5. Una domenica a Torretrusca
Clé, ripensando agli anni sbilenchi e formativi dell’adolescenza, era costretto a riconoscere che i suoi veri maestri, gli incisori di tracce indelebili nella mente e nel carattere, i delineatori di continenti dell’endocosmo, erano stati personaggi al di fuori della scuola.
Per maestri intendeva dunque persone le cui influenze erano state profonde e determinanti, persone che, se fossero mancate, avrebbero lasciato dei vuoti significativi e riscontrabili. Forse, anzi certamente, altri “pieni”, altri maestri avrebbero riempito tali vuoti, ma allora Clé, come prodotto finale, sarebbe stato diverso. Clé era inoltre venuto alla conclusione, magari sbagliata, che un simile processo riguarda la maggioranza dei ragazzi, e presumibilmente anche delle ragazze.
Considerando le cose nella loro fattispecie, come dicono gli avvocati, i maestri di vero primo piano, durante quegli anni, furono pochi: uno lo abbiamo già conosciuto, ed era Ermete Trimegisto, di altri parleremo più avanti: ciascuno fu personaggio fortemente caratterizzato.
Clé non poteva certo dirsi un genio, ma non andava neppure imbrancato con i tonti; fin dal primo incontro quella sera a Villa Raimondi, in occasione della festa scalda-casa, aveva annusato come, nel quadro delle teorie di Weininger (o anche in anni più recenti di Kinsey), Ermete appartenesse in modo ben radicato e perfino sbandierato, all’altra parrocchia. L’impronta era addirittura genetica e si rivelava in una voce particolarmente squillante, nei larghi fianchi e nelle spalle strette, negli arti lunghi, quasi da ragno elegante, nelle mani affusolate e nella pelle glabra. Questi fatti crearono agli inizi molta apprensione in Clé, ma il ragazzo non rilevò mai nell’amico più anziano dei tentativi, fossero pur velati, di attirarlo nella propria orbita sessuale; ben presto quindi le relazioni tra di loro divennero pacifiche, tranquille, reciprocamente gradite, e proficue. Si trattava chiaramente di un rapporto umano caratteristico della specie, in molte società riconosciuto e ritualizzato (Grecia antica, Giappone samuraico, Tibet lamaista e altrove), in altre società rimasto fossile, sepolto, e normalmente avversato. Nell’ambito di questi rapporti un giovane adulto guida, ammaestra, illumina un suo minore con spirito di sollecita fratellanza. Era chiaro che Ermete godeva intensamente di questi rapporti del tutto platonici con i giovani; e ben presto anche Rolando entrò nell’orbita dello sciamano. Con lui Clé commentava: “Probabilmente le segrete tendenze d’Ermete avranno una loro pienezza erotica da qualche parte... Che ne dici? Sarà forse il bell’indiano delle foto?”
Infatti tra Bombay e Firenze correva uno scambio intenso di missive e d’immagini seminude alla greca, con clamidi e sari appena drappeggiati su torsi, spalle e braccia d’oro. Ma questo non preoccupava né Clé né Rolando, era, anzi, la garanzia d’una valvola di sicurezza in azione. Il salto che Clé e Rolando avevano compiuto un paio d’anni prima, da ciò che il senno di poi insegnava loro essere stato un episodio di omosessualità infantile e fisiologica, a una più matura consapevolezza erotica del tutto etero e normale, rendeva particolarmente facile, felice e sicura la frequentazione d’Ermete, specie con la presenza del polo Bombay bene in vista.
La simbiosi spirituale tra Ermete e Clé si realizzava in un travaso continuo di conoscenze, suggerimenti, aperture d’orizzonti. L’endocosmo di Ermete era disordinato, casuale, capriccioso, ma vastissimo, planetario, e governato da un certo istintaccio che lo portava a scegliere, tra mille proposte, quelle più originali e più fertili.
