3. La residenza di Lord Sandwich
Clé, come faceva spesso, si recò a dare un bacio di buon giorno alla mamma, donna di natura mattiniera, che alle sette e mezzo prendeva già la prima colazione nella sua stanza inondata (con il tempo buono) di sole. La trovò raggiante.
“Sai, ho parlato a papà e lui ha detto sì, che ce la può fare per la spesa... Pensa, tra poco andremo in Inghilterra insieme! Vai a ringraziare papà, sii gentile eh, quando più tardi lui si sveglia.” (Il genitore aveva ritmi giornalieri diversi da quelli materni, stava su fino a tardi, e tardi si metteva in moto.)
Clé si sentì leggero e felice all’annuncio, ma percepì anche dei vuoti d’aria improvvisi. Good old England: quanto ne aveva sentito parlare, era un po’ come un’Ellade nello spirito di casa! Però, se infine non gli fosse piaciuta, temeva che sarebbe rimasto dolorosamente disilluso.
A ogni modo i giorni precedenti la partenza trascorsero prestissimo e, quasi all’improvviso, il ragazzo si trovò in viaggio: per una curiosa decisione materna, l’Inghilterra si doveva raggiungere via mare. Dunque da Firenze a Genova in ferrovia, poi imbarco su di un colossale piroscafo olandese dal nome quasi impronunciabile, Oldenbarnevelt (ricordava uno dei massimi fondatori della libertà olandese, vissuto tra fine Cinquecento e primi Seicento).
La traversata cominciò male, con una mareggiata di quelle virulente nel golfo del Leone, tra la Corsica e le Baleari. Clé, rimasto uno dei pochi in giro per i ponti, si scoprì buon marinaio, fatto che gli dette gran soddisfazione. La mamma, poveretta, invece soffriva e s’era ritirata in cabina, lì Clé andava a trovarla; ma poi se ne tornava a un certo suo posto a prua dove arrivavano sferzate di spruzzi salati ed era possibile ammirare davvero lo spettacolo eroico delle onde ripide, verdastre, dalla pelle nervosa rabbrividita dal vento, e con i ricci di spuma sulle creste. Clé ripensava a Castiglioncello, ma un mare così non lo aveva mai visto; e soprattutto non c’era mai stato “dentro”, come adesso. Era un’esperienza fortissima, entusiasmante.
La nave proveniva dall’Indonesia (allora Indie Olandesi), ed era affollata da una valanga di biondoni e biondone i quali, salvo nelle ore di tempesta, dimostravano una capacità d’ingerire manicaretti e di bere alcolici veramente pantagruelica. Lo sbarco ad Algeri e poi a Tangeri costituì un primissimo contatto con il famoso Altro, nella fattispecie con il mondo islamico. Fu però un avvicinamento talmente a scappa e fuggi da non permettere il minimo scavo in profondità. Si limitò alla registrazione delle consuete divergenze turistiche rispetto al paesaggio nostrale: cioè donne velate, caffettani, ciabattone ricamate, asinelli, qualche scorcio di minareti e simili. Eppure Clé, con la sua curiosità da scimmia, fantasticava già: “Se potessi scoperchiare quelle teste e vederci dentro chissà che cosmografie straordinarie!”
L’arrivo in Inghilterra colpì Clé per due aspetti: innanzitutto per l’inusitato silenzio. A Genova (e non era Napoli) le sale del porto in cui si radunavano i passeggeri erano affollate da turbe di gente che parlava ad alta o altissima voce, o addirittura gridava per farsi capire, mentre qui tutto si svolgeva come se si trattasse d’un teatro d’ombre vagamente viventi, nel più incredibile e vellutato silenzio.
Poi, miracolo dei miracoli, tutti, ma proprio tutti, anche i facchini e le donne che lucidavano maniglie d’ottone o borchie di bronzo, parlavano inglese! Il fatto colpì Clé in modo folgorante.
