6. “Andiamo sulla Secchiéta!”
Clé non veniva mai consultato, e in genere neppure avvisato, delle cose riguardanti la famiglia o l’andamento di casa. Gli eventi avevano luogo e basta. Non restava che registrare i fatti compiuti, e magari sorprendersi, oppure fare finta di nulla.
Fatto sta che un bel giorno, tornando a casa in bicicletta da scuola, dal liceo, Clé trovò seduto al tavolo per la colazione un personaggio inaspettato. Il dottor Raimondi era fuori, quindi fu la mamma a fare le presentazioni in modo del tutto informale: “Oh dear, this is Mademoiselle Denise... Parlerete francese con lei, vero? Sono sicura che andrete d’accordo!”
Sembrava inteso che Denise dovesse occuparsi del fratellino Gentile di dieci anni, però le conversazioni francesi riguardavano anche Clé. Da quando Phyllis aveva lasciato i Raimondi per sposare il suo giovane diplomatico inglese, il posto di governante era rimasto vacante. Parecchi segni sembravano indicare che Denise dovesse essere l’ultima della serie.
Lì per lì Clé fu piuttosto contrariato da questa inaspettata addizione al popolo di casa. “Uffa,” pensò, “meno libertà, più sguardi addosso, poi anche il francese... Va bene la cultura, ma c’è già tanto da studiare a scuola, e per la scuola, e fuori di scuola, come fare?”
Dopo qualche settimana però, non si sarebbe potuto dire in che modo avvenisse, Denise e Clé cominciarono a trovarsi abbastanza bene insieme e passarono dal formale “Lei” al più confidenziale “Tu” (non però in francese, lingua in cui il Vous restava sovrano).
Denise veniva da un lembo periferico d’Italia ed era naturalmente bilingue. Confessò prestissimo a Clé, ridacchiando in maniera nervosa, di nutrire ambizioni letterarie, e che era quindi felicissima d’aver trovato un’occupazione a Firenze, città di cui si faceva evidentemente un’immagine molto idealizzata. Denise teneva con sé una valigiona arcaica di pelle giallastra, nella quale nascondeva dei quadernotti d’un tipo mai visto, rilegati come libri e muniti d’una chiusura a chiave resistentissima, all’interno dei quali annotava ogni giorno diligentemente chissà cosa (appunti per futuri romanzi? Abbozzi di poesie? Pensieri volanti? Note, per così dire, di viaggio?). Clé moriva dalla voglia di esplorare i segreti quaderni, ma Denise, così pronta a spingersi in fuori per certe cose, da quell’orecchio proprio non ci sentiva.
Denise aveva ventitré o ventiquattro anni (otto più di Clé all’incirca). Era alta, magra, nera di capelli, che teneva raccolti in una crocchia ordinatissima sul collo, ma candida di pelle. Era decisamente brutta, aveva nell’insieme un aspetto qualificato in segreto da Clé come “cavallino”; il naso era troppo lungo, la bocca era fatta male, buttata là quasi a caso dal Creatore, il mento era troppo pronunciato.
D’altra parte era allegrissima, sempre pronta a cogliere il lato buffo o paradossale delle cose, a prendere in giro anche se stessa, quindi restava in generale molto simpatica. Il responso del popolo di casa (l’Ersilia con il marito, la Bruna, la Germana) era del tutto positivo: “Meno male la ’un si dà dell’arie,” aveva sentenziato l’Ersilia, corte casalinga di Cassazione in tutto. Certo, vestiva spesso in modo strambo, accozzando il ricercato (per esempio le scarpe) con il trasandato (per esempio una giacca spaiata da tailleur), ma Clé ovviamente non ci badava.
Gli argomenti su cui Clé e Denise ritrovavano terreni comuni erano parecchi, innanzitutto la montagna. Denise non aveva mai fatto del vero alpinismo, era nata però in un’alta valle e aveva spirito di rispetto e d’amore per cime, creste, passi, ghiacciai e simili. Spesso parlava d’una sua amatissima baita del Prà, non si sapeva bene dove fosse, ai piedi di rupi che sembravano, dai suoi discorsi, favolose e del tutto inaccessibili. Clé era arrivato alla montagna come ribellione al regime domestico, quindi viveva tutto ciò che la riguardava con la passione un po’ fanatica del convertito.