Se Clé rivolgeva gli occhi sul mondo presentatogli dalla scuola, s’accorgeva di godere, da qualche tempo in qua, di ampliamenti festosi, fastosi, illuminanti in ogni direzione. L’endocosmo scolastico era, per esempio, rigorosamente eurocentrico, il massimo dell’ardire consisteva nel nominare Serse o la Sogdiana in relazione alle imprese di Alessandro Magno, oppure le Antille e le Americhe in concomitanza con i viaggi di Colombo e dei grandi esploratori cinquecenteschi. Nella biblioteca di Ermete, sempre a disposizione in modo generoso, si trovavano invece libroni illustratissimi sulle arti e l’architettura dell’India (oh, la scoperta del Taj-Mahal!), sullo Sri Lanka (allora chiamato Ceylon), sulla Cina, sul Tibet, sul Giappone, sull’Indonesia (Barabodur, che visione!), sugli imperi aztechi e inca, sulla preistoria, sulle arti africane (Benin, Gabon) o su quelle della Melanesia e della Polinesia.
I polmoni della mente s’aprivano ai nuovi ossigeni, come avviene a quelli del corpo arrivando sulle vette delle montagne.
D’altra parte si spaziava con gaio impegno per i cieli del mondo moderno e contemporaneo d’allora. Fu dalle parole d’Ermete che Clé raccolse i primi echi di nomi quali Manet, Matisse, Monet, Pissarro, Cézanne, Seurat, Renoir, Mondrian, Munch, Kokoschka, Van Gogh, Picasso, Balla, su su fino a Modigliani, Boccioni e all’architetto Sant’Elia. E di ciascun artista cominciava a identificare stile e personalità attraverso raccolte di riproduzioni. Clé capiva benissimo come si trattasse d’un ripiego, ma intanto familiarizzava con le opere che più tardi si riprometteva di ammirare negli originali.
E la letteratura? Chi gli svelò l’universo russo, se non Ermete? Puškin, Tolstoj, Dostoevskij. O quello francese, Balzac, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé... Tra gli americani spiccò Walt Whitman (certo, certo, anche lui dell’altra parrocchia, ma grandissimo poeta), e poi (chissà come) Jack London. Giunsero perfino echi d’assolute (per allora) primizie, per esempio quelle che riguardavano James Joyce e l’Ulisse. Il trilinguismo anglo-italo-francese di Clé aiutava a capire i testi, e veniva esercitato con costanza, da un virtuoso allenamento mentale.
E la musica? Sì, Gershwin, ma anche Debussy e Vivaldi (che s’andava scoprendo allora), poi De Falla e Stravinskij. In realtà era un guazzabuglio sconfinato e sussultorio, che in negativo incoraggiava il natio tuttismo di Clé, ma che d’altra parte allargava a sempre nuovi pianeti gli spazi del suo sistema solare interiore. In seguito ci sarebbero stati tempo, anni, una vita per mettere le cose in ordine. Importante e fecondo era intanto il Big Bang della mente, la fuga dai borghi provinciali della cultura scolastica del tempo.
In certi momenti, che ormai parevano preistorici, Clé aveva visitato la biblioteca e lo studio di Ermete, non solo per il pane culturale che gli veniva offerto, ma anche nella speranza un po’ sciocca di giungere a qualche vicinanza (non osava neppure pensare al termine “intimità”) con il mistico e mitico personaggio Ursula. Clé, nelle conversazioni con l’amica, aveva scoperto che Ursula aveva seguito un curriculum di studi vago, zoppo, disarticolato; le elementari per esempio le aveva fatte in Maremma, tra italofoni agricolo-pastorali, in seguito aveva frequentato delle medie imprecisate presso una scuola internazionale poliglotta a Losanna, esperienze varie che le davano una personalità simpaticamente composita, ora portata alla francescana semplicità campagnola, ora a isolati contatti con le aiuole delle più squisite e recenti finezze europee.
Clé apprese inoltre che Ursula aveva letto e apprezzava alcuni grandi poeti inglesi (Blake, Keats, Shelley...), ma ignorava completamente (salvo Carducci) quelli italiani. Quando Clé le lesse in giardino, seduti sull’erba al rezzo d’un tiglio:
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Ursula gridò: “Ma che meraviglia! Stupendo! Dove l’hai scovato? Continua, continua, leggi ancora, caro!” Clé ebbe per un attimo la sensazione inebriante d’avere in qualche modo toccato i sentimenti di Ursula, anche se l’entusiasmo era tutto per san Francesco, non per il compagno lì vicino.
