4. Cos’è l’epatta?

Iris e Clé tornarono in Italia via Manica, via terra e ferrovie, con sosta di una settimana a Parigi. Purtroppo non c’era alcuna Gioiella francofona a fare da guida alle meraviglie della Ville Lumière, ma Clé esplorò da solo, o con la mamma, il Louvre, la Sainte Chapelle, il Musée de Cluny, Notre-Dame, insomma tutti i luoghi sacri alla più alta e squisita cultura europea. Il panorama delle ventisei civiltà dell’uomo, elencate da Arnold Toynbee, si allargava, concedeva mirabili precisazioni, sempre nuove e stupende sorprese.

Rientrato nella casa fiorentina Clé abbracciò, affettuosamente ricambiato, il padre, ringraziandolo più volte per la sua generosità nell’aver provveduto al viaggio; per un poco parve si dovesse registrare un’era novella nelle relazioni tra burbero padre e confuso figlio tinegista. Del resto Clé si rendeva benissimo conto dei privilegi insigni che gli spianavano le strade dell’esistenza: da un lato buona salute e vigore fisico, dall’altro agiatezza e ottima reputazione della famiglia. Che vuoi di più, fannullone?

Infatti a volte Clé quasi quasi si vergognava di vedersi piovere addosso tante cornucopie di fortuna. Gilberto, per esempio, compagno di giochi ai tempi di Martino e famiglia a Ricòrboli, ora faceva l’apprendista biciclettaio a porta San Frediano; il Nuti, compagno di scuola per un anno o due, ormai lavorava nella macelleria del babbo in via Romana. Perché lui sì, tanti favori dai numi e loro no? Poi gli veniva da ribaltare il panorama e porsi la questione in termini opposti; perché loro sì e lui no? In altre parole, perché loro erano già immersi nella vita autentica, sostanziosa e colorita, mentre lui svolazzava di qua e di là come un pipistrello all’imbrunire in cerca di moscerini?

Purtroppo la primavera d’amorevoli sentimenti tra padre e figlio e viceversa risultò ingannevole ed effimera: ben presto il gelo di sempre calò sui loro sofferti rapporti. Perché, perché? Il ragazzo non riuscì mai a elencarsi delle ragioni totalmente plausibili a spiegare tanto inceppo d’affetti. Del resto quando si guardava intorno e spiava i rapporti padre-figlio in casi e case di amici, compagni di scuola, figli di vicini e simili, ritrovava il più delle volte esempi apparentabili al suo.

Faceva eccezione un amico molto caro, Santo De’ Nobili, che viveva in stato d’autentico idillio con il padre: i due facevano gite insieme da soli, parlavano di tutto allegramente quasi fossero stati compagni di baldorie. Venire invitati a colazione in casa De’ Nobili era una festa – e un tormento, per i paragoni che tutto ciò proponeva. Ma si trattava, almeno nell’esperienza di Clé, di un’eccezione. Nella normalità dei casi si fiutavano relazioni rugginose. In altre parole ci si muoveva in uno dei tanti feudi dell’amodio, categoria onnipresente nella vita, benché taciuta dai lessici.

La situazione era penosissima per Clé, una delle più grosse spine nei suoi fianchi. Quanto sarebbe stato consolante poter parlare con il padre di cose che premevano davvero, che costituivano gli assillanti problemi dell’età! Ma i soldi, per esempio, salvo ciò che riguardava le cinque o dieci lire, erano strettissimo tabù, la religione idem; donne, amore, sesso, neppure da menzionare; la politica (allora essenzialmente duce e fascismo) un terreno minato. Prospettive future? “Non ti piacerebbe divenire architetto?” aveva suggerito il dottor Raimondi. Poi – per l’innocente ragione d’un ritardo di qualche secondo nella risposta da parte del figlio – il genitore s’era fatto rosso in volto, era “montato in furia” esclamando: “Ecco, al solito, le mie speranze vengono sempre deluse, i miei consigli disattesi. Fa’ quel che ti pare. Ma più tardi non venire a chiedere aiuti.” Con ciò erano ripiombati addosso i plumbei silenzi di sempre.