Poi ci furono le scoperte d’alcuni libri e d’alcuni autori. Denise era innamorata di vari scrittori, per lo più triestini, di cui Clé non aveva mai sentito parlare; per esempio Scipio Slataper, autore de Il mio Carso. Benché Slataper fosse morto, poveretto, appena ventisettenne nel 1915, in guerra, Denise lo citava spesso come “Scipio”, quasi fosse vivo, quasi un amico nella stanza di là. “Scipio ha detto... Scipio scrive...” La cosa era per un po’ commovente, ma ogni tanto irritava Clé come un’affettazione inutile, e lo rendeva anche un po’ geloso.
Un pomeriggio Clé notò Denise seduta sull’erba secca per l’alido della calura estiva, all’ombra leggera d’un ulivo, mentre si concentrava su di un libretto.
“Il solito Scipio?” chiese Clé, come svegliando la fanciulla da un incanto.
“Ah Clé... Già, sì... Tu che ami la natura dovresti conoscerlo a memoria.” E passò a leggere ad alta voce:
“Correvo con il vento espandendomi a valle, salendo allegramente i muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante. Risbalestrato da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno, risbalzavo in uno scatto furibondo e rumoreggiavo nella foresta come un fiume che scavi il suo letto. E dischiomando con rabbia l’ultima frasca ostacolante, ne piombavo fuori, i capelli irti di stecchi e di foglie, stracciato il viso, ma l’anima larga e fresca...”
Clé era rimasto molto colpito. Quel diavolo di Scipio la natura la capiva! Erano esattamente le cose che Clé aveva provato tante volte con Rolando, impazzendo da indiani dell’Amazzonia nelle selve di Montepìlleri. “Dischiomando con rabbia l’ultima frasca ostacolante... i capelli irti di stecchi e di foglie...” Sì, sì, anche noi, Rolando e io... E vero, è vero... È un mago! (Clé aveva già raccontato a Denise vita e miracoli dell’amicissimo Rolando.)
Nei giorni seguenti Clé passò in libreria e si comprò una copia de Il mio Carso. Ne sottolineava i passaggi che lo colpivano, come faceva Denise.
“Nel bosco rimparai a pregare. Dicevo: ‘Dio voglimi bene; Dio voglimi bene.’ Una volta mi buttai per terra e piansi a lungo.”
Ah, quello Scipionaccio inimitabile, tutte le capiva, anche il bosco come chiesa!
Denise abitava nella torretta della villa, quella che era stata ai tempi dei contadini la piccionaia. La stanza, abbastanza grande, e con vista gradevolissima sulle campagne vicine, verso sud, e su Firenze stessa nella coppa dei suoi monti verso nord, veniva raggiunta risalendo una ripida scaletta di legno, maledettamente scricchiolante. Clé, che ormai conosceva tutti i segreti della casa nuova e del campo con boscaglia che la circondava, aveva imparato che salendo scalzi lo scricchiolio veniva quasi del tutto eliminato. Così, con forte batticuore, pensando che la fanciulla potesse urlare o rispondere con qualche reazione imprevista, Clé, una mattina verso le sei, ora mirabilmente tranquilla in tutto l’edificio, era salito trattenendo il fiato, e scalzo, con Il mio Carso in mano, per rivivere insieme a Denise gli entusiasmi di alcuni passi sottolineati del libro. Denise era già sveglia, stava seduta a letto prendendo degli appunti in uno dei suoi misteriosi quadernoni, e stranamente non sembrò per niente sorpresa o allarmata. Anzi parve a Clé d’esser capitato lassù al momento giusto.
“Clé,” fece Denise alzando gli occhi dal quadernone, “sai per caso cos’è il Secchiéta?”
“Vorrai dire ‘la’ Secchiéta! È una montagna di quasi millecinquecento metri a venti-venticinque chilometri da qui. Ci sono stato tante volte!”
“Ah, la conosci? Meraviglioso! Ieri sera ne leggevo... Scipio ci dev’essere salito quand’era qui a Firenze nel ’12. Che dici, è un po’ un Carso fiorentino?”
“Be’, il Carso non so, io lo vedo tutto buche e grotte... La Secchiéta invece è un gran dorso rotondo circondato da faggete. Gli sarà presa nostalgia di montagne, a Scipio.”
“E ci dev’essere stato d’inverno, perché parla di neve, dice che ‘è dura e crocchia, come ossi fra i molari d’un cane’...”