Il bilinguismo anglo-italiano avvicinava parecchio Ursula e Clé, ma i rapporti tra la giovane e il ragazzo erano disperatamente freddi. Molto spiccato in Ursula era un senso pragmatico e realistico della vita. In quel periodo, volendo fare un esempio, seguiva dei corsi abbastanza seri per diplomarsi come infermiera. Un giorno disse chiaramente a Clé: “Sai, io mi sento nata per fare la mamma. Sogno casa, bambini, magari anche l’orto... Forse qualche ora la passerei di quando in quando nello studio per scolpire un ritratto, ma per divertimento e basta. Ce ne sono già troppi d’artisti in famiglia!” Intanto guardava Clé dall’alto dei suoi ventitré anni con occhi celesti e gelidi, come dire: “Piccolino non t’illudere, non sarai tu l’inseminatore che cerco!”
Da allora, o all’incirca da allora, Clé comprese che il suo puppy love per la splendida sorella di Ermete era interamente privo di senso e di speranze. Ormai quando si recava a Villa Morgen era soltanto per trascorrere del tempo con Ermete, e magari con altri amici del gruppo, conversando di cose interessanti, per prendere libri in prestito o restituirli, per ascoltare musica, per progettare gite, visite a mostre, musei, gallerie, ville, castelli...
* * *
Un giorno di tarda primavera Ursula chiamò Clé al telefono. La sua voce squillante all’altro capo del filo fu una scossa deliziosa per il ragazzo (che ci abbia ripensato ai suoi rapporti con il “piccolino”?). Ursula parlava a Clé in modo inaspettato, più soave del solito, sembrava emozionata. “Senti caro,” diceva, “venerdì prossimo andiamo tutti per il fine settimana a Torretrusca... Che ne diresti di aggregarti alla compagnia? Finalmente ti potremmo mostrare uno dei posti più fascinosi, se non del mondo, certo della Toscana.” Clé non ebbe bisogno di pensarci due volte, disse subito di sì.
“Avverti anche il tuo amico Rolando e magari Maurizio e quel simpatico di Rinaldo,” aggiunse Ursula prima di interrompere il contatto. “C’è posto per tutti laggiù. Vedrai che passeremo due giorni splendidi. E non dimenticare macchina fotografica e costume da bagno. È la più bella stagione dell’anno laggiù. Ciao, ciao.” Clé si mise subito in cerca degli amici: Rolando e Maurizio potevano venire; Rinaldo fu spiacente, ma aveva ormai altri impegni.
Maurizio Pacini, coetaneo di Clé e di Rolando, era il maggiore di quattro o cinque figli appartenenti a una famiglia di proprietari agricoli del Pistoiese. I genitori vivevano quasi tutto l’anno in campagna. Per quanto visibilmente benestanti, sembravano privi di qualsiasi interesse culturale. Si godevano la loro villa ampia e vecchiotta, in famiglia chissà da quante generazioni, seguendo un ritmo georgico di arature, semine, raccolti, spartizioni, vendite, conservazioni giudiziose di quanto restava nelle ampie cantine e nei vasti magazzini. “E una vita eminentemente trofica, bulimica,” scattava Maurizio, parlando dei suoi, “non fa per me!” Maurizio era alto, grosso, possente, bruno di capelli, piuttosto aggressivo, dava dei pareri sempre ben chiari; sì, oppure no. Mai forse.
Fornito di una intelligenza fuori del comune, era spinto costantemente avanti da una grande ambizione, unita a una curiosità vorace. Per sua fortuna il fato gli stava preparando da lungo tempo il cammino. Uno zio celibe, morto alcuni anni prima, aveva lasciato in casa una collezione ben classificata di minerali della zona (vi primeggiavano le serpentine di Bientina), nonché un erbario voluminoso del Pistoiese, con migliaia di piante seccate con cura, appuntate su fogli di bella carta fatta a mano, con tanto di cartellini indicanti famiglia, genere e specie dell’esemplare, nonché notazioni precise sulla data e sul luogo di rinvenimento. Già a dieci o dodici anni Maurizio sapeva distinguere l’una dall’altra moltissime crocifere, composite o labiate maledettamente simili tra di loro, tutte chiamate dai contadini del luogo semplicemente “fiore”. Fin dal ginnasio la cultura mineralogica e botanica di Maurizio poteva dirsi di buon livello universitario.