Negli sconfinati deserti da tartari della notte, Clé spesso elaborava teorie. C’era per esempio quella dell’“embrione insolente”, da enunciarsi così: Iris era rimasta incinta, e per gran parte il dottor Raimondi n’era stato felice, ma per un’altra parte, sepolta nelle catacombe freudiane della psiche, si era trattato di un disastro. A causa dell’embrione insolente aveva leticato con il nonno, aveva dovuto lasciare l’amatissima e venerata madre, aveva dovuto rinunciare agli agi del villino, alla vivacità intellettuale e artistica della metropoli, per ritirarsi tra i bifolchi etruschi di Ricòrboli, e così via.

Da sveglio la teoria si indeboliva, o crollava. Roberto e Iris si amavano teneramente, bastava seguire con lo sguardo la produzione artistica del genitore durante quegli anni, era tutta un inno all’amore, alla famiglia, agli embrioni trasformatisi in ragazzini. Il gelo Roma-Firenze era durato, tutto sommato, ben poco; da anni ormai Iris era festosamente accolta al villino, con baci e abbracci da parte della suocera e della cognata e con baciamani vistosi da parte di zio Miscia.

I rapporti con la mamma, pilastro centrale d’ogni dolce emozione negli anni dell’infanzia, si erano, come dire, un po’ sfocati. Colpo tremendo per lei fu la scomparsa improvvisa di Igor, il fratellastro di Clé, annunciata pochi mesi dopo il ritorno dall’Inghilterra. Clé non era riuscito a conoscere Igor di persona, ne aveva soltanto visto delle foto che ritraevano uno splendido ventenne sorridente, il quale somigliava non poco al celebre Edmund Hillary, il primo scalatore dell’Everest; possedeva lo stesso volto caratterizzato da un mento allungatissimo, ed emanava, almeno dalle immagini, il medesimo senso di sicurezza sportiva.

Il primo marito della mamma, quel capitano Cummings mai conosciuto di persona, doveva essere, tutto sommato, un buon padre; benché di mediocri sostanze, aveva pagato a Igor, come dono per la maggiore età, un giro completo del mondo in sei mesi. Oggi sono scherzetti alla portata di molte famiglie, ma allora era testimonianza o di grandi mezzi, o di saldissimo affetto.

Non si seppe mai come, ma Igor, durante la traversata di una parte del Pacifico, sparì dal piroscafo su cui viaggiava. Il giovanotto era passeggero di prima classe e il fattaccio suscitò curiosità sui giornali. Non solo, al rientro della nave, pare si fossero svolte inchieste di vario genere, senza però ottenere risultati concreti. Si disse che, dopo una festa a bordo, Igor, forse un po’ alticcio, si fosse portato da solo in coperta per godersi il vento, e l’incanto delle onde sotto la luna. In tali circostanze basta un nulla, una sbandata improvvisa della nave, per cadere in mare. Se non c’è qualcuno vicino che dà subito l’allarme, sei perso. Del resto tutti sanno che anche dato il segnale di “uomo a mare”, quando si è in pieno oceano, è difficilissimo rintracciare e salvare il naufrago.

La mamma, a questa sciagura, già penosissima in sé, dava purtroppo un’interpretazione del tutto personale. A Clé non lo disse mai esplicitamente, ma lo si capiva da certe sue frasi; lei s’immaginava, in altre parole, che Igor non fosse caduto involontariamente tra le onde del Pacifico, ma che vi si fosse gettato, o per lo meno lasciato cadere. La possibilità d’un suicidio del figlio, di cui lei segretamente, e del tutto senza ragione, si faceva una colpa, l’angustiava in modo crudele. Igor e la mamma erano stati molto vicini; lui le scriveva spesso, lei teneva sempre una sua foto sul comodino accanto al letto. “I should never have left him...” ripeteva di tanto in tanto piangendo. Ma se le manifestazioni esplicite di tali pensieri erano rare, Clé intuiva come il ruminio nascosto fosse diventato quasi un’ossessione per lei. Dal giorno della ferale notizia la mamma era molto cambiata; aveva perso il brillio della sua vitalità, il suo interesse vivissimo per gli esseri umani in quanto tali, al di là di classi, età, condizioni, lingue, religioni, mestieri, volti, e per le loro vicende.

