò sui ragazzi un tetro silenzio, poi Corrado cominciò a fare delle domande ironiche su Clé: “Ma ci voleva proprio un fiorentino in Maremma?” E Clé rispondeva per le rime: “Ci voleva proprio un buttero sulla carretta per le sughere?” e così via. Corradò, ahimè, le sapeva proprio tutte. Eccolo venir fuori con l’odioso: “Uh, fiorentin mangiafagioli, lecca piatti e tovaglioli!” In risposta Clé doveva rapidamente inventare dei detti immaginari che ponessero in risalto l’ignoranza, e magari i cattivi odori, dei maremmani. E Daisy? Rideva, rideva, in un modo infantilmente beato. Pareva fosse contenta di trovarsi a fare la regina d’un torneo, non di corazze e di lance, ma di frizzi e di ciance.
Rientrati a Monteriòlo, scesi dal carretto nello spiazzo tra fattoria e stalle, i due ragazzi, non si sa come, vennero furiosamente alle mani. Clé era molto più alto e forte di Corrado e avrebbe potuto facilmente stenderlo a terra; se non ché il buttero, inferocito, addentò l’odiato fiorentino, scamiciato per il caldo, proprio nel mezzo dello stomaco. Clé aveva un bel picchiare con ambedue i pugni sul capo del ragazzo, quasi tenesse sul ventre una zucca, l’altro restò attaccato come uno scorpione per dei minuti interi, lasciando infine nella pelle dell’avversario la firma sanguinolenta dei suoi denti. Daisy era corsa in casa a chiedere aiuto. Ecco arrivare il Bestemmia: “Dio finocchio, ma che c’è stato?” E con due ceffate separò i contendenti, spedendo Corrado alle stalle, e Clé di sopra in fattoria.
La scenata si era svolta in modo troppo aperto e pubblico per potersi ignorare. Meno male che il dottor Levi-Ragusa scelse di risolverla bonariamente in ridere. La sera, al momento della cena, la signora Marina si scusò dicendo di sentirsi poco bene e di voler mangiare in camera. Daisy, con un musino patetico e lungo lungo (sgridata del babbo?), guardava zitta nella minestra; l’unica allegra era Mademoiselle Dulac, che non aveva capito nulla, e che stava parlando animatamente in italiano approssimativo con il signor Gino, marito dell’Ersilia di casa Raimondi, venuto apposta da Firenze a Monteriòlo per riaccompagnare Clé a casa la mattina dopo. L’adorabile dottor Levi-Ragusa, che invece aveva capito tutto, cercava di riportare i ragazzi al brio solito, raccontando loro dei ricordi di caccia in Sardegna, in Jugoslavia e in Grecia, con vari e grotteschi aneddoti.
Terminata la cena, Mademoiselle Dulac, Daisy e il signor Gino, sparirono tutti nelle loro stanze. Clé rimase solo con il padrone di casa, che invitò il ragazzo nel suo “pensatoio”, trattandolo nella maniera più affabile, quasi saltando a piè pari la formidabile differenza d’età. Lo fece sedere, e tirò fuori da un armadietto una bottiglia di whisky, nel cui cristallo il distillato brillava con un rincuorante color rossoarancione. “Prendine un sorso, Clé, certe volte fa bene!” Il ragazzo si vide anche offrire un sigaro corto e dolce. Gli dava vivo piacere sentirsi coccolato e trattato come un grande, addirittura come un ospite di riguardo. Era in qualche modo un compenso per le tante umiliazioni degli ultimi giorni.
“Eh, caro mio,” diceva il dottore con una certa ironica allegria, tra una nuvola di fumo e l’altra della pipa, “il continente donna, chi ci capisce qualcosa è bravo! Ti trovi su una cima luminosa, al sole, e improvvisamente ecco la nebbia, il vento, i fulmini. L’importante è non angosciarsi, e non arrendersi! E poi, se possibile, prepararsi un rifugio nel quale potersi ritirare... Un po’ come facevano i signori feudali resistendo agli assedi nei masti dei loro castelli. Tanti cercano consolazione nelle chiese, nei santuari, in riti, liturgie, incensi. Nulla da obiettare. Ma io preferisco il mio studiolo, in compagnia dei grandi maestri. Non cerco in loro né salvezze, né illuminazioni, ma distillazioni più squisite del solito del nostro vivere umano. Forse, quando sarai un po’ più grande, mi capirai.”
Clé apprezzava con gratitudine (e un po’ di confusione) le confidenze concessegli dal dottore. Pensò, non sapeva perché, a zio Miscia; ma quello, pur essendo simpaticissimo e più alla mano, non aveva l’autentica serenità interiore che s’intuiva nel padre di Daisy. Con tutto ciò, Clé indovinava anche, nell’uomo che gli stava di fronte, una certa fiera solitudine, una vaga tristezza. Forse la spiegazione andava cercata nelle parole di Daisy: “Il babbo abita tutto l’anno a Monteriòlo... Lui odia la città, dice che lo soffoca...” E di conseguenza prendevano particolare risalto le differenze tra lui e la signora Marina, che invece abitava per gran parte dell’anno a Milano, con la figlia viziatella e la governante.
A un certo momento Clé si sentì girare la testa in modo preoccupante; prese congedo allora dal padrone di casa, ritirandosi nella sua cameretta e tuffandosi a letto per dormire.