“Dove andiamo?” chiese Maurizio per telefono a Clé, quando si parlò dell’invito di Ursula. Naturalmente Maurizio aveva a portata di mano una carta particolareggiata della zona, dell’Istituto Geografico Militare, e capì subito dove si trovava Torretrusca. “Ma guarda che caso fortunato,” continuò dopo qualche momento per telefono, “siamo a due passi dal monte Calvi! Dunque vicinissimi alla piccola zona dove alligna uno dei più singolari endemismi della flora toscana, la Bivonaea Saviana! Voi fate quello che vi pare, ma io vado in gita al monte Calvi per raccogliere qualche esemplare della Bivonaea, che tra l’altro mi manca in erbario...” “Dillo a Ursula,” ribatté leggermente seccato Clé, “è lei che dirige la spedizione... Sai come sa essere marescialla, quando vuole, la nostra amica, anche se sembra una fatina...”
Quel tardo pomeriggio d’un venerdì primaverile, andarono convergendo su Torretrusca vari veicoli, con diversi personaggi.
Nella vecchia Fiat decappottabile di Aldo Morgen (targata Firenze 675), riverniciata capricciosamente d’un giallo girasole, viaggiavano Aldo stesso e Ursula con l’amica Gisella. Quest’ultima era una magra e muscolosa triestina, bruna di capelli, campionessa di sci, estremamente simpatica, “positiva in tutto” come proclamava con orgoglio quasi possessivo Ursula, che l’aveva scoperta durante una gita invernale a Corvara, nelle Dolomiti.
Gisella però aveva altre ragioni per visitare Firenze. Sua madre, la signora Sjöberg, di origini ebraiche, ma fervente (troppo fervente) convertita cattolica, era riuscita (cosa molto difficile a quei tempi) a farsi annullare il matrimonio con il padre della fanciulla, riconvolando a belle nozze con un alto, magro, elegante svedese, favolosamente bello e favolosamente ricco. La coppia viveva in una villa di gran prestigio sui colli intorno a Firenze, e Gisella, che era in ottimi rapporti con ambedue i genitori, veniva spesso a stare con la madre nella sua dimora tra tigli e cipressi.
Sulla Scat di Ermete, vecchia, rattoppata, rumorosissima (targata Firenze 1081), viaggiavano Clé e Sonya, una delle sorelle di Eudossia Ouspensky, la fidanzata russa dell’ingegner Fabrizio. Al volante stava il sempre imperturbabile Bellindo, perché Ermete non amava guidare sui lunghi percorsi. È vero che il tragitto poteva dirsi del tutto tranquillo, trattandosi di raggiungere, da Firenze (l’allora) paesino di San Vincenzo, sulla costa toscana, poco a sud di Cècina (in tutto novanta chilometri circa), ma a quei tempi le strade non erano davvero quelle di oggi, poche erano asfaltate, le segnalazioni apparivano solo qua e là, i distributori di benzina cominciavano appena a diffondersi (il carburante costava circa una lira per litro).
Di Ulisse Mainardi non abbiamo ancora parlato. Faceva decisamente parte del gruppo, anche se non veniva annoverato tra i Quattro Feroci. Della sua famiglia i ragazzi sapevano pochissimo, anzi nulla. Mai che fossero stati invitati a casa Mainardi, mentre le riunioni nelle ville Morgen, Raimondi, Sjöberg, nelle case Wissler, Pacini e d’altri ancora costituivano un giro, anzi una girandola perpetua. Ulisse aveva un anno o due più degli altri.
Era un biondino di corporatura regolare, tendente al magro, molto più forte, vigoroso, resistente di quanto si sarebbe detto guardandolo di sfuggita. Su roccia si arrampicava con sicurezza ed eleganza, ma non sciò mai bene, e questo forse lo teneva lontano dai più fanatici Feroci.
Le fattezze del volto erano irregolari, curiose, interessanti. La natura l’aveva più cesellato che scolpito. Con Lorenzo de’ Medici e Voltaire, stava a metà strada tra gli incantevoli e i brutti. Non parlava mai, se non aveva qualcosa da dire. I suoi interventi erano sempre azzeccati in modo sorprendente. In compagnia funzionava da enzima, da lievito mentale. In più Ulisse era un po’ come la coscienza del gruppo; chissà dove teneva una specie di diario comunitario, perché conosceva sempre date e luoghi degli eventi principali che riguardavano tutti – senza contare il suo quaderno in cui annotava accuratamente i testi dei canti adottati dal coro.
