7. La scintilla Malachite

“Allora quando vieni? Guarda che quelle se ne vanno, se ne tornano in Sicilia... Vorrebbero tanto sentirci cantare una volta prima di partire... Ti aspettiamo! La chitarra, lo sai ce l’ho io qui a casa.”

Era Rolando che stava telefonando a Clé. Da qualche tempo i Wissler avevano dovuto vendere la loro campagna del Frantoio (con immenso dispiacere di tutti) per pagarsi avvocati e spese di giudizio in quella loro funesta tenzone legale con lo Stato italiano, a proposito della cittadinanza nemica (tedesca) del padre, e della contesa, tardiva, confisca dei suoi beni. Erano passati anni dalla fine delle ostilità, e dai trattati di pace, e la lunga lite aveva quasi mandato in rovina una famiglia onestissima, decisamente sfortunata.

Per non restare del tutto disfatta dalla vicenda, la mamma di Rolando, la signora Rina, con la sua prorompente vitalità emiliana, aveva aperto, come s’è detto, una piccola pensione vicino a porta Romana, frequentata soprattutto da stranieri. E lì era andata ad alloggiare Malachite, con la sua amica Virginia, nel corso di una breve visita autunnale fiorentina, in occasione di un’importante mostra retrospettiva delle opere di Ermete Trimegisto, presso una nota galleria della città.

Ricapitoliamo brevemente le vicende. Ermete, nel corso di una sua alquanto misteriosa escursione in Africa del Nord l’anno prima (“ragazzini arabi?” chiedeva maliziosamente Maurizio), si era fermato al ritorno in Sicilia. Da viaggiatore consumato e accorto, si era munito di alcuni biglietti di presentazione per dei notabili locali scelti, e uno gli aveva procurato l’invito alla “favolosa” Villa Valginevra, a venti chilometri dal capoluogo dell’isola. Ermete era rimasto una settimana in Sicilia. “Sai,” raccontava al ritorno, “mi sembrava d’essere in pieno Settecento. Pranzi, feste nei giardini di ville leggendarie, una delle quali cosparsa di mostri scolpiti che incantarono e spaventarono perfino Goethe... Immagina, un’intera orchestra di pietra sopra un’alta muraglia, circondata da fichi d’india con i loro frutti arancione, colori da impazzire! E io che rispondevo con inviti a Villa Igiea (grande albergo palermitano). Meno male che avevo venduto ben sei quadri poco prima a un principe marocchino!”

Poi ci raccontava della duchessa di Butera, con le sue sorprendenti figlie, Malachite e Pervinca. “Perché sorprendenti, Ermete?” “Prima di tutto perché in una terra dove le belle somigliano spesso a Madonne di Antonello da Messina, scoprivi queste due fanciulle bionde, con gli occhi azzurri (sangue normanno?), poi perché chi s’immaginava mai, tra quei monumoni (tipico termine Ermetico) cerimoniosi, ma rimasti secoli indietro, di incontrare due fanciulle intelligentissime, colte, aggiornate su tutto, la maggiore, Malachite, pittrice, l’altra, Pervinca, poetessa?” “Insomma sei rimasto incantato, Ermete?” “E chi non lo sarebbe stato!” rispondeva lui ridendo.

Come ultimo atto della vicenda, Malachite e una sua amica erano venute a Firenze per l’inaugurazione della grande mostra retrospettiva delle opere di Ermete, pitture, sculture, ceramiche, stoffe, incisioni, disegni, vetri, rilegature di libri, gioielli, perfino tappeti. Una volta tanto Ermete sciorinava in pubblico l’intero repertorio della propria genialità creativa. Ovviamente i taccagni fiorentini ammirarono gli oggetti con lodi sperticate, ma fecero pochissimi acquisti. Fortuna volle che poco dopo lui trasferisse la sua mostra a Zurigo, dove il pubblico sprecò poche parole, ma gli portò via, a suon di franconi federali, ogni cosa.

Arrivato alla pensione di porta Romana, Clé trovò già riuniti parecchi amici: Ursula e Rolando, ormai accettati come “fidanzatini” da tutti, Ulisse e Maurizio, nonché Carlino, di tre o quattro anni più giovane degli altri, quindi spesso chiamato “il Pargolo”. Si trattava del coro ridotto al nerbo. Ursula, Rolando e Clé guidavano con le voci alte e il controcanto, gli altri fornivano i bassi. Nessuno conosceva la musica.

