8. Accadde a Nicastro

Parecchi momenti decisivi nella vita di Clé furono dovuti al caso. Brutto segno, vero? Mancanza di piani regolatori a lunga scadenza dell’urbe interna, tono fiacco della volontà, navigazione in balia delle onde eccetera. Indubbiamente (sospiro d’assenso) è tutto vero. Ma è anche possibile aggiungere come questi interventi del caso, talvolta capricciosi al di là d’ogni misura, fossero governati da una bussola speciale il cui ago non girava a vuoto, quasi un piatto di roulette pronto a fermarsi dinanzi a uno qualsiasi dei trecentosessanta gradi in cui si spartisce l’orizzonte, ma puntava almeno genericamente “da qualche parte”.

Questa “qualche parte” era il periferico, il remoto, l’inusitato, l’esterno. Uno psicologo spietato, trattando l’individuo come un albero, potrebbe attribuire simile “culto romantico dell’evasione” a un impianto radicale malriuscito nel terreno dell’iniziale messa a dimora. O forse il fascino del periferico era più semplicemente dovuto ai racconti ungheresi della mamma durante l’infanzia? Ai libri di viaggio scovati nella biblioteca di casa – soprattutto Three Years in Tibet di Ekai Kawaguchi? O ancora all’amore tattile per gli atlanti, con le loro zoologie di forme inquietanti? In età maggiore, durante lo scomodo parcheggio tinegista, grande influenza l’avevano avuta i riferimenti tanto frequenti del professor Pasquali alla divisione dell’universo culturale in due sfere: di qua il dominio delle civiltà delle lingue indoeuropee, di là tutto il resto; di qua ordine, sapere, chiarezza, traducibilità, di là ignoto, irregolarità e mistero. Proprio l’opacità problematica del mondo transindoeuropeo aveva agito da sprone, da vento propulsore di vele argonautiche. Ma che ci sarà mai oltre il gran vallo dell’indoeuropeo? Eppure sono esseri umani anche loro di là!

Ma qui ci inoltriamo troppo nel futuro.

Tutto a suo tempo. Per il momento era stata spedita la famosa lettera. Se Clé l’avesse presa e buttata nella cassetta della posta, senza aggiungere quella frasuccia da nulla: “E se venisse anche lei?” forse Malachite sarebbe tornata fresca fresca in Sicilia, e due vite intere, più altre numerose a esse collegate, sarebbero state del tutto diverse. Ma il caso aveva lanciato il suo laccio, la lettera era stata impostata a quattro mani. Per di più Malachite era incantevolmente periferica, almeno rispetto alla Toscana. Che volevi di più? Anche in questo caso, dunque, su di un piano infinitamente meno metafisico di quanto sopra accennato, valeva la massima: “Andare a vedere, andare a vedere!”

Durante l’inverno di quell’anno qualsiasi viaggio o assenza fu impossibile. Clé era stato chiamato al servizio militare: benché nato a Firenze, quindi territorialmente in una parte sbagliata della penisola, valendosi di amicizie, d’elenchi d’ascensioni dolomitiche e simili, riuscì a farsi ammettere alla Scuola allievi ufficiali alpini di Milano.

Stranamente l’esperienza non gli dispiacque affatto. Che ci fosse nascosto, in una delle tante cripte dell’animo di Clé, un giovane feudale inseribile in una ferrea gerarchia, orgoglioso di sentirsi cadetto, quasi come in un romanzo russo dell’Ottocento? Indubbiamente c’era. Gli piaceva quella disciplina acre, da molti definita balorda, che i militari di oggi non possono neppure immaginare; quelle assurde sveglie antelucane per le esercitazioni in ordine chiuso in un parco Ravizza pieno di neve. Era una sfida potente a se stesso. “Ci riesco, non ci riesco?” Ci riusciva, eccome, e meglio di molti altri. Del resto si trovò immediatamente inserito in un gruppo d’amici a forte simpatia reciproca. E poi c’erano i vari campi, invernale, estivo, con lunghe, felici, residenze in montagna.

I campi d’alta montagna costituivano periodi d’autentica ebbrezza. In un certo senso era ancor meglio che salirvi come alpinista indipendente. Da tutte le parti Clé si sentiva ripetere che “faceva il proprio dovere”, che “serviva la patria” eccetera, insomma veniva lodato, in più le giornate offrivano un continuo divertimento; che potevi volere di più? Per un fortunato insieme di casi Clé si trovò ad avere più esperienza alpinistica, migliore tecnica di sci, della maggioranza dei suoi compagni, quindi veniva continuamente impiegato come istruttore. Al fatto d’esercitarsi dalla mattina alla sera nei suoi sport preferiti, si sposava la sensazione di rendersi utile. Infine i rapporti con i compagni (alcuni dei quali rimasti amici per decenni), e persino con gli ufficiali, erano i più cordiali, allegri e calorosi immaginabili.

Dopo mesi e mesi d’assenza Clé fece ritorno, in motocicletta come sempre, a Firenze. Felicità di riabbracciare la mamma – che godeva immensamente di farsi fotografare con il figlio in uniforme degli alpini (e Clé sottilmente la capiva, era un modo di celebrare una sua identificazione con l’Italia, con l’italianità, divenuta con gli anni intima e sofferta esigenza). Ci furono anche formali compiacimenti da parte del dottor Raimondi, al quale però ormai Clé non riusciva in alcun modo ad avvicinarsi sul serio.