Quella che a Firenze era la lingua dell’intimità domestica, o della crema scelta di alcuni amici di famiglia, qui si riversava, come la pioggia, in ogni angolo immaginabile. Pareva quasi una profanazione, un insulto, oppure un prodigio innaturale, come un vitello che nasce con sei zampe, o con due teste.
Iris e il figlio andarono a stare nell’appartamento di Wanda, la sorellastra di Clé, la quale era partita per delle vacanze in Spagna, con il marito Donald. Clé aveva incontrato Wanda una volta a Firenze, dov’era comparsa per una breve visita, ma di Donald aveva solo sentito parlare. Wanda era una ragazzona dai capelli rossastri di venticinque o ventisei anni, impetuosa e allegra, piuttosto invadente. “Somiglia moltissimo a suo padre...” diceva Iris, quasi volesse scusarsi. Clé ebbe la curiosa sensazione che la mamma provasse una sorta di timore fisico dinanzi alla figlia. Meno male allora che non c’era! Clé aveva riflettuto poco su questa parte un po’ misteriosa e defilata della famiglia, la sorellastra Wanda e il fratellastro Igor: pareva tutto un mondo da esplorare. A ogni modo Igor stava con il padre, da qualche parte verso Bristol, e non erano previsti incontri; ma Wanda era un personaggio ben reale, anzi vivissimo, anzi simpatico.
Wanda esercitava molto fascino su chiunque l’avvicinasse. Bianchissima di pelle, sfoggiava una criniera leonina di capelli rossastri; caratteristica del volto era una fossetta alla David Niven nel bel mezzo del mento, che le dava un sorriso inconfondibile. Amava vestirsi vistosamente. Era molto diversa dalla mamma, epitome vivente del gusto più sobrio e raffinato immaginabile, o (per dirla alla giapponese) squisitamente shibui.
L’appartamento di Wanda e marito si trovava in un’ottima posizione, a Cadogan Gardens, non lontano da Hyde Park, nel centro di Londra. Come molti appartamenti della capitale inglese, almeno allora, lo spazio si sviluppava in altezza, su tre piani strettissimi, collegati da scricchiolanti scale di legno coperte da soffici guide colorate. Imperava su tutto un indefinibile odorino d’antico, di stravissuto secolare (che poteva anche avere il suo fascino).
Wanda si era laureata (o diplomata?) in psicologia, e il suo studio, dove Clé si era sistemato sopra un sofà-letto, appariva tappezzato da libri affascinanti: Young Manhood and its Crises attirò subito l’attenzione del tinegista bilingue, come anche un testo, Race Relations in the United States; quanti argomenti di cui nessuno parlava in Italia e in cui Clé avrebbe voluto veder chiaro! “Non cercar d’imparare la vita dai libri, non sostituire le letture alle esperienze!” gli aveva raccomandato una volta, con molta saggezza, Ermete Trimegisto. Ma qui come si faceva a resistere? E poi non c’erano lì dinanzi al naso i sei volumoni del celeberrimo trattato di Havelock Ellis: Studies in the Psychology of Sex? Tutto un programma d’erudizione vasta e minuta su ogni immaginabile aspetto del fascinoso Mistero Sesso.
Viaggiare fino a Londra per rinchiudersi in una stanza di libri sarebbe stato assurdo. Fortunatamente la mamma aveva trovato per Clé un’ottima compagnia; si trattava della figlia venticinquenne di una sua amica italiana sposata a un inglese. La fanciulla si chiamava Gioiella, e comparve ben presto saltellante a Cadogan Gardens con impegnativi programmi turistici.