Si trattava d’un canto del tutto spontaneo, eseguito a orecchio. Rolando accompagnava il coro con la chitarra, ma anche lui suonava a regola d’istinto. In fondo fu un gran peccato che non capitasse tra i ragazzi qualcuno che avesse almeno delle nozioni elementari di musica, tanto da dirigere un piccolo coro; a fidarsi soltanto degli orecchi si raggiunge presto un soffitto, oltre il quale è molto difficile procedere.

D’altra parte il repertorio dei ragazzi era assai vasto; Ulisse, che annotava i testi su di un quadernino, aveva raggiunto più di cento numeri; si andava dagli ovvi canti di montagna del tempo (La penna nera, La morte del capitano, Di qua di là dal Piave e simili) a quelli ancora poco noti della Toscana, della Val d’Aosta, o del Friuli. Ulisse, pur non avendo gran voce, era bravissimo nello scovare i pezzi più peregrini, dall’antico francese per esempio, a canti sardi e, si capisce, maremmani. Ma l’importanza del coro non riguardava gli altri, per quanto i ragazzi venissero spesso, durante feste o le gite in comune, invitati dai compagni a cantare, “a farsi sentire”; il coro riguardava soprattutto loro stessi. Era un legame affettivo meraviglioso che li stringeva nella più tenera e intima delle unioni.

E ogni canto finiva per essere legato in modo quasi mistico a un dato luogo, a una data esperienza di vita. Prendiamo l’amatissimo canto goliardico francese (o almeno ritenuto tale), Le temps n’est plus de la jeunesse, adieu..., regalo prezioso d’Ulisse: chi poteva lanciarsi sull’onda della sua melodia, popolare sì, ma con certi raffinamenti da musicista autentico, senza rivivere le ore divenute leggendarie di quando venne appreso la prima volta?

Erano in cinque o sei, i ragazzi, sul fondo più selvaggio e remoto dell’Orrido di Botri, nell’Appennino lucchese, un meriggio d’autunno. Oggi l’Orrido di Botri, un serpeggiante taglio verticale, strettissimo, con pareti di roccia alte in più luoghi oltre un centinaio di metri, scavate nei millenni da un torrentaccio che gli scorre fragorosamente sul fondo, è divenuto una delle meraviglie naturali più famose della Toscana; una strada asfaltata porta quasi fino all’imbocco della forra selvaggia, segnali appositi ne indicano l’esatta ubicazione, e nei giorni estivi di festa dozzine, centinaia di persone d’ogni età lo invadono rompendo con i loro gridi di richiamo e di meraviglia gli antichi silenzi. Ma allora Botri era pressoché sconosciuto.

In macchina si poteva, respirando molta polvere, raggiungere il paesotto di Tereglio, abbarbicato sulla cresta d’un poggio silvano a circa quindici chilometri dalla forra; in motocicletta, guidando con la testardaggine dei fuoristrada, ci si poteva avvicinare un poco di più, ma in definitiva si trattava di una località dall’accesso veramente difficile. Clé ne aveva letto qualche cenno su di un numero arretrato della rivista mensile pubblicata dal Club Alpino, ma nessuno degli amici c’era mai stato.

La spedizione a Botri, a cavallo delle moto, fu memoranda.

Lasciati i veicoli ai piedi d’un annoso castagno, proseguendo a lungo per sentieri appena indovinabili nel bosco, i ragazzi si videro a un certo punto chiudere addosso le pareti calcaree delle montagne, le ultime propaggini digradanti dall’Alpe delle Tre Potenze (1937 metri, antico punto d’incontro dei domini di Firenze, Lucca e Modena). Tutt’intorno boscaglie quasi verticali di faggi, carpini, frassini, cerri s’inerpicavano verso il cielo. Qua e là fu notato perfino qualche esemplare rarissimo di tasso selvatico, con le sue bacche rosse. Ben presto fu necessario entrare nell’acqua gelida del torrentaccio, in certi punti fino alla vita. I ragazzi stavano forzando “le Chiuse di Botri”.