Come sempre l’ingegner Fabrizio, che aveva insistito per aggregarsi al gruppo, forse perché pregustava il piacere di mostrare alla fidanzata Eudossia la gran torre di famiglia, era attrezzato meglio di tutti. Guidava infatti indossando guanti di pelle una snella Lancia Lambda rossa, decappottabile, lucida, nuova, targata Milano; bastava la minima pressione del piede sull’acceleratore perché il motore frullasse con meccanica allegria producendo un rumore quasi musicale, diverso da quello di tutte le altre macchine del tempo. Con l’ingegnere viaggiavano Eudossia e la sorella Natascia.
Le tre sorelle Ouspensky avevano questo di bello, che sembravano uscite tutte da un medesimo stampino famigliare. Bisognava frequentarle più volte per imparare a distinguerle l’una dall’altra. Erano nate con gli stessi capelli lisci e castani, con la medesima pelle ambrata che bruciava in modo perfetto al sole; si pettinavano allo stesso modo, spesso vestivano in fogge poco diverse tra di loro. Sì, Eudossia era più magra e scattante, Sonya un po’ più in carne e tranquilla, Natascia più piccolina e misteriosa, però occorreva un po’ di tempo per accorgersene.
Quel venerdì le tre ragazze comparvero, senza alcuna posa, con indovinatissima sensibilità diciamo ecologica, come delle contadinelle ucraine; fazzolettoni colorati in capo, camicette chiare, gonne ampie e fiorite.
Clé non era mai stato a Torretrusca. Ne aveva sentito parlare moltissimo, fin dalla prima visita a Villa Morgen. Passato San Vincenzo, l’attesa di scoprire la torre con gli occhi divenne per il ragazzo quasi spasmodica. Parlando di quei posti occorre ricordare che solo alcuni luoghi al mondo hanno subito più drastici e drammatici mutamenti, dai primi decenni del secolo a oggi. Una volta i centri abitati erano rari, e le strade per raggiungerli erano di transito disagevole, percorse da pochi.
Centinaia, migliaia di chilometri di costa, erano totalmente, o quasi, vergini. San Vincenzo, oggi una cittadina, con numerosi semafori e code pesanti di traffico, era un modestissimo borgo di pescatori privo di qualsiasi segno delle frenesie che adesso lo attanagliano da ogni lato. Lasciato poi San Vincenzo, si percorreva una stradina sterrata, del tutto primitiva (buche, sassi, erbe) che s’inoltrava, a uso di pochi contadini, pastori o gente di mare, tra pinete e disordinate macchie alla mediterranea. Ben presto, tra i tronchi dei pini, s’indovinò in distanza il mare, una spiaggia deserta, interminabile.
“È la porta della Maremma!” esclamò Ermete, rivolto a Clé. “Ormai siamo vicini.”
“Eh no, sor Corrado,” osservò Bellindo, guidando quasi a passo d’uomo per non sciupare la macchina, “ai tempi del sor Bille si poteva chiamare davvero la ‘porta della Maremma’, ma oggi dov’è la Maremma? Tra bonifiche, strade, canali, piantagioni, nuovi poderi con le loro case, da queste parti la vera Maremma non c’è più. Forse verso Grosseto, o più giù ancora, chissà? Io ricordo ancora quando si lasciava la macchina a San Vincenzo, e ci venivano a prendere da Torretrusca con i cavalli. Quelli sì ch’eran tempi! Ma lei non se ne può ricordare, non era ancora nato...”
Il viaggio continuò per una mezz’oretta lungo la stradina: a un certo punto la pineta cominciò a diradarsi, il mare era ormai vicino, se ne annusavano gli odori forti e penetranti, e gli orecchi percepivano il suo vasto respiro. Era una giornata di calma quasi completa, però da lontano, chissà da quali tempeste di là dall’orizzonte, giungevano delle onde lente, lunghe, pesanti, stanche, che, cadendo infine morte sulla spiaggia, esalavano un ritmico e fragoroso ciaff.
“Ecco la torre!” esclamò Ermete. “Che te ne pare, Cle? Io ogni volta che arrivo qui sono commosso.”
Clé non rispose. Guardava. Ammirava incantato. La vista non corrispondeva però all’immagine che s’era fatto del luogo attraverso le foto. L’edificio era più grande del previsto, d’un colore differente. Gli piacque subito il fatto che nulla sembrava essere stato intrapreso per agghindare, trasformare, abbellire la costruzione.
