1. La vergogna della zappa
Da noi, quando si parla di quegli anni sghembi della vita umana che vanno dai tredici ai diciannove, s’impiega una terminologia dotta e grave d’origine classica: “adolescenza” è la fase, “adolescenti” sono i personaggi. Nei Paesi a lingue anglosassoni, con minor precisione e maggior spirito d’allegria, si parla di teenagers, di coloro cioè che stanno vivendo gli anni i cui numeri terminano in “-teen” (thirteen, fourteen, e su su fino a nineteen). Con ardito zompo fonetico-semantico, non potremmo chiamare questi ragazzi “tinegisti”? Per divertirci facciamolo!
* * *
Che cosa prova un bruco quando diventa crisalide e poi farfalla? Le vie magiche della scienza sono tante che forse un giorno sarà possibile registrare tali mutazioni biologiche come vengono sentite dall’essere vivente che le subisce. Sarà allora la notazione di uno sforzo penoso, oppure di una gioia creativa? Certo, nell’essere umano, il passaggio dalla fanciullezza all’età tinegista, che può registrarsi come rapidissimo, quasi un misterioso colpo di scena nel quale si resta coinvolti senza preavviso, rappresenta una delle più fiere dogane della vita. Non per nulla nella maggioranza delle società tradizionali questo momento era (ed è talvolta ancora) celebrato con importanti rites de passage. Il trapasso dall’età matura alla vecchiaia è lento, sfumato, appena percettibile negli anni, ma il fauno scherzoso ed estroverso di ieri si ritrova, pressoché di colpo, efebo, sproporzionato e scomodo, travagliato da pensieri difficili a esprimersi, pronto a rossori, insicuro di se stesso, affittuario d’identità effimere e svolazzanti. Le trasformazioni fisiche e fisiologiche, il balzo in statura, l’abbassamento della voce nei maschi, nelle femmine le prime fasi lunari, in ambedue gli sviluppi vistosi che aprono l’accesso a potenziali paternità e maternità possono occupare nel loro insieme lo spazio di parecchi mesi, di un anno e più, ma il muro interiore, il ponte tra fanciullezza e mondo tinegista sembra quasi traversarlo in un attimo. O almeno a Clé parve così.
Due settori, nel totale dell’esperienza di quei tempi, colpirono il ragazzo in modo particolare; uno (era logico e del tutto naturale) riguardava la sfera del sesso, l’altro coinvolgeva il mondo della cultura. Il fortunato tinegista Clé ignorava del tutto le immediate preoccupazioni del danaro, del lavoro, o peggio del sostentamento giornaliero, angoscia di base per molti, forse per i più tra i suoi coetanei.
Un paio d’anni prima sulle scogliere di Castiglioncello, tra vampe di sole e sferzate di vento salmastro, tra spruzzi d’acqua marina, tra fragori d’onde in lotta perenne con le muraglie di rupi selvagge lungo la costa, Clé era passato dal candido nulla dell’infanzia, al mezzo sapere d’una fanciullezza più matura. Aveva allora, o pochissimo dopo, scoperto i paradisi, certi attimi d’intenso, elettrico, penetrante piacere pubico. Ma si trattava d’un sesso diversissimo da quello cosciente e autentico degli adulti. Era un gioco festoso, comune a tutti nel gruppetto dei fauni, un gioco che ignorava premeditazioni prima e pentimenti poi, che esplodeva dal nulla, fioriva per un momento nei suoi paradisi abbacinanti e spariva subito nella successione di nuovi giochi. Per fortuna nessun grande, o giovane adulto, s’introdusse nei solluccheri dei piccoli fauni; un estraneo avrebbe potuto colorire il tutto di malizie che non c’erano, oppure portarvi proibizioni, sensi di colpa, condanne, falsando ogni cosa.