Avanti, avanti per oltre un chilometro. In certe strette le pareti opposte si avvicinavano a tal punto che il cielo, lassù, chissà dove, era ridotto a una serpe irregolare di luce cilestrina, per di più filtrata dai rami di faggi abbarbicati tra le rupi, e in basso da drappeggi di capelveneri, di felci d’ogni genere. Stillicidi prodigiosi nutrivano cuscini, coltri di muschi mai visti; e si scoprivano piante rare altrove, strane specie che godevano solo d’ombre e d’umidore, come si trovano agli imbocchi delle grotte. Faceva freddo. Qualcuno starnutiva. Tutti erano bagnati come avessero camminato a lungo sotto una pioggia scrosciante.

Ma finalmente le pareti dei monti s’allargarono, si separarono. Venne raggiunta una smisurata, favolosa corte naturale, rinchiusa da muraglie di rocce dai colori chiari, simili alle pareti di marmo d’un palazzo fatato. Gli ultimi spalti, quasi mille metri più in alto, si avvicinavano alle vette dell’Alpe delle Tre Potenze. Che sensazione indicibile di scoperta, di sconfinamento dal mondo!

Ma i ragazzi erano davvero in Toscana, una delle regioni più civili, conosciute e pettinate della penisola? O forse, con un po’ d’esagerata giovanile baldanza, si sentivano sbucati su di un altro pianeta? E in un certo senso, in quegli anni remoti, con tante esplorazioni ancora da venire, lo erano. Ebbene laggiù, seduti intorno a un gran fuoco di legnacce secche raccolte sul greto, cercando di asciugarsi vesti e ossa dall’umido tetro delle Chiuse, aprendo i sacchi e rifocillandosi con lena, ebbene fu là che impararono avidamente parole e melodia del canto francese scovato da Ulisse, con il suo ritornello di struggente nostalgia: “Adieu, adieu, adieu, oh jeunesse aux jours du ciel bleu...

Era chiaro che il canto, ogni volta che veniva ripetuto, risvegliava immediatamente i ricordi di un’esperienza quasi mistica in quei fortunati che avevano potuto prender parte alla spedizione originaria, rito dell’amicizia, dell’amor fraterno, della natura, della scoperta; e l’onda della commozione si estendeva anche agli altri del gruppo i quali, imparando il canto, ne imparavano inevitabilmente anche la cronaca, la genesi, respiravano “il mito di Botri”, luogo che divenne, come si può ben immaginare, una sorta di santuario per l’intero giro d’amici, che visi recavano in visite frequenti, durante tutte le stagioni.

* * *

La porta del salotto si spalancò, apparvero due giovani donne.

“Oh eccovi, Malachite e Virginia... Siete tornate finalmente!” esclamò Ursula. “V’aspettavamo...” Seguì un giro di presentazioni avviate da Ursula che ormai conosceva bene Malachite tramite il fratello Ermete, poi tutti si accoccolarono di qua e di là, su cuscini, divani e sedie.

I ragazzi e le ragazze cantarono in coro quattro o cinque dei numeri migliori del loro repertorio, mentre la signora Rina, con espressione beata in volto, passava in giro un gran paniere d’uva portatole poco prima da Bellindo (con l’immortale Fiat 501 a scatola di metallo nerolucido) dalla Villa Morgen. Perché “beata” la signora Rina? Be’, quando vedeva il suo adorato Rolando semiabbracciato, dolcemente, spudoratamente unito all’incantevole Ursula, si sentiva sciogliere in un mare di gioie e di tenerezze. Tanto era stato forte, deciso, sicuro, indiscutibile, inarrestabile l’innamoramento di Ursula per Rolando (sentimenti in tutto corrisposti), altrettanto era stata viva, reciproca, saporosa, la simpatia sorta tra Ursula e Rina. Ursula era una di quelle rare preziose persone che guardano diritto all’essenza di chi sta loro dinanzi, trascurando del tutto le circostanze, i fronzoli, le inutilerie. Aveva un occhio radiografico. Per questo era totalmente priva di snobismo.