Fu, e restava, un’immane torraccia di guardia costiera, con finestre piccole piccole aperte nelle muraglie di ragguardevole spessore. Intorno erano state aggiunte, in tempi più vicini a noi, varie casupole minori, depositi, stalle, magazzini. L’insieme fece venire in mente a Clé una gigantesca chioccia, mentre cova le sue uova, circondata da una folla di pulcinotti.
Il mare giungeva fino nelle viscere della torraccia: infatti un canale d’un centinaio di metri metteva in comunicazione l’edificio con la tranquilla baia lì davanti, sparendovi sotto, a mezzo d’un arco largo e basso. Un modo per portare delle piccole barche da pesca fino “in casa” durante la notte, o nelle giornate di tempesta?
L’interno disponeva di meno spazio di quanto si sarebbe potuto immaginare, essendo le mura molto spesse: ci si sentiva in un fortilizio fatto per resistere a palle giganti di granito lanciate da qualsiasi galeone ancoratosi lì di fronte, nel mare. Una bella sala luminosa, con ampie finestre, era stata creata sfruttando molto abilmente una delle casupole appoggiate alle basi della torre.
Un passaggio nelle annose muraglie formava la porta d’ingresso alla sala; in un istante si aveva la sensazione di saltare oltre secoli di tempo. Alle spalle cunicoli, scalette, passaggi a gomito, stanze oscure illuminate appena da feritoie; dinanzi un vasto soggiorno accogliente, con le pareti sottili delle case moderne, con molte finestre, e con vista sul mare. Proprio lì era ormai radunata buona parte della compagnia invitata per il fine settimana a Torretrusca. Alcuni ospiti erano fuori, lungo la spiaggia, o sui bordi del canale, perché il sole stava ormai tramontando in barocco splendore sul mare, tra festoni dorati di nubi a riccioli, quasi davanti alla torre, e volevano godersi in pieno lo spettacolo.
Clé, curioso come sempre, era tornato all’interno della torre, un po’ per godersi la vista di quelle muraglie nuragiche, e un po’ (ma se lo sarebbe confessato?) sognando un incontro improvviso con Ursula, la regina di quei penetrali. Non si udivano voci. Clé s’avventurò su per una scala ripida e stretta che pareva scavata nello spessore stesso di una delle muraglie. Silenzio totale. Odore di vecchio, di stantio. La scala sorpassò due o tre volte dei piccoli ripiani, con ingressi di corridoi orizzontali.
All’improvviso Clé capitò dinanzi a una porticina di legno dalla vernice scrostata; spinse, per capire dove fosse arrivato, e si trovò sulla grande terrazza di copertura della torre, limitata all’intorno da un rozzo muretto, con panchina in basso e merli guelfi senza pretese in alto. Che stupore, che meraviglia! Il sole era appena tramontato. Le nuvole di prima si erano distese a coprire quasi tutto il cielo, trasformandosi in un soffitto oscuro e spento. Solo all’occaso restava aperta una smisurata finestra orizzontale di luce, tra rosea e cilestrina, divisa a metà da un mare vivissimo nei suoi tremuli chiarori. Oh, se Ursula fosse capitata anche lei lassù! No, non esistevano speranze d’alcun genere, Clé lo sapeva benissimo, eppure tenerle la mano, starle vicino, e guardare tutto questo con lei, non sarebbe stato un riposo miliare nel tratturo della vita?
Faceva freddo. Una tesa brezza spazzava la terrazza. Clé tornò giù per le scale. Arrivato al piano rialzato del salone, udì delle voci concitate e delle risate di donne, provenienti non si capiva bene da dove. Scese ancora dei gradini, ed ecco un breve corridoio che conduceva a una grandissima cucina a volta, scavata nelle viscere più profonde della torre. Ursula era lì, insieme a due o tre altre donne del posto, in gran subbuglio per i preparativi del cenone da servire più tardi agli ospiti. Ursula era vestita da massaia e stava girando con piglio deciso un grosso ramaiolo di legno dentro un pentolone di metallo smaltato, colmo di minestra fumante odorosa di spezie.
“Dove sono quelli della moto, eh? Lo sai che non sono ancora arrivati?” fece Ursula senza tanti preamboli, appena s’accorse della presenza di Clé in cucina.