Il rapporto tra Clé e suo fratello Gentile si poteva dire non esistesse. In quelle fasi della vita cinque anni di differenza fanno oceano, fanno distanze lunari. Con gli altri di casa, ed erano parecchi – l’Ersilia in cucina, suo marito Gino che lavorava alle Poste, ma, come s’è detto, faceva a tempo libero da segretario al dottor Raimondi, le nuove cameriere Bruna e Germana, la governante di Gentile, Beppe il giardiniere, Toppa l’aiuto giardiniere, il Niccolini che veniva spesso a “gettare” in gesso le nuove sculture del babbo, il Bitti che le riproduceva in pietra o marmo (almeno per il primo abbozzo, la mano finale la dava il dottor Raimondi stesso, chiamato ormai da tutti “il Professore”), il Ferranti che le fotografava – i rapporti erano cordiali, ma non avevano nulla a che vedere, né con il tenero amodio dell’Ida, né con l’appassionata convivenza spirituale con Martino e i suoi. Bruciava sempre, in una certa piega dei ricordi, quel terribile “vi s’ammazza tutti”, ma Clé glielo aveva perdonato sinceramente. Senza contare che il mondo aveva preso tutt’altre pieghe; bandiere rosse se ne vedevano ormai pochine in giro, e le minacce alla pace venivano piuttosto dalla parte dei neri.

La scuola per fortuna risentiva ancora poco del regime. Forse agivano, in discreto silenzio, le resistenze di alcuni professori o dei loro presidi. Fin quando Clé rimase presso i Padri Scolopi (fine ginnasio), fu ben chiaro che il mondo dell’istituto e quello di fuori, con le sue camicie nere, i suoi raduni, canti, gagliardetti e via dicendo, erano due territori diversi. Ma neanche il trasferimento a una scuola pubblica per l’inizio del liceo classico, comportò mutamenti radicali. Del resto Clé si occupava di queste cose il meno possibile. Come la bestiale fumata della sigaretta offertagli dal muratore lo aveva vaccinato in eterno contro il fumo, così le sciagurate frasi di Martino lo avevano vaccinato per sempre contro il bacillo politico.

In quegli anni (’26-’29 circa) “fare della politica” poteva soltanto significare lanciarsi nelle attività dei fascisti. Al di fuori di quell’area, per il comune mortale, non esistevano alternative. Bisognava avere delle conoscenze particolari, o cercarsele con qualche rischio, per opporsi di nascosto al regime. Oppure essere nati con la natura dell’eroe per sfidarlo apertamente. Clé restava fuori da ambedue le categorie. Interrogato da qualche amico fidato su queste cose, avrebbe soltanto confessato che i cosiddetti gerarchi gli restavano generalmente antipatici, che erano per lo più ignoranti, vanitosi e rompiscatole.

E qui si presentava un’angosciosa saldatura con gli acuti problemi delle relazioni paterne. Il dottor Raimondi non era certo un fanatico del regime, vi aderì tardi e quasi in sordina, come uno che raggiunge la sua poltrona a teatro con il sipario alzato e cammina in punta di piedi cercando di farsi notare il meno possibile.

D’altra parte era un vero credente – e ciò lo rendeva avversario scomodo e difficile. Le rare volte che parlò con Clé di questi argomenti disse più o meno le stesse cose: “Vedi, io sono un uomo d’ordine, apprezzo la disciplina, la forma conclusa, sia in arte, sia nella vita. Mussolini ci ha salvato dal caos e bisogna essergliene grati. Certo è un uomo pericoloso per il potere assoluto che ha su molti suoi seguaci, ma speriamo non ne abusi. Per ora tutto procede in regola.” E qui faceva notare al figlio il risanamento delle paludi Pontine, le strade, trasformate da tratturi polverosi o fangosi (a seconda delle stagioni) in moderne vie asfaltate e quant’altro.

Un solo ragionamento quasi quasi arrivò a conquistarsi l’animo del ragazzo. “Marx,” diceva il dottor Raimondi, “predica e propugna la lotta di classe, il fascismo cerca di raggiungere una collaborazione di classe, non ti sembra sia un fine più nobile?”

A scuola Clé risultò sempre un mediocre studente. “Fuori”, a casa, nella vita d’ogni giorno, si appassionava a letture, idee, discussioni, si entusiasmava per interi campi dello scibile, eppure per qualche ragione indefinibile non riusciva a sentirsi trascinato dalla scuola, a restare coinvolto nelle sue operazioni. Più tardi, ripensando a quegli anni, capiva benissimo che la colpa non era dei professori, tutti più o meno onesti, coscienziosi, dediti alla loro missione, generalmente colti e competenti, bensì proprio sua, celata nelle pieghe delle molteplici origini e frequentazioni, dei gusti centrifughi, della sua costituzionale irrequietezza che lo avrebbe perseguitato, probabilmente, sino alla morte.