Clé l’aveva incontrata parecchie volte durante feste e ricevimenti in case dell’alta borghesia o della nobiltà fiorentina, dove non mancava di ammiratori, pronti anche a concretare il loro incanto per la sua grazia, il suo stile. Ma lei individuava subito difetti nascosti, e non aveva mai trovato in nessuno quella personalità sana e completa di cui sognava. Aveva trovato invece tutto, e d’istinto, in Rolando. Gli interpreti malvagi dei fatti umani, che ci sono sempre, avrebbero potuto sostenere che un leggero calo di casta, nell’eventuale futuro matrimonio, poteva dare ovviamente a Ursula, che palesemente nascondeva in sé germi di matriarca, vantaggi non indifferenti. E la gioia della signora Rina? Non era forse un felice responso al fatto di poter prevedere per il futuro, non tanto nuove bocche da sfamare, gravanti sul suo pesante lavoro di mamma, quanto proprio l’opposto: un po’ di derrate per bocche dai forti appetiti? Forse sì, e magari giustamente sì: gli affari umani sono sempre d’una complessità talmente aggrovigliata da generar capogiri.

“Dài Malachite,” ripeteva Ursula, “continua a insegnarci il tuo canto siciliano, vogliamo tutti aggiungere un fiore nuovo al nostro repertorio.”

Il canto che Malachite riprese volentieri s’inseriva nel repertorio dei ragazzi con delle note, un ritmo, degli abbellimenti vocali assolutamente diversi da tutto quanto avevano imparato fino ad allora. L’entusiasmo era perciò generale. Le poche parole che Malachite ricordava avevano un fascino misterioso, univano un vago senso di disperazione a una fosforescenza poetica primordiale.

Un ignoto (innamorato respinto, esule, condannato a morte, o semplice viandante?) dà l’addio a una sua (chiaramente amata) strada, senza fornire altre spiegazioni:

Io ti saluto strada, e minne vaio

Chissà si ne viremo un’autra volta...

Lu cielu è tutto muro e senza stiddi,

Nun zurrichiano chiù manco li griddi...

Il coro ripeté diverse volte la strofa, tutti erano abituati a imparare nuovi motivi, nuove arie. Ma in questo caso le finezze di una pronuncia veramente esotica per dei toscani, forse addirittura la scala musicale leggermente diversa da quella in uso nella tradizione popolare del Centro Italia, facevano sì che la lezione fosse, o sembrasse, assai più difficile del solito. Malachite si stava accalorando, si dava da fare con energia per insegnare ai nuovi amici musica e parole, ma quel doppio dd di “stiddi”, per esempio, era incommensurabile con i suoni usuali delle bocche fiorentine.

Clé, si capisce, aveva dato uno sguardo alle due fanciulle siciliane mentre entravano nel salotto, poi era stato preso dai cori, dal canto, dall’uva della signora Rina, e non vi aveva più fatto caso, ma adesso, durante la straordinaria lezione che espandeva i confini fonetici e musicali suoi e degli amici, tornò a osservarle. Virginia era magrolina, vivace, sorridente, ma più o meno come Clé s’immaginava l’archetipo “ragazza siciliana”: capelli scuri, corti e ben curati, vispa d’occhi, bianca di pelle, vestita con una certa ricercatezza quasi fuori luogo, e un tantino spaesata, in tutto e per tutto seguace, per non dire succubo, dell’amica. Clé aveva quasi paura a guardare, a scrutare Malachite; ne aveva sentito troppo parlare da Ermete, e in termini di tale meraviglia, di tanta scoperta, da temere un crollo fragoroso d’illusioni a un esame ravvicinato. Be’ diciamolo, era come decidersi di guardare il sole. Clé si decise e lo guardò.

“Ma dove l’ho vista, dove l’ho vista?” rimuginava il ragazzo tra sé, ammirando non tanto i particolari del volto nella giovane sicula, regolari, piacenti, mobilissimi, quanto (dal lato fisico) i colori, quell’oro genuino dei capelli corti e ricci, quell’azzurro delle pupille, quel miele incarnato delle guance, e (dal lato psiche?) quell’espressione d’intelligenza, d’entusiasmo, di “via andiamo! Su buttiamoci!” che proprio non quadrava con l’idea, certo sciocca, d’una passività meridionale languorosa e rinunciataria. “Ah, ma sì!” esclamò tra sé il ragazzo dopo qualche secondo. “Adesso so dove t’ho incontrata! Eri la donna ideale di Paolo Veronese... Tu non lo immagini, Malachite, ma eri quelle superbe Venezie, quelle dame sontuose di corpo, di vesti, di gioielli che s’affacciano a balconi tra pappagalli e nutrici, tra galeoni e armigeri, oppure che s’apprestano a salvare dalle acque del Nilo un putto Mosè...” Ne aveva viste tante di Malachiti alla National Gallery di Londra, a Venezia, agli Uffizi fiorentini. Adesso eccola qui in carne e ossa nella pensioncina di porta Romana.