“Fuori è buio, è già notte,” continuò, “non te ne sei accorto? Allora che amico sei, eh? Non ti preoccupi per nulla di Rolando? Eppure siete sempre insieme!” Ursula andava accalorandosi, pareva veramente inferocita; meno male che la sua voce vibrante, impareggiabile, rendeva meno sferzante il senso delle parole. “Vai su, mettiti d’accordo con Ermete o con Aldo, con qualcuno, e andate incontro ai ragazzi. Se fosse successo qualcosa? Perché Rolando non è venuto con noi? Quell’Ulisse con la sua moto sarà bravo finché vuoi, ma nessuno lo conosce bene...”
Clé scappò di corsa al piano di sopra a cercare Ermete, per organizzare una “spedizione di soccorso”, o qualcosa di simile. Intanto sentiva esplodergli in cuore una strana certezza, che gli fermentava nel segreto da qualche tempo, senza che avesse mai osato esprimerla a parole. Quando Ursula gli aveva detto: “Ma che simpatico quel tuo amico Rolando, ricordagli di farsi vedere un po’ più spesso!” Clé aveva dato alla frase della giovane donna il suo valore immediato, di superficie, senza preoccuparsi in alcun modo. Ma ora, due e due facevano quattro, quattro e quattro facevano otto, non era più possibile chiudersi in un castello di sogni. Ursula era per lo meno attratta da Rolando. Ma perché Rolando non gli aveva detto nulla? Forse perché si trattava ancora di una fantasia senza consistenza?
Clé s’imbatté nel vano d’una porta in Ermete.
“Dài Ermete, andiamo a cercare i motociclisti.”
“Saranno stati fermati da una gomma a terra, che vuoi che sia... Ma insomma, andiamo. Fabrizio mi presta la sua Lambda. Prendi una giacca, che è sceso un fresco improvviso...”
La Lambda partì subito con il suo rombo mellifluo, ma Ermete non la sapeva guidare; ora la spingeva troppo, e rischiava di portarla fuori strada, ora andava a passo d’uomo. A metà dei dieci chilometri di stradino tra la torre e San Vincenzo, si notò in distanza il tipico faro d’una moto, con le sue vibrazioni irregolari, e con le sue virate da destra a sinistra, e viceversa, causate dalle brutte condizioni della strada e dagli sforzi del guidatore d’evitare buche o fossetti.
“Eccoli, vedrai che sono loro!” esclamò Ermete, con l’aria di sottolineare: “Hai visto, te lo dicevo!” Infatti erano loro. “Ma cosa è successo, come mai tanto ritardo?” chiese Ermete dalla macchina. “Nulla, ma nulla! Soltanto una maledetta gomma, vicino a Volterra...” rispose Ulisse. Così la piccola processione riprese il cammino verso Torretrusca. All’ultimo chilometro Ermete accelerò un poco per presentarsi prima tra parenti e amici, avvertendo che i motociclisti stavano arrivando, e che non c’era da preoccuparsi.
Ormai era notte davvero. Il piazzale, piuttosto ristretto, dinanzi alla torre, si presentava illuminato da una sola sfacciata lampada elettrica. La Lambda dell’ingegnere venne rimessa al suo posto e arrivarono i motociclisti. Appena furono sul ghiaino del piazzale, Ursula “esplose” dalla porta correndo verso i due amici: “Oh, ma siamo stati in terribile pensiero per voi. Due ore di ritardo sugli altri, cos’è successo?” Seguirono le spiegazioni rituali riguardo alla difficoltà di riparare le forature nel caso di una moto, e tutto si concluse nel più tranquillo dei modi. Ulisse e gli altri che si erano affacciati per salutare i dispersi rientrarono in casa. Clé rimase indietro, forse nell’ombra. Quando Ursula e Rolando furono sulla soglia della porta si abbracciarono strettamente, accostandosi guancia a guancia, come dire: “Ah, meno male, sei salvo!”
Ma ci fu un particolare che Clé non avrebbe mai potuto cancellare dalla memoria: la mano di Ursula, per un istante, avvolta sulla nuca di Rolando. Le dita erano come petali d’un grande fiore, o come artigli? Difficile dirlo.
Rimandare, rimandare. O scappare? Per il momento Clé si sentiva completamente svuotato, afflosciato a terra come una di quelle gommacce luride che possono interrompere anche la gita più meravigliosa.