“I soliti paragoni stupendi! È così densa, così compatta la sua prosa... Non puoi leggerla di corsa... Devi dare il tempo a ogni immagine di penetrarti con i suoi suoni, i suoi sapori, i suoi odori...”
“O meglio d’esploderti nel profondo! Senti Clé, lo sai che mi piacerebbe una volta vederla, questa Secchiéta... Sono un po’ matta, vero? Mi ci porteresti un giorno lassù? ‘Sul Secchiéta c’è una bassa cappella,’ scrive Scipio, ‘con una Madonnina dipinta. Ho acceso un fiammifero per timore che vi fosse dentro il lupo. Sono sgusciato strisciando per il pertugio ostruito dalla neve e sono ruzzolato sotto la Madonnina...’ Pensa un po’. Mi piacerebbe tanto vedere se la Madonnina c’è ancora! Che ne dici? Ah, ah, nessuno di voi fiorentini le sa queste cose segrete!”
“Sicuro, sarebbe un’idea splendida... Ora vediamo d’organizzarci.”
Così nelle settimane che seguirono Clé e Denise, come due terroristi che preparano un attentato, si misero a raccogliere in segreto il sacco, la tenda e tutti gli attrezzi che il ragazzo teneva in un armadio per le sue scappate in montagna. Non era inverno, era solo fine estate, dunque non ci volevano preparativi speciali per la neve “che crocchia, come ossi fra i molari d’un cane”.
Fortuna volle che il dottor Raimondi partisse per un breve viaggio in Polonia, per ragioni di lavoro. Con lui in casa non c’era da azzardarsi a chiedere il permesso per una gita così bizzarra. La mamma fu invece del tutto positiva. “Oh yes... By all means take her along... I’ll look after Gentile... And have a good time!” Era quasi too good to be true, troppo bello per essere vero.
Poco dopo l’alba d’una giornata serena di settembre, i due partirono con una corriera che li portò fino al paese di Tosi, dove gli ultimi castagni si mescolano alle prime conifere. Ormai, con il settembre, la corriera non saliva più fino all’Abbazia di Vallombrosa, dunque c’erano da fare tre ore buone di cammino in salita per raggiungere la Secchiéta. Clé vide subito che Denise aveva fiato da vendere. Bruciato non poco dalle esperienze di Ursula e di Gioiella, Clé era ancora diffidente nei riguardi dei rapporti con questa imprevedibile compagna.
Era certo rimasto più che commosso quando la fanciulla aveva detto: “Mi ci porteresti un giorno lassù?” Avesse detto: “Mi ci condurresti”, sarebbe stato più proprio, ma anche più freddo. Quel “portare” suggeriva, che so io, un cucciolo, un gattino, un essere caldo e vivo e caro da recare sulla montagna tenendolo nel sacco, o meglio ancora tra giacca e petto.
Clé parlava, raccontava delle sue gite da piccolo sulla Secchiéta, ma poi anche quelle storie si esaurivano. Allora pensava cose arruffate inseguendole nei cunicoli delle sue boscaglie più segrete, tra foglia e foglia dell’animo. Pensò anche a Milto e come fosse stato nel giusto quando aveva rifiutato ogni tentazione per la bella spagnola Angelita. Ma chissà, chissà! Il ragazzo ci andava con i piedi di piombo; queste misteriose fanciulle ultraventenni, che enigma! Potevano anche esploderti tra le mani come una bomba, o una mina. E allora cosa facevi? Accumulavi altre umiliazioni, altre vergogne, altre bastonate?
Poco dopo mezzogiorno i pellegrini raggiunsero la Secchiéta.
“Lassù, guarda,” esclamò Denise puntando il dito, “ci dev’essere la famosa cappellina... Andiamo a vedere!” La cappellina, piuttosto rovinata, c’era ancora, ma la famosa Madonnina s’indovinava appena. Lì vicino un vetusto banco d’arenaria, tutto tappezzato di licheni multicolori, usciva come un molare cariato dal mantello erboso che rivestiva la montagna; e là Denise e Clé si fermarono per mangiare.
“Vedi, laggiù in quella vallata larga, azzurrina, scorre l’Arno,” spiegò Clé, “di là dal colle rotondo dell’Incontro, dove si dice che san Francesco e san Domenico si siano abbracciati, s’indovina Firenze, un luccichio strano di vetri che riflettono il sole, annegati nei vapori viola. Più in là ancora si dovrebbero scorgere le Alpi apuane, ma adesso c’è troppa foschia...”