Il sesso faunesco, con improvvisi fuochi d’artificio, rifiorì nel modo più naturale e spontaneo tra Clé e Rolando nelle loro cacce con archi e frecce, da “indiani ignudi dell’Amazzonia”, tra i boschi di Montisoni o di Montepìlleri, nei dintorni di Firenze. Una delle imprese di maggior gloria della coppia matta d’amici consisteva nel riuscire a discendere un intero fianco boscoso di monte senza mettere i piedi in terra. Naturalmente occorrevano boschi d’alberi giovani o di media età. I ragazzi si arrampicavano su di un albero al sommo della costa, poi con il peso del corpo lo facevano piegare in giù e saltavano come scimmie a una seconda pianta, e poi da questa a una terza – e via giù giù fino ai piedi del monte. Concluse le acrobazie, trafelati, sudati, rossi di sole, con i capelli pieni di foglie e di ramoscelli, prendevano un momento di riposo sull’erba; avveniva allora spesso che gli indiani si tramutassero in fauni. Non s’immagini neppure alla lontana sodomie o finezze falliche da esperti, si trattava di vicendevoli masturbini scherzosi, di paradisi d’un attimo, poi via! Altri alberi da scalare, altri botri da saltare o guadare. Forse il vero segreto consisteva nell’ebbrezza di quelle erezioni tra muraglie di foglie, colonnati di tronchi scorzuti, immersi nel profumo di terriccio e di timo, una sorta di coito segreto con la natura, una partecipazione istintiva alla fertilità in festa dell’estate mediterranea. Un gioco sacro e benedetto? In altri tempi, in altri continenti forse sì. Non per nulla certe sagge mitologie contemplavano, tra gli esseri che popolavano campi e boschi, anche i fauni, i satiri, il gran dio Pan e i suoi consoci, spesso raffigurati in immagini itifalliche, tra danze al ritmo di flauti e di siringhe. Le erezioni non erano solo un fenomeno fisiologico locale, ma una sorta d’invasamento completo, un’estasi di tutto l’essere.
Molti anni più tardi Clé, vagando per il Tibet, visitando un tempio lamaista nelle cui pitture comparivano divinità danzanti, con furiose erezioni ingioiellate, chiese all’accolito che lo accompagnava la vera ragione di tali immagini conturbanti. La risposta fu lapidaria e chiarissima: “Così sono più potenti!”
Lo sviluppo inevitabile e il passaggio dallo stato di fanciulli, di ragazzini a quello di tinegisti, segnò anche il momento del distacco faunesco tra Clé e Rolando. L’amicizia restò fortissima, calda, autentica, anzi si rafforzò con la pratica costante della montagna, nonché dei canti in coro, ma i giochini frullerelli cessarono di colpo, del tutto e per sempre. Sorse anzi tra Rolando e Clé uno strano, ma ben definito, nervosismo riguardo a qualsiasi avvicinamento intimo, e non solo sul piano fisico. Le distanze diciamo “di rispetto” erano divenute tali che i due amici trovavano più facile parlare delle proprie relazioni (vere o immaginarie) con le ragazze, avvicinando degli estranei, per esempio, nel caso di Clé, Geraldo o Ulisse, anziché parlare direttamente tra di loro.
Gli anni tredici, quattordici e quindici furono, almeno per Clé, dal punto di vista del gran capitolo sesso, amore, erotismo e simili, tra i più grami, spinosi e angosciati dell’intera tinegeria.
Verso la metà di quell’uggioso percorso Clé, non avrebbe saputo dire come, aveva stretto una sorta di spuria amicizia con un certo Milto (nome o cognome, mah?), impiegato in una farmacia e aspirante corridore ciclista. I due facevano ogni tanto delle gite d’allenamento, durante le quali Clé cercava affannosamente di tenergli dietro. Il ragazzotto aveva tre o quattro anni più di Clé, era magro, alto, bruno di capelli, ma rasato quasi sempre a zero, ed era indubbiamente fortissimo. Ci voleva poco a vedere che Milto incantava Clé, sia per le sue virtù eroiche di mangia-salite, sia perché era oltremodo scanzonato e fracassatore d’idoli.