Uno solo, tra i tanti maestri, gli rimase ben scolpito nella memoria, il professor Donadoni, che insegnava storia, con notevoli escursioni in geografia (allora era molto di moda Haushofer, con la sua geopolitica). Un giorno il professor Donadoni accennò alla fossa delle Filippine come massima profondità oceanica e indicò in novemila metri la misura dell’abisso. Clé, che aveva letto pochi giorni prima su un giornale di nuovi sondaggi che la ritenevano profonda almeno diecimilaseicento metri, scattò su con la mano, e – ottenuto il permesso di parlare – disse con fare baldo: “Professore, lei è indietro di mille metri, da poco tempo si sa che la fossa delle Filippine raggiunge...” Il professor Donadoni, invece di adombrarsi, prese il ragazzo in gran simpatia per queste sue indagini extracurriculari; così tra insegnante e discente venne a formarsi una vera amicizia.

Purtroppo la testa di Clé era tutta extracurriculare. Sapeva per esempio che la Luna dista dalla Terra in media trecentottantaquattromila chilometri, e aveva persino un’idea abbastanza precisa di cosa s’intenda per epatta,* nozioni non richieste da alcun programma, ma poi confondeva Enrico IV di Francia con l’Enrico V di Shakespeare, e cose simili, o non riusciva a cavarsela in un passaggio latino di Tito Livio di mediocrissima difficoltà. Bastava che una cosa “si dovesse fare” perché lui non la volesse fare e, pressoché regolarmente, viceversa.

Molto più importanti della scuola furono, nella vita di Clé, i compagni, specialmente l’amico del cuore Rolando, a cui s’aggiunsero ben presto Maurizio e Rinaldo. Gli ultimi due frequentarono la medesima scuola di Clé solo per un breve periodo. Ma non importava; i legami si saldarono vigorosi senza bisogno di appartenere, come si dice in giapponese, “alla medesima finestra”.

Il fatto si spiegava benissimo, considerando che era entrato nella vita dei ragazzi un elemento nuovo di formidabile potenza, capace di plasmare le personalità di chiunque per decenni, per vite intere: la montagna. In nessuno dei quattro casi si trattava (come avviene spesso) di un amore ereditario; quindi c’era tutto il gusto della scoperta individuale, e magari della protesta generazionale. Le prime fughe ebbero luogo sui modestissimi colli e poggi intorno a Firenze (monte Morello, per esempio), ma i solerti giovani erano fierissimi di svegliarsi alle tre di notte, di partire prima dell’alba a piedi, e d’impiegare cinque-sei ore per raggiungere la vetta.

A quei tempi non esistevano davvero le belle scarpe d’oggi, studiate in ogni particolare per le esigenze dei piedi: si compravano delle scarpacce da contadini, di vacchetta, con pesanti chiodature sulle suole. Camminando in città, o sulle strade a macadam di sassi, si produceva un baccano da carri armati. Naturalmente non esistevano giubbotti imbottiti, zaini ben studiati per distribuire pesi sulle spalle e simili, si cercava in casa qualche maglione, una bisaccia da cacciatori, e via.

Rolando e Clé formavano la coppia di base in queste modestissime scorribande, ma spesso s’univano a loro anche Maurizio e Rinaldo. La piccola compagnia, non si sa perché, venne chiamata dai compagni di scuola “i Quattro Feroci”. E loro, come avvenne per i protestanti nel Cinquecento, presero a rimbalzo la critica dizione, gloriandosene.

Con il sopraggiungere dell’inverno gli amici, lungi dallo starsene a casa aspettando la primavera benigna, pensarono bene d’aggredire le montagne, ormai bianche di neve, con gli sci. Oggi sarebbe semplicissimo, ovvio. Ma allora sembravano “idee da matti”. Negozi che vendessero sci a prezzi abbordabili non c’erano; si trattava ancora di attrezzi importati, quindi rari e carissimi.