Il panorama era immenso, si possedeva con gli occhi, almeno per largo, mezza Italia. A nord si delineava il Falterona “dove stanno le sorgenti dell’Arno”. A levante si distingueva benissimo il dente nero, causa le sue antichissime selve, della Verna (ancora san Francesco!).
Denise zitta zitta, aveva preparato un insieme gustoso di cibi: tramezzini alla carne e al formaggio, biscotti al cioccolato, frutta di vario genere, perfino una borraccia più grande con l’acqua, e una più piccola con il vino. Questa gradevole cura domestica faceva piacere, creava una inaspettata intimità. Dopo, sdraiati sull’erba, con l’arenaria lichenosa per cuscino, ci fu la lettura, si capisce, delle pagine di Scipio sulla Secchiéta (lui lo vuole maschile, ma secondo l’uso locale è toponimo femminile). Clé v’aggiunse anche una poesia dolcissima, seminata dall’autore, quasi per caso, lungo il corso delle sue pagine:
Ho voglia di cose lievi,
dove mi conduce un volo
di rondine, l’orecchio
sfiorandomi. Il sole è tiepido
come guancia adolescente.
Camminando leggermente
vado verso i bianchi meli.
Lunghesso la strada
un ramo d’olivo
il volto mi tocca.
Cose fresche! Rose
gonfie di rugiada;
erba su d’un rivo.
Ah se potessi
baciar la tua bocca!
Clé, che aveva letto con intensa partecipazione quasi tutti i versi, si sentì raggelare dagli ultimi due. E, segretamente arrossendo, li omise. Evidentemente Denise non conosceva a memoria il canto, o se lo conosceva, fu complice nel silenzio... Però qualcosa doveva essere scattato dentro di lei, perché quando furono lette le fatidiche parole: “Bene, se non mi sperdo; se mi sperdo, meglio” riferite proprio a questi luoghi, a queste selve, Denise, tirandosi su sui gomiti, con voce eccitata esclamò: “Dài, Clé, sperdiamoci! Basta sentieri, basta cappelline!”
Clé, senza rispondere, raccolse subito le varie cose sparpagliate in giro e le mise nel sacco, poi afferrò Denise per una mano, lanciandosi quasi di corsa in giù verso le boscaglie scomposte e arruffate del Casentino, del tutto diverse dalle foreste ordinate e allineate come un grande parco sul versante di Vallombrosa. Giù, giù, frasche in volto, frasche nei capelli, alla selvaggia, salti di roccia mai visti, radure sconosciute, silenzio e odor di muschio, alberacci contorti, ombre profonde, caccherelle a pillole nere di pecore, qualche mirtillo sopravvissuto, ombrellifere polverose di pollini, carline aspre e spinose, dei grossi funghi dall’aria sospetta, giù giù ancora, veramente sperduti, finalmente sperduti, dolcemente sperduti, inebriantemente sperduti!
Un’ora più in basso – sempre solitudine assoluta – fu raggiunto lo slargo d’un torrente, nato dalla Secchiéta e divenuto già rispettabile. Era quello che in Versilia si chiama un “tònfano”, un luogo in cui l’acqua sosta, si fa silenziosa, verdeazzurra, diventa profonda, e se ci butti un sasso fa un meraviglioso clock!, basso e solenne. Il sole estivo era ancora molto forte e caldo.
“Viene voglia di farci un tuffo, eh Denise, che ne dici?”
“Già vero... Ma non abbiamo i costumi, come si fa?”
“Che vuoi che importi? Nudi non fa lo stesso? Non siamo innamorati della natura? Immagina di trovarti qui ventimila anni fa!”
“Un’idea originale, non ci avevo pensato!” E Denise senza aggiungere altro cominciò a gettare le sue vesti sull’erba della riva. In pochi istanti il tappeto di vesti dei due era completo e disteso.
“Mamma mia che gelo quest’acqua!” gridava Clé. “Purissima, ma quasi mortale!” Denise, per la scossa, era tornata al natio francese, e ripeteva a voce alta: “Oh là là, oh là là...”
Il tònfano permetteva tre o quattro bracciate di nuoto da una riva all’altra, gioco che fu ripetuto parecchie volte, tra schizzi, grida e risate; poi Denise e Clé si sdraiarono sul tappeto di vesti al sole per riprendersi dal freddo mordace dell’acqua montana.