Fu Milto a mettere Clé finalmente al corrente di alcuni fatti basilari della vita. Un giorno, terminata la gita ciclistica che aveva portato i ragazzi fino a Pontassieve, i due stavano riposando sull’erba lungo le rive dell’Arno in una località detta l’Albereta, a quei tempi ancora piacevolmente verde e ricca di prati. D’un tratto passò loro vicino una signora di mezza età, vestita assai bene, con una cagna al guinzaglio. La povera padrona non aveva potuto impedire a un grosso cane bianco maremmano, in calore, di saltare addosso alla femmina, pure lei disponibile, e di lanciarsi in una chiavatona galoppante, con orgiastica pompata finale. La signora, molto imbarazzata, tirava con tutte le forze il guinzaglio della sua cagna, ma non ce la faceva proprio a separare i due animali infoiati. “Eh, li lasci fare signora!” raccomandò Milto ridendo. “Vedrà che bella cucciolata di maremmani le riempirà la casa tra poco!” La scena era stata tragicomica, ma brevissima; il maremmano, compiute le sue gesta da Paride della specie, scappò via, e la signora, trascinando la sua cagna ormai mogia, che continuava a scuotersi il pelo, sparì lungo l’Albereta.
Naturalmente i discorsi tra Milto e Clé continuarono sul tema suggerito dall’accoppiamento canino. “Sembravano proprio due fidanzati, no?” commentava Milto allegramente. Da principio Clé non capiva bene, ma poi afferrò al volo la sostanza del paragone.
Pareva quasi incredibile a dirsi, ma Clé ignorava ancora pressoché tutto di questo basilare capitolo della vita. E i trastulli fauneschi delle scogliere di Castiglioncello? E i famosi paradisi con Rolando, saltando di bosco in bosco? Ecco, erano certo dei fatti curiosi, originali, eccitanti, però mentalmente venivano classificati nella categoria dei “giochini” e basta. Il salto di congiunzione tra giochini e riproduzione non era mai stato fatto dai ragazzi, e forse non era neppure passato loro per la mente. Se è vero che certi popoli primitivi non hanno avuto coscienza del collegamento tra sesso e nascita di figli, se è vero che l’ontogenesi riepiloga la filogenesi, e che quindi un ragazzino è un primitivo in attesa di venire acculturato, tale stato di cose fa perfettamente senso.
Del resto, molti anni più tardi, Clé ebbe a riscontrare la medesima ignoranza nei ricordi di un grosso premio Nobel, tinegista intorno agli anni venti del secolo, Elias Canetti, raccontata nel suo libro La lingua salvata.
Oggi, forse una vaga educazione sessuale si è diffusa anche in un Paese di bui secolari come l’Italia, ma a quei tempi non esisteva nulla. A scuola silenzio assoluto; la mamma aveva dato a Clé l’informazione giusta sui nove mesi di gravidanza, ma poi non aveva fatto seguire altri chiarimenti. Il dottor Raimondi non ne parliamo neppure, gli sarebbe preso un attacco cardiaco al solo appropinquarsi dell’argomento, più scabroso addirittura di quelli già vertiginosi chiamati religione, soldi, politica, classi sociali. I vari preti con cui Clé era venuto a contatto, anche loro mutismo generale. Insomma Clé (e forse anche Rolando con lui) erano rimasti ancora con un endocosmo sguarnito e primordiale, in cui quel poco d’erotismo conosciuto faceva parte della categoria dei giochini, in cui l’amore e le passioni erano cose attraenti, ma oltremodo misteriose; quanto alla riproduzione umana, come s’è detto, essa avveniva probabilmente in seguito alla recitazione di una preghiera segretissima e speciale insegnata solo alle coppie sposate! Nel Clé quattordicenne, i vari fili sospesi del basilare discorso sulla vita andarono subito annodandosi l’un l’altro grazie alle sintetiche e pittoresche spiegazioni di Milto. In mezz’ora tutto fu a posto.