Qualcuno suggerì loro di rivolgersi al Club Alpino. I ragazzi ne divennero prontamente soci e poterono prendere gli sci a noleggio. Ma in quei tempi preistorici per sci s’intendevano due spatole di legno (per lo più di frassino o betulla), leggermente curve in punta, prive di lamine, quindi quasi inservibili sulla neve gelata o sul ghiaccio. Gli attacchi erano degli elementari congegni di cuoio, con un fermaglio metallico a scatto, inventati ai tempi della prima guerra mondiale dall’austriaco Huitfeldt, di cui portavano il nome. I bastoncini, non ne parliamo, erano dei semplici paletti di faggio con una sorta d’intreccio anulare in cuoio al capo inferiore, perché non sprofondassero nella neve. Mezzi di risalita? Pelli di foca? Ancora di là dall’orizzonte! Se i pendii si facevano troppo ripidi, gli sci venivano caricati in spalla, e su a pompa di cuore e polmoni.

Dopo sei o sette uscite invernali (Vallombrosa, Pietramala, Abetone – in quegli anni nevicava molto più di adesso), Rolando e Clé vollero cimentarsi in “una grande impresa” nell’Appennino tosco-emiliano; partire cioè da Maresca (non lontano dalla stazione ferroviaria di Pracchia), risalire il monte Gennaio e da lì, per creste, raggiungere il Corno alle Scale (che è quasi duemila metri) per scendere poi in Emilia, a Madonna dell’Acero.

Ancora oggi si tratta di una discreta gita sci-alpinistica, ma allora, per due quindicenni privi di vera esperienza, attrezzati in modo primordiale, con una pagnotta e un po’ di formaggio nel sacco, era davvero un piano a rischio eccessivo. Ma le esperienze del cuore furono tali da legare i ragazzi d’amore perduto e supremo per le montagne. La giornata marzolina era ideale, sole, azzurro, neve ancora in ottimo stato, con qualche tratto gelato soltanto sul monte Gennaio. Dove i pendii erano troppo ripidi i due scesero a piedi con gli sci sulle spalle; mancavano però di ramponi, che a tratti sarebbero urgentemente serviti. Calati dal monte Gennaio al passo del Cancellino, era ormai preclusa la via del ritorno; se il tempo si fosse buttato al brutto i due compagni sarebbero stati in serio pericolo. Per fortuna l’arco della giornata procedeva generoso di sereno.

Ormai il sole calava basso, si avvicinava all’orizzonte. Di tanto in tanto i ragazzi si fermavano per respirare a pien’anima bellezze mai viste. Lunghe, quasi tremule, spennellate di rosa solare si distendevano sui fianchi nevosi delle montagne, e lontano si indovinava un orizzonte in cui andavano stratificandosi fasce di cupo paonazzo, di viola sontuoso, un filo di rosa, infine l’azzurro sfumato della volta celeste.

Non occorrevano parole, ma in ambedue era viva l’ebbrezza di trovarsi in luoghi lontani da tutto e da tutti, quasi inaccessibili, affidati soltanto alle loro forze. Dietro le spalle svettava il Gennaio con le sue lastre di ghiaccio, verso l’Emilia piombavano pendii impossibili di gelo mortale, dal lato toscano si scorgevano boscaglie impenetrabili di faggio ceduo, chissà fin dove.

Sali, sali, fu raggiunta la cresta principale dell’Appennino, tra Corno e Cornaccio, proprio mentre il sole rosso e perlaceo si adagiava oltre i monti dell’Abetone, e mentre l’immenso disco pallido del plenilunio s’affacciava dalle cime lontanissime e ignote, a levante. C’era da impazzire, da piangere di commozione! Quanti spettacoli simili e anche più sublimi sarebbero stati visti negli anni seguenti sulle Alpi, e poi in altri futuri lontani ai confini del mondo. Ma questi erano i primi, il primo vero bacio della montagna, dunque comportavano il brivido segreto e profondo della scoperta, della rivelazione.

“Ehi guarda Clé, siamo poco lontani dal rifugio del lago Scaffaiolo!”

Infatti i ragazzi vedevano chiaramente, suppergiù alla loro altezza, una casetta imbiancata dal gelo, posata come un giocattolo proprio sulla cresta spartiacque dell’Appennino. Non restava che salire e scendere per tre o quattro gibbosità minori della cresta: cosa che prontamente fu fatta, nell’ora divina tra sole svanito e notte inondata di luna.