Al levar del sole del giorno dopo, il signor Gino, o meglio Gino, e Clé lasciarono la fattoria in macchina per recarsi alla stazioncina di Sticciano Scalo, e per prendere il treno diretto a Siena, e poi a Firenze.
Gino, marito dell’Ersilia, cuoca e diciamo fattoressa della Villa Raimondi, era un uomo alto e magro, d’una trentina d’anni, molto compito (raramente lo si vedeva senza cravatta); parlava volentieri di sarti e di completi di questa o di quella stoffa, di belle scarpe, d’accendini di lusso. Di giorno lavorava alle Poste, ma la sera teneva la corrispondenza e i conti del dottor Roberto Raimondi. Gino ed Ersilia non avevano figli.
Da vari indizi risultava a Clé che Gino avesse, oltre alla sua brava vita tutta Poste e casa, un’altra esistenza più avventurosa e brillante. Il ragazzo ricordava per esempio come, una volta, vagando in bicicletta con Rolando per certe stradine campestri lungo l’Arno a monte di Firenze, aveva incontrato Gino fermo in macchina con una giovane e appariscente mora dagli occhi di fuoco. Al saluto festoso dei ragazzi, Gino aveva risposto, senza aprire né sportello né vetri, ponendosi l’indice dinanzi alla bocca, con l’aria di dire: “Zitti eh! Non dite nulla a nessuno di quest’incontro!” Rolando, che era più navigato di Clé nei fatti e fatterelli della vita, per la semplice circostanza che sua madre teneva una pensione con viavai di italiani e forestieri, rise ed esclamò: “Meno male che l’Ersilia ha tanti bei capelli... le corna le resteranno nascoste!”
Alla stazioncina di Sticciano Scalo, dove un paio di viaggiatori facevano già folla, Gino e Clé salirono sul treno per Siena, composto da una locomotiva, ancora a vapore, da due vagoni merci, più una carrozza passeggeri. Gli scompartimenti erano vuoti. I due si sedettero con comodo, pregustando una sonnolenta passeggiata attraverso le campagne toscane. Tanto per avviare una conversazione, Clé chiese a Gino se avesse dormito bene.
“Dormire? Ma vuoi scherzare, Clé! Non hai un’idea, ma quella Mademoiselle della tua ragazzina, si direbbe un rudere se le guardi solo la faccia, e se la vedi vestita, ma nuda è un portento, uno schianto di donna! E poi sa farti certi baci alla francese che ti stendono a terra... altro che dormire! È stata una notte di giostre e tornei! Ora sì che mi faccio un pisolone fino a Siena. Ciao Clé, dormi anche tu, sono appena le sette di mattina.”
Tra le lentezze del treno, e una coincidenza sbagliata a Siena, Gino e Clé finirono per arrivare a casa dopo cena. Clé passò a salutare la mamma, e la trovò che leggeva. Avrebbe voluto raccontarle qualcosa delle tante esperienze vissute nelle due settimane d’assenza, ma tra il fatto che le vicissitudini stesse, piuttosto fuori dell’ordinario, andavano almeno in parte digerite, e la semplice circostanza che Iris quando leggeva si concentrava nel suo mondo, e non era facile da riportare a terra, il ragazzo preferì filare diritto in camera sua.
Clé vide i suoi libri e i quaderni di scuola, tutte le piccole cose che formavano il suo mondo di ragazzino ginnasiale, avrebbe voluto riprendere i fili della vita di sempre, ma gli sembrarono stranamente lontani, lontanissimi. Era stato in giro poco più di due settimane, ma quante cose erano cambiate (maturate?) dentro di lui! Tutto aveva a che fare con uno straordinario concetto, l’amore, che prima lo colpiva come riferibile a una curiosa malattia degli adulti – per esempio quando parlavano a scuola di Dante e Beatrice, di Petrarca e Laura, o di Renzo e Lucia – ma che ora aveva improvvisamente preso vastità di continente, con i suoi monti, mari e isole, i suoi vulcani, le sue foreste, gli smisurati abissi. Si pose allora una domanda, che l’avrebbe poi seguito quasi ossessivamente per tutta la vita: come mai un fenomeno umano così gigantesco e di tale importanza, così singolare, con ramificazioni di tanta complessità, fosse poi così misero di nomenclatura? Si dice che gli eschimesi abbiano almeno cinquanta termini per indicare la neve in tutte le sue varietà e consistenze, e che gli arabi posseggano un intero vocabolario relativo al cammello, ma noi pretendiamo con il solo vago termine a ombrello “amore” di coprire tutto. Amore erano certo stati i momenti felici, magici, inebrianti con Daisy, e il termine poteva anche includere, in senso paradossale, i capitomboli con i quali era terminata la brevissima vicenda. Ma com’era possibile ascrivere sotto l’insegna dell’amore il dramma crudele dei due fidanzati che bramano di morire insieme, presi da una felicità tanto possente da potersi soltanto sposare con l’annientamento? E nel comune parlare, non era amore anche la notte brava di Gino con la Mademoiselle, bruttissima vestita, ma (così almeno pareva) uno schianto da “ignuda”? E i famosi “baci alla francese” cos’erano? Rientravano nell’amore anche quelli? Clé si riprometteva di chiederlo a Rolando appena fosse stato possibile rintracciarlo: “Quello, forse, in queste cose ci capisce più di me!”
Intanto il morso di Corrado sullo stomaco (anche quello amore rovesciato, capovolto? O amodio?) gli faceva ancora male.