Clé doveva poi ridere tra sé in futuro, ma proprio alla grossa, quando gli capitava di ripensare alle immediate reazioni a questa Scienza Nuova che gli era stata impartita. “Ma allora, Milto,” ripeteva, “anche i nostri genitori fecero come dici tu?” “Certo!” insisteva l’amico ciclista. “Altrimenti non saremmo qui...” E la domanda successiva di Clé fu più sbalorditiva ancora: “Ma sei proprio sicuro, Milto, di quello che dici? Se è vero ciò che racconti, anche il re e la regina usano infilarsi uno nell’altra! Non mi sembra possibile, che ne dici? Pensaci bene... Dove vanno allora la dignità, il rispetto, la pompa di corte?” “Ma sciocchino.” ribadiva Milto, “sono cose private, segrete, che si compiono di notte, in camere buie, magari sotto le coperte... Insomma tutti lo fanno... Eh, altrimenti il mondo si fermerebbe, resterebbe spopolato! Forse solo Gesù Cristo si tenne da parte, per quanto anche lui con quella Maddalena... Mi pare sia difficile giurarci!”
E qui Clé si ricordava come gli fosse esplosa nell’immaginazione una scena degna di Federico Fellini in cui il riverito sovrano, in piena uniforme con fasce azzurre a tracolla e medaglie tintinnanti sul petto, rotondo come una botticella, infilava il suo cosino tra le mele cresciutocce di una regina smisurata, per metà sommersa in un mare di sete e di fiocchi rosa, su di un colossale talamo barocco. Era, per così dire, la fine di tutto. O il principio di tutto? Chissà.
Quando Clé si lagnava di non saper nulla, d’essere tanto addietro, di non aver provato nulla, Milto aveva anche altre idee. “Ma che vuol dire,” esclamava il compagno ciclista, “se ti mancano due o tre anni alla data fatidica! Basta conoscere le vie segrete, e noi in farmacia siamo bene ammanicati, stai tranquillo... Ti ci porto io al casino, vedrai com’è facile! Poi, una volta passata la barriera, sei conosciuto, sei di casa, che ci vuole a ritornare? Nulla, proprio nulla!”
E qui Milto si dilungava a descrivere le delizie d’una villetta lungo il torrente Affrico, che diceva di conoscere benissimo. “Eh, c’è per esempio l’Angelita, una spagnola, è così ben fatta e così graziosa, si direbbe una bambola, tanto che si presenta sempre in salotto nuda, ma dico nuda completa, salvo un triangolino di seta azzurra al posto giusto... Poi ti conduce su in camera e lì sei davvero in paradiso, altro che storie!” Clé, per quanto un po’ tentatello lo fosse, almeno da un lato della sua complicata e poliedrica geometria psicologica, non ci stava; e non ci stette mai. Voleva che “la prima volta” fosse un vero incontro di affetti, una festa d’amore completa e significativa. Qualcosa da ricordare. E in parte ci riuscì.
* * *
Per ciò che riguarda la cultura si trattò di scoperte, di coloriture emotive, che toccavano Clé in modo più individuale, del tutto privato e sotterraneo. Rolando e gli altri amici c’entravano poco. Ripensandoci, più tardi Clé dovette addirittura concludere che questo fu un guaio, un mezzo disastro. Rolando era il compagno della montagna, delle marine, delle avventure con pochi discorsi e molti fatti, della scuola di coraggio, resistenza, ardire, sudori, confronti con i precipizi, le bufere, i bivacchi; ci sarebbe voluto un compagno parallelo nella scoperta di libri, orizzonti, maestri, idee, pensieri... Sì, ci furono Ulisse e poi Amedeo, ma nessuno dei due, né altri consimili, poterono mai dirsi il “Grande Compagno Parallelo a Rolando”, in materia dello spirito.