Oggi il Corno alle Scale, e la conca ai suoi piedi verso il lago Scaffaiolo, sono incatenati, come miseri schiavi, dai cavi d’acciaio di seggiovie d’ogni genere, ma allora regnavano solitudini e silenzi sconfinati; era come passeggiare sul tetto del mondo.

Purtroppo, quando finalmente stanchi e affamati i due si trovarono dinanzi al rifugio, scoprirono che era chiuso e deserto. Ma i numi dei monti in qualche modo assistevano gli imprudenti. Cosa avrebbero fatto, se il tempo si fosse guastato? Negli anni successivi i due amici avrebbero imparato benissimo quello che significavano le improvvise tormente nebbiose e nevose sulle più alte creste dell’Appennino, ma allora l’ignoranza li rendeva incoscienti. La calma notte lunare li proteggeva come bambini benedetti.

Rifocillatisi con il poco che portavano nei sacchi, gli amici decisero di calare a valle. Seicento metri di dislivello più in basso doveva trovarsi la famosa Madonna dell’Acero, un celebre santuario circondato da vari casolari perennemente abitati. Scioccamente Rolando e Clé lasciarono gli sci al rifugio, pensando di far più presto calando a piedi per il pendio che si presentava boscoso. La discesa andò bene per qualche centinaio di metri (in alto faceva assai freddo), più in basso però, aumentando la temperatura, i ragazzi cominciarono a sprofondare nella neve fino alla vita. L’avanzata, seppure in discesa, divenne faticosa e lentissima.

Chissà che ora s’era fatta ormai in quel ventre di notte? L’una, le due... Di là da un fossatello i ragazzi notarono all’improvviso delle gigantesche capanne nere. “Ma no, non sono capanne, sono sassi, rupi, pezzi di monte.” “No, no, sono capanne. Andiamo a vedere!”

I ragazzi erano stanchissimi, di nuovo affamati, bagnati fino alle ossa, si trascinarono con gran pena verso il “villaggio della morte”. “Te lo dicevo che non erano capanne!” Infatti si trattava di una gigantesca frana che aveva ammucchiato dei frammenti di monte sopra un terrazzo della valle. Rolando e Clé scovarono una sorta di grotta, abbastanza asciutta, sotto uno dei massi-casa. E vi si rifugiarono.

Riuscirono perfino ad accendervi un fuoco con i rami secchi dei faggi vicini. Finalmente, che soddisfazione, che salvezza! Peccato che ci fosse poco da racimolare sul fondo dei sacchi: qualche crosta di pane, una mela, due o tre prugne. Ma la vita era tornata insieme a una gaia serenità, un senso di sicurezza, e alla gioia di avercela fatta.

Il tempo strabenedetto reggeva. La dolce luna regina piano piano calava in cielo. I ragazzi non avevano neppure più sonno. Ridevano, si sentivano in preda a un’allegria rumorosa. Rolando si bruciò un piede nell’intento sbadato di asciugarsi addosso, avvicinandolo al fuoco, un calzino completamente zuppo. Clé sbatté la testa contro il soffitto petroso della grotta, alzandosi troppo all’improvviso. Ma che importava? I due si sentivano i re della valle, della notte, del mondo. Poi il cielo piano piano sbiancò. Il paesaggio, le misteriose gigantesche capanne nere di sasso andavano perdendo il loro fascino leggendario. Venne il sole e portò realtà e tepore. I ragazzi s’addormentarono vicino al falò.

Soltanto molto più tardi, verso mezzogiorno, raggiunsero Madonna dell’Acero e la casa del Pasquali, il custode del rifugio. Che mangiata di pan secco immerso in ciotoloni di latte, con generose cucchiaiate di zucchero!

Ma non tutte le gite erano così pure, sante e spirituali, vere preghiere all’invisibile, vissute in azione.

Di quando in quando avveniva che i Feroci s’intruppassero con il professor Marcacci, e due o tre dei suoi studenti, in genere ragazzi piuttosto scialbi. Il professor Marcacci avrà avuto una trentina d’anni, era tozzo, muscoloso, bruno di capelli e di pelle (stempiato), fieramente romagnolo, sempre all’erta per deridere “voi toscani dal sangue annacquato”, per scoprire in “voi toscani” debolezze, viltà e compromessi; cosa che provocava prontissimi contrattacchi da parte di Rolando, e – se c’era – di quello sboccatone di Maurizio.