Gioiella non era proprio una bellezza, aveva per esempio un nasino a patata che benevolmente poteva definirsi “buffo”, ma era piccola, liscia, compatta e, alla pelle bianchissima, univa dei capelli neri acconciati con molta cura intorno al capo. Indossava gonna e maglietta color giardino autunnale, e calzava (come Ursula) dei sandali da frate. Aveva l’aria fresca, competente, di chi, tra il dire e il fare, ignora il mare. Voleva far pratica d’italiano, che conosceva (purtroppo poco) per eredità famigliare. Emanava un profumo singolare, e quasi inebriante.
“Perché non andate al British Museum?” propose la mamma tra una telefonata e l’altra (ma quanti amici aveva a Londra, tra scrittori, editori e artisti!). Così, poco più tardi Clé si trovò sballottato nella parte superiore, a cielo scoperto, d’un autobus a due piani, seduto accanto all’impegnativo gioiello Gioiella.
Anni quindici il maschio, e venticinque la femmina è combinazione a dir poco bislacca. Per di più i quindici praticamente vergini di Clé rendevano la situazione ancora più funambolesca e angosciosa. Naturalmente il ragazzo pensò subito a Ursula. I rapporti cronologici suppergiù corrispondevano.
“Dopotutto io e te,” osservò Clé fingendo (con notevole sforzo) una matura sicurezza, “siamo omologhi, no? Anzi omologhi incrociati...”
“Ah, ah,” rise Gioiella, “non principiare con parole italiane così difficili, mi discendi a terra.”
Clé corresse il “discendi a terra” con “stendi a terra”, e poi cercò di spiegare semplicemente: “Ambedue siamo per metà italiani e per metà inglesi, vero? Dunque siamo omologhi... Per di più incrociati, perché tu sei britanna da parte di padre, e io da parte di madre, chiaro?”
La visita all’universo British Museum andò abbastanza bene. L’“abbastanza” sta lì a significare che tuffarsi in un grande museo in due è sempre un gioco molto rischioso, a meno che un elemento della coppia non abbia natura squisitamente passiva e rilassata, e si adatti a seguire l’altro nelle sue simpatie e nei suoi capricci.
Qui si dava invece il caso che tanto Gioiella quanto Clé fossero nati con forti impasti di curiosità e d’indipendenza, per cui ogni tanto si allontanavano l’uno dall’altra sulla scia di qualche improvviso amore, che so io per le incantevoli statuette di Tanagra o per gli idoli delle Cicladi.
Poi dalle antichità classiche, dai famosi Marmi di Lord Elgin (Partenone, reclamati dalla Grecia), si doveva passare al mondo egiziano o a quello assiro-babilonese? I tesori dell’uno e dell’altro erano disposti lì vicini tra di loro, ma si trattava di scegliere una fila di sale a destra o a sinistra. Gioiella, come più anziana, come “padrona di casa londinese”, tendeva a segnare lei il percorso; d’altra parte, se non veniva costantemente seguita, dove andava a finire la palestra d’italiano alla quale era facile capire tenesse moltissimo?
Tra l’altro pareva vi fosse in vista un prossimo viaggio a Roma, dove l’attendeva un friend. L’inglese non possiede generi, il friend poteva essere quindi Apollo o Venere, a piacere. Clé preferì lasciare alla parola il suo alone di mistero.
Le visite al prodigioso British con le sue collezioni sterminate che offrivano un panorama artistico e spesso sociologico, tramite oggetti, immagini, schemi didattici, di ogni parte del mondo, dagli Inca alla Cina, dai Maori ai Vichinghi, si ripeterono più volte nell’arco d’una settimana. I pomeriggi venivano riserbati alla National Gallery, al Victoria and Albert Museum, alle collezioni Tate e Wallace...
La compagnia di Gioiella era molto piacevole e leggermente eccitante, ma Clé vi ritrovava i termini dell’episodio Ursula, fatto che in certo modo (esperienza già vissuta) lo rassicurava, ma d’altro lato (speranza già delusa) lo deprimeva. La sera, dimenticando i saggi consigli d’Ermete, il ragazzo s’istruiva sulla galassia del sesso attraverso le pagine dei volumi di Havelock Ellis, di giorno invece s’esercitava in lunghe agonie di repressione. Pessimo ciclo d’eventi, tipico groviglio psico-fisiologico da tinegista inesperto e confuso!