Fino ai dodici, tredici anni d’età, insomma fino all’ingresso nella vera tinegeria, scuola, libri, quaderni, studi, italiano, latino, storia, maestri, professori, compiti, esami, facevano parte d’un sistema planetario uggioso e nemico che esisteva, sì, al quale però gli esseri umani di qualche rispetto, di nobile carattere, di lodevoli gusti, dovevano opporre sorda, continua, pervicace resistenza. Si faceva quel che si doveva fare, ma uffa che noia, che uggia!
Ora avvenne un bel giorno, e Clé se ne sarebbe sempre ricordato, che il ragazzo si scoprì a leggere un libro “di cultura” con irresistibile interesse, con il più vorace dei piaceri. Il momento fu capitale e Clé ne ricordava le circostanze precise, bastava chiudesse gli occhi. Era un caldo pomeriggio di tarda primavera, uno di quei giorni bianchi, dal cielo a soffitto muto, sotto il quale il mondo dorme silente e forse disgustato. Clé aveva aperto un volume, capitatogli tra le mani non sapeva neppure lui come, s’era seduto in giardino e s’era messo a leggere, poi aveva continuato a leggere, leggere, leggere, senza potersi fermare.
Il volume sdrucito era una elementare Storia della Filosofia, dovuta a un certo professor Tredici (forse un prete?). Fino a quel momento la sola parola “filosofia” gli era parsa immonda, simbolo di tutto ciò che poteva esistere di più bigio, greve e repellente. Invece non era vero nulla! Vi si parlava di cose stupende, sorprendenti, affascinanti. I presocratici, per esempio. Il mondo è tutto acqua (Talete); no, è tutto aria (Anassimene); macché, è ápeiron, l’infinito che contiene tutti i contrari (Anassimandro). Il mondo è, sta, il moto è illusione (Parmenide). Ma via! Il mondo diviene, scorre, “non puoi mettere il piede due volte nello stesso fiume” (Eraclito). Insomma, chi ha ragione? Le domande brillavano come spezzoni incendiari di una formidabile bomba. E poi, più avanti, c’era il signor Nietzsche (Clé ignorava ancora che si pronunciasse Nicce) con il suo pazzesco Superuomo e altro ancora. Clé provava di nuovo su per la spina dorsale i brividi che gli avevano dato, anni prima, il catechismo con le sue scoperte di panorami vastissimi, includendo tutto, dal bruco a Dio e ritorno. E gli faceva scintillare, nelle retine del cervello, la nebulosa d’Andromeda, ai tempi beati di Lady Sybille. La vita era una colossale avventura che valeva la pena d’essere vissuta. Via, partiamo! Andiamo! Vediamo!
Fin qui, diciamolo, nulla d’anormale. Il fatto curioso era (e Clé se ne rendeva conto divertito) che, insieme al sorgere di tanti nuovi interessi, il ragazzo provava una vergogna di ladro, proprio per il fatto di vedersi cadere nella loro subdola rete. “Come, io, Lungafreccia, capace di scalare scalzo gli alberi più inaccessibili, di traversare a nuoto l’Arno in piena, di ritrovare la via in qualsiasi boscaglia selvaggia, io, proprio io sono qui affascinato da un libro della più spregevole sorte? È una cosa indegna, un vituperio, una schifezza inconfessabile! Non hanno forse i tuareg del Sahara, quando esprimono simili pensieri, un’espressione speciale: ‘La vergogna della zappa’? Come, noi liberi nomadi cavalieri, sovrani dei deserti, dovremmo piegarci all’umiliante condizione di agricoltori che graffiano la terra a capo chino? Che restano sempre al medesimo posto inverno ed estate? La zappa è una vergogna disgustosa!”