Marcacci insegnava in un altro ginnasio-liceo della città. Come fosse capitato tra i Feroci nessuno lo sapeva. A ogni modo Marcacci era maledettamente simpatico, per quanto fosse un dissacratore dinamitardo di tutto ciò che gli giungeva a tiro di lingua. La montagna gli piaceva, eccome, ma solo se dava occasione a veri festini sulla vetta, seguiti da altri consimili nel ritorno in qualche trattoria della valle, o in un rifugio. Quindi portava (o faceva portare dai suoi ragazzi) sacchi di peso mostruoso, stracolmi di salami, salsicce, prosciutto cotto e crudo, coppa, mortadella, bottiglioni di vino (specie di Lambrusco), pane di vari tipi, formaggi, cioccolato, frutta secca e simili. Doveva essere dotato di stomaco e intestini blindati, perché divorava e tracannava ogni ben d’Iddio senza mostrarsi mai appesantito o privo delle sue energie.

Le dissacrazioni verbali di Marcacci non avevano limiti e suscitavano sempre risate convulse tra i suoi seguaci, che lui (teoria di Rolando) conduceva con sé come coro personale.

C’era per esempio la storia del cazzo di Dio. “Dio ci ha fatti a sua somiglianza, no? Questo sta scritto nero su bianco, ohé ragazzi, nella Santissima Bibbia, che dite, mica sono scherzi! Ma allora vale anche la proposizione conversa: se noi siamo simili a Lui, Lui è come noi. Se A uguale B, anche B uguale A, provate a contraddirmi, eh! Dunque anche Dio possiede tra le cosce e la pancia un bel cazzo, con tanto di palle e contorno forestale di peli. Sarà biondo o bruno Dio? Chissà! Ricerche del futuro chiariranno il punto... Se Dio è uguale a noi, come già dimostrato, ogni tanto il cazzo gli si drizzerà, no? Ah, ah, ora viene il bello, statemi a sentire. Dio non ha mica moglie. Avrà un Figlio per la casa e la colomba dello Spirito Santo in giardino, ma nessuno ha sentito mai parlare della Signora Dio. È vero che un mio scolaro tanti anni fa svolse un tema in cui diceva che la Madonna è la moglie di Dio, ma non dobbiamo lasciarci trascinare in errori dogmatici tanto madornali, eh! Insomma che fa Dio quando gli si drizza? Poveretto è solo. Sissignori, è solo, pensate che sciagura, che tristezza. Allora non gli resta altro da fare. Sissignori, si tira un gigantesco segone. C’è anche chi dice che la Via Lattea sia la sventagliata d’un portentoso getto del suo riverito sperma tra le stelle. E se no, perché chiamarla Via Lattea? Ve lo siete mai domandato? Bisogna pur porsele queste profonde questioni etimologiche, astronomiche, bibliche, fisiologiche, papirologiche, no? Insomma, concludiamo, niente pentimenti o rossori quando vi masturbate, figlioli cari. State unicamente imitando Dio, dunque impiegando il vostro tempo nella più santa e divina delle operazioni possibili.”

Oggi, con tanta severità didattica che regna in giro, forse prediche del genere, anche se parodistiche all’estremo, sarebbero impensabili. Ma allora, almeno nel raggio delle esperienze di Clé, erano fatterelli comunissimi. Nessuno, ma proprio nessuno, aveva mai potuto dire che il professor Marcacci avesse allungato una mano sul suo prossimo, tentando degli intimi contatti epidermici, ma nel gran teatro delle parole si recitavano continuamente commedie e farse altamente itifalliche.

Un’altra storia celebre (un po’ più tarda) riguardante il professor Marcacci, e riferita da uno studente all’ultimo anno del liceo, era questa. Il giovane si reca una sera in un casino (istituzione allora del tutto legale) e s’imbatte nel riverito cattedratico. “Buona sera, professore,” esclama inchinandosi, preso così all’improvviso e di contropiede. Prontissima la risposta del facondo Marcacci: “Lascia stare il superfluo professore, qui siamo tutti porci!” Storia che seguiva il sanguigno romagnolo ovunque come una genuina aureola del saper vivere, e dell’eleganza più giudiziosa di costumi.

* L’epatta è il computo dei giorni trascorsi dall’ultimo novilunio in un anno lunare, e il primo dell’anno nel calendario solare. Esso varia di anno in anno.