Meno male che una larga porzione dell’entità Clé trovava nutrimento e piacere nell’imparare tante cose nuove, impreviste, nell’allargare i propri orizzonti, nell’ammobiliare di pregiatissimi pezzi il proprio endocosmo. Era come brucare pagine e pagine nella biblioteca d’Ermete, ma il tutto moltiplicato per mille, per centomila, per milioni.
La mamma aveva annunciato fin dagli inizi del viaggio che, dopo Londra, ci sarebbe stato un giro “istruttivo e interessante per un ragazzo come te” attraverso le campagne inglesi. Iris aveva recentemente pubblicato un nuovo libro (in inglese si capisce) che aveva avuto risonanza e successo sia di critica che di lettori, e che le aveva procurato inviti in più d’una celebrata country house.
L’Inghilterra è letteralmente disseminata di splendide magioni di campagna, che vanno dai turriti castelli dei primi secoli dopo il 1000, adattati in seguito a residenze comode e pacifiche (come Powis, Conway, Alnwick, Ripley), a vere e proprie ville simili a quelle toscane, venete, siciliane.
Una bella mattina assolata (cosa rara in Inghilterra) un’auto, presa a nolo dalla mamma, venne a prelevare Iris e figlio alla porta di Cadogan Gardens. Il veicolo era d’un sobrio rosso vinaccia, a quattro porte; lo guidava un ometto d’età incerta, ma avanzata, Mister Kiddle, dalla bigia coppola da cui spuntavano dei candidi ricci. Aveva l’aria assolutamente impassibile e sovranamente professionale.
Clé, non abituato alla guida a sinistra, che vige ancora oggi in Inghilterra, pensò più volte che la macchina andasse a fracassarsi contro gli altri veicoli, ma poi dovette persuadersi che la guida di Mister Kiddle era perfetta, equilibrata e sicura come la caduta della sabbia da un’ampolla all’altra in una clessidra.
Dopo l’attraversamento di periferie sempre più squallide, venne raggiunta la placida e benigna campagna inglese, le cui dolci ondulazioni si succedevano, tra vasti campi limitati da staccionate o da siepi spinose; degli splendidi alberoni a chioma piena e vigorosa sorgevano qua e là in un piacevole disordine. Case se ne vedevano pochissime; qualche mucca, qualche cavallo, rarissimi contadini comparivano nel paesaggio – si capiva subito che l’Inghilterra d’allora (a differenza dell’Italia) era un Paese ormai altamente industrializzato, nel quale l’agricoltura godeva di un benign neglect, d’una benevola trascuratezza.
Clé non poteva dirsi entusiasta di questo mondo – amava vedute più drammatiche, più romantiche, più eroiche, con rupi, forre, boscaglie e cascate – ma dovette convenire che sprigionava un suo particolare incanto.
“Mammina, che dici, ti piace davvero l’Inghilterra?”
“Certo, mi commuove, ho tanti ricordi... Ma ormai ho messo a punto i miei sensi per l’Italia, la Toscana. Ah, quel sole più deciso, gli ulivi nel vento, i profumi d’alloro! Però devo confessarti un segreto: la puszta ungherese, quella non me la toglierà mai nessuno dal cuore...”
“E ora dove andiamo di preciso?”
“Te l’ho detto, caro... visiteremo alcune country houses dove siamo stati invitati. Ho piacere che tu le veda, che ti restino in mente come un ricordo. Sono occasioni uniche, da non perdere. Ricordati, quando parli a un Lord, usa il “Sir” seguito dal nome... Sir Francis, Sir William e così via.”