Clé prese parte al cenone maremmano, dodici amici riuniti attorno a un gran tavolo ovale, ma spiegò il suo umore catatonico dicendo d’avere un forte mal di testa. Fu Ursula ad avvicinarlo carezzevolmente, a dargli un paio di pillole e un bicchier d’acqua e a spedirlo prima degli altri a dormire. Clé fu davvero felice che gli fosse stata assegnata una stanzina da solo: più che una stanza era una cella monastica, con un’unica finestrina che sembrava un telescopio, visto lo spessore del muraglione in cui era stata aperta. Clé trovò la sistemazione graditissima. Voleva stare un po’ solo, riflettere.
In linea generale aveva già deciso. Adombrarsi sarebbe stato sciocco; cercar rivincite grottesco. Il caso, i temperamenti, magari le costellazioni, avevano così voluto; occorreva rassegnarsi. “Ma Rolando non è il tuo migliore amico? Certo, pensa allora se Ursula si fosse concessa al tuo peggior nemico! Meglio, mille volte meglio così.” Senza contare che Clé portava nel suo impasto endocosmico, forse derivato dalle sue lontane e ignote radici polacche, un certo amor romantico per i bei gesti. Trarsi da parte di fronte all’amata, perché lei t’aveva preferito l’amico del cuore, situava la vicenda in una saga di tempi andati. Era come partecipare a un torneo medievale. Restava una sola incognita: come sarebbe andato il reincontro con Rolando “dopo il torneo”?
Andò benissimo. La prima volta che si trovarono soli fu nella casa di campagna di Rolando vicino a Firenze. I due ragazzi si abbracciarono in silenzio. Rolando aveva le lacrime agli occhi: “Non te lo dovevo fare...” mormorò sottovoce. “Ma va’ via, bischeraccio!” rispose Clé ridendo. “Semmai è lei che ci gioca come pedine. Andiamo giù a brindare alla tua fortuna...”
I ragazzi scesero in cucina (erano soli in casa), brindarono diverse volte alle fortune amorose, agli occhi di Ursula, alla sua voce, al futuro, alla vita, e a tante altre cose ancora, fin quando crollarono mezzi rincitrulliti su due sofà del salotto.
Ma torniamo a Torretrusca. La mattina ci fu la sveglia alle sei. La proposta di Maurizio di fare tutti una gita al monte Calvi, per cercare nei dintorni della cima (seicentocinquanta metri appena) una piantina molto rara era piaciuta ed era stata unanimemente accettata.
Alle sette colazione, alle otto partenza. Percorso un tratto pianeggiante, poi di bassa collina in macchina, la salita finale venne fatta a piedi. Una larga mulattiera s’inerpicava gradualmente tra boschi di querce, per lo più di taglio ceduo, ma non senza qualche bella pianta annosa con il tronco tappezzato di licheni.
A quei tempi si usava ancora moltissimo nelle case, sia campagnole che cittadine, la brace; serviva, come oggi serve il gas, o cittadino o di bombola, per cucinare. Si vedevano quindi dappertutto tra le montagne piazzole circolari per le carbonaie; s’incontravano squadre di boscaioli e di carbonai, carovane di muli e quant’altro. In questo senso l’invenzione e la diffusione del gas liquido ha influito moltissimo sui paesaggi appenninici. Il ceduo, l’albero che veniva mantenuto piccolo per farne brace, non ha più ragione d’esistere, i boschi sono quindi cresciuti, le piazzole delle carbonaie sono sparite, le mulattiere sono state quasi cancellate, gli uomini sono discesi a valle, il loro posto lo vanno prendendo i cinghiali.
Clé stava sulle spine. Come si comporteranno Ursula e Rolando? In fondo era una preoccupazione sciocca, sia perché nessuno, o quasi, poteva essere al corrente dell’infatuazione di Ursula per Rolando, sia perché a quei tempi, a differenza d’oggi, le simpatie amorose, anche forti, non si dimostravano coram populo; neppure in un gruppo di persone singolarmente aperte e rivolte al futuro.
Ursula fu squisita, sembrava quasi avesse un’intesa segreta, non menzionata, con Clé. Divise le sue attenzioni tra tutti i suoi giovani amici.
La parte del leone, piuttosto, la fece Maurizio, specie quando sollevò in alto una misera crocifera, dal fiore mingherlino e dall’apparenza umile e frusta, gridando: “Finalmente! Eccovela, la Bivonaea Saviana!” E subito aggiunse: “Ma non ne prendete altre, tanto, lo vedete, dà poca soddisfazione. È bruttina, ma è un gioiello botanico che va protetto!”