Clé sbirciava di tanto in tanto con molta circospezione la ragazza; gli parve subito molto più graziosa e ben fatta di quanto si sarebbe immaginato vedendola semiaffogata nelle sue vesti scombaciate o assurde. Per la prima volta il ragazzo aveva, o almeno sembrava avere, la disponibilità d’una giovane amica nuda accanto a lui. Tutto era perfetto. Come stabilito dai più soavi programmi di vita futura.
D’altra parte restava ancora un velo di cristallo, trasparente ma difficile da infrangere, un vero acciaio dello spirito tra lui e lei. Come superarlo? Qualche anno in più d’esperienza e sarebbe stato un giochetto da nulla. Invece i due restarono quasi immobili al sole fino a quando l’astro non sparì dietro il monte.
Fattasi sera Clé rizzò la tendina, che aveva portato con sé, sul ripiano erboso vicino all’acqua. Appena i due si furono rintanati all’interno, scoccò l’abbraccio fatale. E “la prima volta” fu beatitudine suprema. Clé, più tardi, ripeté i bei versi di Scipio: “Ho voglia di cose lievi...”, che ormai conosceva a memoria. E non ne omise gli ultimi due.
Il caso (fortunato) voleva che Denise non fosse vergine. Come sussurrò lei stessa agli orecchi di Clé nel suo italiano a capitomboli: “Mi perdonerai chéri? Ma io ho già fatto qualche sgambata birichina, sai...” Clé in risposta la carezzava teneramente, la baciava, coccolandola con passione. “Non dire sciocchezze... Che vuoi che importi il passato! È il presente che conta. Non vedi come siamo bene intonati sui medesimi gusti, come siamo legati da tante cose meravigliose? Poi tu mi hai rivelato Il mio Carso, e questo dono fa da amnistia per tutte le sgambate birichine del mondo!”
Intanto Clé, parlando, registrava lungo la schiena, in tutto il corpo, non capiva neppure lui dove, i brividi stupendi della sua prima penetrazione a fondo, il delizioso scivolo della giovane dava nella guaina languorosa di Denise, una fatata altalena di mosse.
Fu allora che Denise gli mormorò sul collo, con un certo tremore nella voce: “Ti prego, chéri, non mi venire dentro, sarebbe un disastro se restassi incinta!” Ma Clé, che nella pratica dell’amore era un neonato, nella teoria era un professorone informato di tutto, grazie alla lettura degli scritti di Havelock Ellis, i volumoni della Psychology of Sex, sapeva benissimo come sbrigarsela senza far correre rischi alla compagna.
Anzi, Clé scoprì ben presto che Denise ignorava del tutto un elemento fondamentale dell’amore felice; che cioè anche le donne hanno diritto come gli uomini alle loro coppe di voluttà, ai loro orgasmini e orgasmoni. “Ma con chi le hai fatte le tue sgambate birichine? Con un analfabeta erotico, eh?” avrebbe voluto esclamare, ma preferì tacere.
E fu invece immensamente felice quando riuscì a portare con sé la fanciulla, “l’amata creatura” per dirla insieme a Scipio, in una scintillante ghirlanda di paradisi.
Quant’era adorabile la fanciulla in quegli attimi magici e voluttuosi! La differenza d’età svaniva interamente, anzi pareva rovesciarsi. Denise sembrava tornata giovanissima, bambina, si abbandonava, si lasciava possedere, gemeva, sudava, scuoteva il capo di qua e di là, e le guance si facevano rosse come due frutti maturi. Una cosa stranissima: se apriva gli occhi avveniva che le pupille fossero misteriosamente sparite... Si rivolgevano in su, ma talmente in su da nascondersi nelle orbite. E spesso, in quegli incantevoli frangenti, il suo fiato emanava un profumo delizioso, si sarebbe detto di violette in fiore.
Tornati a Firenze la bislacca amicizia erotica franco-toscana continuò felicemente, e a lungo.
Come già detto Denise occupava la torre-piccionaia della villa. Clé le faceva visita all’alba, ora felice di silenzi e voluttà. Per lunga esperienza conosceva a memoria gli scricchiolii traditori della scaletta di legno che portava lassù, e sapeva, da scalzo scaltro, evitarli.