Clé, da quando era in Inghilterra, stava diventando acutamente conscio di un aspetto della vita a cui non aveva mai pensato prima: quello della classe. Era qualcosa di enigmatico, di molto sottile, di sfuggevole come certi riflessi lunari; era qualcosa di vagamente, ma certo non esclusivamente, legato alla ricchezza; costituiva insomma un alone, un’aureola, un carisma indefinibile che, similmente alla grazia divina per i calvinisti, toccava certe fronti privilegiate evitandone molte altre. C’erano ricchi di classe infima, e c’erano poveri o poverastri di classe squisita.
Un giovane francese incontrato sulla nave, con il quale aveva legato in rapida e sicura simpatia, lo aveva già avvertito, nel suo incerto e gallico inglese: “Vedrai, quelli di là dalla Manica sono gente ridden by class, tormentata dalla classe.” Naturalmente la classe esisteva anche in Italia: Martino e i suoi differivano in moltissimi aspetti dagli amici accademici dei genitori, ma in qualche modo lo si avvertiva meno, le relazioni tra le persone erano più rilassate, sciolte, facili.
In Inghilterra dopo un po’ ci si accorgeva che tutti stavano sul chi vive per situarsi, e per situare gli altri, in graduatorie di classi immaginarie o reali che fossero. Clé aveva capito che non prevaleva, come da noi, un uso orizzontale, geografico, dei dialetti, per cui il veneziano, il bolognese, il siculo d’ogni classe sono accomunati da una medesima favella, bensì un ordinamento verticale, per il quale i colti e i privilegiati d’ogni dove del regno parlavano a loro modo, mentre gli altri si facevano intendere con le proprie caratteristiche regionali. Benjamin Kiddle (l’autista) per esempio, oltre che parlar poco, era quasi incomprensibile quando apriva bocca, perché “lasciava cadere le h”, si esprimeva cioè in cockney, la parlata londinese, dicendo abit invece di habit e ollow invece di hollow.
Con il tramonto la macchina guidata dall’enigmatico Benjamin si fermò dinanzi a un alto cancello tra due pilastri, ornati alla barocca, nel bel mezzo d’una campagna. Il cancello venne spalancato, la mamma annunciò il suo nome, e subito l’addetto al passaggio segnò il via libera, indubbiamente con la micrometrica coloritura di rispetto del caso.
Seguì un lungo viale alberato tra prati e lembi di selva vetusta in cui perfino le querce e gli olmi avrebbero potuto dirsi nobili. Ma ecco il palagio, un fatato edificio tudoriano del sedicesimo secolo, vagamente perlaceo nel chiarore della luna nascente, contro i rossori dell’occaso calante. Vi si notavano pinnacoli e torricelle, nonché finestrone gotiche che facevano piuttosto pensare a un antico convento che a una villa. Clé, dopo la sonnolenza del viaggio, si sentiva sveglissimo e stranamente commosso. “This is real old England, thank you mummy!” avrebbe voluto dire, ma un po’ vilmente tacque... Chissà che piacere le avrebbe fatto!
La porta di casa era aperta, un maggiordomo imponente accolse gli ospiti e un giovane inserviente robusto prese le valigie guidando la piccola carovana di sopra, nell’appartamento a essa riservato. Clé, ormai adattandosi mentalmente alla necessità, si cambiò da capo a piedi, indossando quell’abito nero chiamato in italiano (chissà perché) smoking, ma detto in inglese genuino dinner jacket. Gli veniva da ridere guardandosi nello specchio, vedendosi tutto catafratto in nero e bianco formalissimi, con tanto di cravattino a fiocco sul pomo d’Adamo. Naturalmente pensò alla sfuggita: “Eh, se Rolando mi vedesse, che direbbe? Meglio non indagare!”
Quando Iris e Clé scesero giù nella vastissima sala, anzi nella successione di sale della villa, furono accolti dai padroni di casa con la quasi eccessiva cordialità inglese d’obbligo nei momenti in cui “si deve essere cordiali”.