“Chi è così gentile da impostarmi una lettera, un tantino urgente?” chiese Malachite quando, terminata la riunione d’amici, tra cori, chitarra e frutti, tutti stavano sulla soglia d’ingresso della casa, o lì vicino, salutandosi, prendendo accordi per altri incontri, per eventuali gite e simili.

“La dia a me la missiva,” propose Clé, che già stava a cavalcioni della sua moto, pronto a partire. Poi, con uno di quei minuscoli interventi che possono decidere di vite intere: “E se venisse anche lei?” aggiunse. “Così infila la lettera nella cassetta con le proprie mani, è più sicuro, no?”

Malachite corse in casa, avvertì la signora Rina e l’amica, afferrò una maglia (si cominciava già ad avvertire un certo freschino autunnale) e saltò in groppa al cavallo meccanico di Clé. La corsa sino alla Posta centrale richiese pochi minuti, e Malachite imbucò la sua lettera.

“Che ne diresti se facessimo un salto al piazzale Michelangelo per vedere il mondo da lassù? A quest’ora il panorama dev’essere splendido!” Clé, meravigliandosi quasi con se stesso, era passato dal “Lei” al “Tu”. In quei paleolitici tempi esisteva tutta una liturgia degli ingranaggi pronominali; all’inizio, come imponeva l’uso, si partiva con il “Lei”, e di norma trascorreva parecchio tempo prima di azzardare il “Tu”. Malachite però ispirava le eccezioni, e Clé s’accorse con sollievo che il cambio di marcia grammaticale era stato accettato. Clé guidava con giudizio la sua Bmw 750, facendola frullare al minimo, proprio per scambiare qualche parola con la misteriosa compagna là dietro.

“Perché t’hanno messo nome Malachite, eh?”

“Ti piace, o lo trovi bislacco? I pareri sono sempre stati diversi, sai? A scuola alcuni mi chiamavano Mala, che mi piaceva, altri Kite invece un po’ insipido...”

“Be’, ne sono entusiasta. È un nome che apre orizzonti, invita a fantasticare. Scommetto che sei la prima al mondo!”

“Macché... La mia grande antenata fu Malachite di Trebisonda... Lo sapevi che Trebisonda, sul mar Nero, cadde sotto i turchi quattordici anni dopo Costantinopoli? In seguito Malachite, con alcuni altri esuli bizantini, migrò a Venezia... C’è un suo incantevole ritratto nella pinacoteca di Verona, pensa un po’! Del resto anche Clé non è poi un nome da incontrarsi a ogni cantonata...”

“Semplicissimo, è un’abbreviazione eroica di Anacleto, un nome impossibile precipitatomi addosso da un nonno. Ma Clé, anche se raro, è un nanerottolo, un piccolo mostro, Malachite invece fa pensare ai gioielli, alle stelle...”

Chiacchierando, sulla moto tenuta al minimo dei minimi, i due erano arrivati al piazzale Michelangelo. Dopo una giornata un po’ bislacca di nuvoloni e laghi di luce, il sole era tramontato in un vasto inatteso sereno. Firenze, in basso, era come un lago di luci in fiore dentro una coppa smisurata di monti viola. L’Arno, una sciarpa di seta rosa, guidava l’occhio verso l’occaso. I ponti si disegnavano in controluce neri e precisi come tracciati dalla mano di Leonardo. Non c’era anima viva in giro. Era sorta una brezza tesa di tramontana. Per un poco i due guardarono il panorama senza dirsi più nulla, appoggiati alla grossa balaustrata di bronzo che limita la spianata verso la valle.

Poi il bacio, in perfetto silenzio, fu irresistibile, fatale, decretato da millenni.