Clé preferiva non indagare sul compagno di Denise nelle famose sue sgambate birichine d’un tempo, ma concluse tra sé che dovevano essere state tragicamente caste; pareva che Denise conoscesse solo la posizione che i polinesiani chiamavano un tempo “dei missionari”. In quanto ai giochini mussanti, le carezze, i titilli, i frullini e frulloni di lingua, i ricami di sensazioni che fanno piano piano montare il calore e trasformano tutto il corpo in uno strumento meraviglioso di delizie, da suonarsi come un violino o un organo, la bella bimba era tutta da ammaestrare.
Per fortuna era svegliabilissima, di sensibilità delicate e faunesche insieme.
Ebbe luogo così un fatto curioso: Clé, il tecnicamente vergine, ma librescamente dottissimo, poté fare da valente maestro d’arti erotiche alla tecnicamente sverginata Denise, con somma letizia, gusto e soddisfazione da parte d’entrambi.
Clé avrebbe avuto tanta voglia di confidare alla mamma “i segreti della Secchiéta”, ma per una serie di sciocche ragioni contingenti rimandò, rimandò fin quando fu troppo tardi. In quanto all’amico del cuore Rolando, la pressione del segreto fu tale che Clé riuscì a parlargliene solo parecchi mesi dopo che l’episodio fu concluso.
A un certo momento Clé si allontanò da casa per una ventina di giorni in montagna, sulle Alpi. Quando tornò a Firenze, Denise non c’era più.
Clé era naturalmente curiosissimo di sapere dove fosse andata a finire, ma non osava chiedere notizie con troppa sollecitudine. Fu l’Ersilia che gli disse, con un certo sorriso malizioso (che avesse indovinato qualcosa?): “Sai, un giorno, poco dopo la tua partenza, s’è presentato qui un signore distintissimo, non proprio giovane, con un bel cappotto a loden, serio, rispettoso, quasi melanconico, che ha chiesto della ‘signorina Denise’, aggiungendo, ‘sa, sono il suo fidanzato...’ Per fortuna non c’era nessuno in casa... I due hanno parlato un poco sotto la loggia, e alcuni giorni dopo la signorina è partita, con le sue valigione e tutti i suoi libri.”
Clé in un primo momento restò male, malissimo (per quanto cercasse di non farlo vedere). Non riusciva a capacitarsi di come Denise, che era stata tante volte felice tra le sue braccia, gli avesse taciuto una notizia così importante. Gli riemersero nella memoria le parole del dottor Levi-Ragusa, di tanti anni prima: “Il continente donna, chi ci capisce qualcosa è bravo. Ti trovi su una cima luminosa, al sole, e improvvisamente ecco la nebbia, il vento, i fulmini.” Infatti... D’altra parte, conoscendo Denise ormai bene, Clé intravedeva nella vicenda una sua plausibilità. Tutto si confaceva al suo gusto per i segreti, alla gelosia quasi morbosa per le sue cose, i suoi quaderni, i suoi pensieri, le sue emozioni.
Pochi giorni dopo Clé ricevette una letterina blu, leggermente profumata; il nome del destinatario e l’indirizzo erano vergati con l’inconfondibile calligrafia, un tantino infantile, ma sincera e simpatica, di Denise.
“Clé, mio chéri” diceva, “perdonami per la fuga! Non te l’avevo mai detto, ma il mio primo e unico amante” (ah, ecco il segreto delle sgambate inoffensive! pensò a lampo il ragazzo...) “è tornato dall’Australia da poco, e ha chiesto ai miei genitori di sposarmi. Sarebbe stata follia rifiutare... Come sai ho quasi ventisei anni, dove finisco se perdo quest’occasione? Certo, mi pesa terribilmente lasciarti, mio dolce eroe dei boschi e dei torrenti! Per Carlo ho grande stima e affetto, spero si tramutino presto in autentico amore. Carlo ha una buona posizione e vuole acquistare una campagna vicino a Forlì, offertagli a ottime condizioni da un parente. Mi vedi come fattoressa romagnola? Quante ne propone e impone la signora Vita! Non mi scrivere, ti prego, ti scongiuro... Carlo è buono, serio, ma è anche molto vulnerabile. Non capirebbe, non capirebbe.”
Clé si ricordò allora che aveva due rullini di foto della Secchiéta, ancora da sviluppare. Corse a portarli dal fotografo. Finché aveva Denise vicina in carne e ossa, non gliene importava nulla. Ma ora diventavano ricordi, cimeli, cose preziose.