“Hallo Iris, welcome back to England!” esclamò Sir Francis. “And this is your son Anacletow... What a ripping boy!”
Clé notò una signora fiorentina del mondo anglo-becero che conosceva da tempo e andò a salutarla sedendosi a lei vicino. I due avviarono quasi subito ridendo una conversazione animata sul tema, sempre affascinante, del “Noi e Loro”, della comparazione geometrico-antropologica tra gli Angli e gli Itali.
Nella vasta sala calda e illuminata con saggia parsimonia, imbottita soavemente di tappeti e tendaggi che attutivano gli echi delle molte conversazioni, ci saranno state venticinque-trenta persone, per lo più anziane – e ovviamente sconosciute. Camerieri gentili ma impassibili in livrea offrivano in giro bevande alcoliche e non. Le pareti erano occupate fin quasi ai soffitti da dipinti d’ogni forma e dimensione (quadrati, rettangolari, ovali, rotondi), in cornici d’ogni stile; per lo più opere di scuole italiane minori, o fiamminghe. Sembrava che la collezione si fosse formata per appilamento secolare, senza mai riproporre un ordine logico all’insieme.
Un gruppetto di uomini dall’aria di conoscitori stava esaminando alcune pitture, situate accessibilmente in basso, dello svizzero-inglese Johann Heinrich Füssli (1741-1825) il quale, oltre che in Svizzera e in Italia, lavorò a lungo in Inghilterra. Non era certo un grande, ma indubbiamente era uno strano. Talvolta ricorda Blake, o, per venir più vicino a noi, Tamara De Lempicka. I nudi curiosamente tubolari e affusolati dei suoi quadri, mitologici o allegorici, emanano una sensualità caprina e leggermente allarmante. Clé si era alzato e s’era avvicinato agli esperti; sentì dire che le tavole di Füssli costituivano la parte più interessante e di maggior valore dell’intera collezione ducale.
Intanto Sir Francis s’era avvicinato, quasi senza esser visto, a Clé. “Tu che sei giovane e scommetto energico,” gli disse, “vorrei farti conoscere una persona molto interessante.”
Sir Francis condusse Clé verso un gruppo di giovani che facevano circolo intorno a un uomo sulla quarantina, magro, alto, con il volto incorniciato da una barba venata di grigio, la cui espressione da eremita pareva francamente fuori luogo nella sala scintillante di luci e di lussi d’ogni genere.
“Caro Fred,” disse il padrone di casa,“vorrei farti conoscere un nostro giovane amico, Anacletow, da Firenze... E questo è Fred che prese parte due anni fa alla spedizione del ’24 sull’Everest. Sono sicuro che i suoi racconti,” aggiunse rivolto di nuovo a Clé, “t’interesseranno più delle fantasie di Füssli.”
L’esploratore sorrise benevolmente a Clé, ma continuò, soffermandosi appena un attimo nel suo racconto. “Oltre il colle Nord dell’Everest, il Chang-la, come lo chiamano i tibetani, la cresta della montagna si erge puntando dritta come una lama alla vetta, con due salti quasi verticali che sbarrano il passaggio... Nelle rare ore di bel tempo le difficoltà non parrebbero eccessive, ma voi non potete avere un’idea della trasformazione terribile che avviene quando comincia a soffiare il vento... Polvere di neve turbina vorticosamente dappertutto, penetrando negli occhi, nel collo, nei guanti, nascondendo ogni particolare della montagna, facendo girare la testa...”
Clé ascoltava affascinato. “Anch’io, anch’io!” gli gridava una voce segreta da qualche parte del cuore. “Anch’io, appena ne sarò capace!” Ma poi gli venivano i dubbi: “Ce la farò? Ne avrò la forza?” Intanto, dai racconti dell’alpinista ed esploratore, imparava nomi fatati che gli s’imprimevano nella memoria come diamanti: Tingri Dzong, Monastero Rongbuk, Kampa Dzong, Shekar Dzong, il Chang-la...
A tavola Clé fu contentissimo che gli avessero destinato un posto vicino al reduce dall’Everest. Va ricordato che la massima montagna del pianeta era lungi dall’essere stata scalata allora (la sua vetta sarebbe stata raggiunta solo venticinque anni più tardi, nel 1953, da Edmund Hillary e Norkey Tenzing); il colosso himalayano era ancora circondato da un’aureola impressionante d’inaccessibilità. Certo, restava il mistero di Leigh Mallory e Andrew Irvine, che erano partiti l’8 giugno del 1924 dal campo Sesto, a ottomilatrecento metri, e non erano mai tornati alla base. Qualcuno sosteneva (e qualcuno sostiene ancora) che i due potevano aver raggiunto la cima, perdendo la vita poi nella discesa... Ovviamente si parlò di questo appassionante mistero alla tavola di Lord Sandwich, ma Clé non osò far altro che ascoltare.
In seguito qualcuno sviò il discorso su di un versante più frivolo, e più congeniale a una gaia tavolata lungo la quale i commensali cominciavano a sentirsi in corpo la calda allegria generata dagli squisiti vini francesi.
“Nelle sue peregrinazioni tibetane ha mai incontrato il Kangmi, il Puzzolente, l’Abominevole Uomo delle Nevi? O ne ha almeno sentito parlare? Ce ne dica qualcosa!”
“Incontrato sicuramente no... Visto neppure... Ma se ne sente parlare dappertutto, di continuo, da parte dei tibetani, degli Sherpa, dei nativi di quelle terre. Quasi tutti hanno paura ad allontanarsi dai campi, o di stare da soli, specie con il cattivo tempo e la nebbia, o di notte.”
“Dunque qualche cosa c’è! Lei che ne pensa?”
Qui il viaggiatore riferì l’esperienza, allora recentissima, di un certo Tombazi, nel Sikkim: “Pare che questo alpinista si sia trovato quasi faccia a faccia con una creatura misteriosa, il cui profilo corrispondeva a quello di un essere umano. L’incontro è stato però troppo fugace per essere decisivo...”
“Insomma lei che ne conclude?”
“Secondo me, sul versante tibetano, così sassoso e deserto, quasi privo di vegetazione, è molto improbabile che un animale di taglia umana possa sopravvivere senza esser visto... E poi di che si nutrirebbe? Ma se ci portiamo sul versante Sud della catena himalayana, in Nepal, nel Sikkim, nel Bhutan, nel Tawang, le cose cambiano radicalmente. All’incirca tra i tremilacinquecento e i cinquemila metri di quota” (qui il viaggiatore valutò le altezze, come ci si poteva attendere, in piedi e non in metri) “vigoreggiano delle vastissime foreste, o macchie, o forteti che dir si voglia, di rododendri arborei. Queste piante sono incredibilmente folte e intricate, costituiscono una sorta di giungla molto difficile a percorrersi. Ricordo una volta che mi persi là dentro... Ebbene, mi ci vollero varie ore per superare poche centinaia di piedi fino all’unica via percorribile, un vicino torrente. I cespugli sono molto più alti di un uomo; per avanzare devi salire sui rami della pianta, che sotto il tuo peso si abbassano fino a terra, seppellendoti tra le foglie. In seguito, appena li sgravi del tuo peso, eccoli schizzare su come molle e riprendere la posizione di prima. Ma tu vuoi avanzare. Allora sali su degli altri rami vicini i quali a loro volta, gravati, s’abbassano... Insomma è una fatica continua che rende pochissimo. C’è da impazzire! Ebbene, là dentro non può nascondersi qualsiasi animale, anche grosso? Io non escluderei a priori, tanto leggermente, l’esistenza dell’Abominevole dalle possibilità della natura.”