E subito via alla ricerca degli amici: Rolando e Ursula, Maurizio, Rinaldo, Ulisse, Ermete, e tanti altri ancora. Quanto restò male, il povero Clé, quando capì che Rolando non apprezzava proprio per niente il fatto che il suo migliore amico avesse trascorso con tanto innocente piacere il suo primo e lungo periodo di servizio militare! Rolando, come già sappiamo, aveva sofferto crudelmente da bambino, e poi nella prima adolescenza, quando gli eventi plasmano i valori di fondo dell’individuo, per i soprusi dello Stato italiano sulla propria famiglia. Forse, oggettivamente, la situazione era più complessa del solito e la burocrazia vi s’era persa, ma Rolando interpretava la vicenda nel modo più nero; quindi ne risultava in lui una rivolta feroce, anarchica, contro ogni aspetto dell’ordine costituito, Stato, Chiesa, fascio, e quant’altro. L’esercito, si capisce, rientrava nel rango degli enti da guardarsi con il massimo disprezzo.

Essersi trovato bene nel suo seno (che poi era un seno del tutto particolare, quello degli alpini) era fatto che disgustava Rolando, il quale non risparmiava critiche e ironie all’amico.

In realtà, cercava di spiegare Clé, i mesi trascorsi tra caserme e campi di montagna gli avevano rivelato un nascosto dualismo del tempo. Durante i mesi con gli alpini non aveva praticamente mai notato segni di adesione al fascismo. Era come se vivesse in un altro Paese, dove del duce, delle camicie nere, delle “giovinezze”, giungevano soltanto dei fiochissimi echi lontani.

Clé poteva anche ricordare certe curiose conversazioni con giovani sergenti, in rifugi isolati, magari dopo ghiotti sorsi di grappa: “Mussolini avrà la sua milizia” dicevano, “ma il re ha il suo esercito, ha noi!... Che vuoi che facciano quei pirla dilettanti eh?” Come tutti sappiamo, in futuro, gli eventi presero un corso del tutto diverso. Ma sicuramente, agli inizi degli anni trenta una certa tensione latente esisteva. Forse, se il re fosse stato meno bischero, qualcosa ne poteva nascere; ma purtroppo eravamo in mano a una dynasty of morons, di idioti, come ha detto lapidariamente Dennis Mack-Smith.

Rolando era inoltre d’umor basso per altre ragioni. L’affetto di Ursula per lui, lo si vedeva subito incontrandoli insieme, era immutato, forse addirittura era maturato, divenuto più cosciente e insieme più premuroso. Ma intanto, in modo inaspettato, era sorta una cupa opposizione a quest’amicizia da parte di quelli di casa Morgen. Che l’ingegner Fabrizio vedesse con occhi critici la relazione era del tutto prevedibile, era nel suo stile, faceva parte del suo endocosmo rigido, gerarchico, regolamentare, ma Clé restò di sasso quando capì che anche Ermete sollevava delle forti riserve al proposito. Come, Ermete il libero, il futurista a tutto campo, il rivoluzionario in costumi di vita, abiti, arti, parole e musiche, si ergeva adesso a censore di parenti e amici in modo così visibilmente conservatore, addirittura reazionario? Clé, già informato sommariamente da Rolando della situazione, andò a trovare il gran Trimegisto, ma francamente non sapeva come toccare il penoso argomento. Vi sono discorsi che, anche tra gli amici più consolidati, si vorrebbero passare sotto silenzio. Ma infine, con un grosso sforzo, ci arrivò.

“M’ha fatto piacere davvero,” disse all’amico-maestro “trovare dopo tanti mesi Rolando e Ursula così teneramente uniti...”

Ermete guardò Clé con inconsueta freddezza. Per un momento Clé pensò non volesse cogliere la palla al balzo, volesse scivolare sull’argomento tacendo, passando ad altro. Ma improvvisamente l’uomo mutò espressione. Gli si leggeva sul volto una dolorosa tristezza, un abbandono. Ermete aveva di questi crolli in momenti di crisi, per esempio nello scoprire chiuso un negozio che credeva aperto e nel quale doveva fare un acquisto anche piccolo, ma urgente, urgentissimo per il suo lavoro d’artista! Questo era forse dovuto alla forte componente femminile del suo amalgama personale?

“Nessuno ha qualcosa da dire sulla persona di Rolando,” spiegò Ermete a voce bassa, guardando per terra. “Splendido sportivo, amico generoso, ragazzo assolutamente privo di vizi, regolare negli studi... Sì, sì, c’è tutto. Però resta il fatto incontrovertibile che, da un lato stanno i suoi diciotto anni, dall’altro i ventisei di Ursula. È un salto troppo grosso. E dalla parte sbagliata. Ci voleva l’opposto, lui ventisei, magari trentasei, e lei diciotto! Non ti sembra?”

“Ma tu come fratello conosci Ursula meglio di tutti noi,” azzardò Clé. “Io temo che quando lei ha scelto una via, non l’abbandoni tanto facilmente. Non ti offendere se te lo dico, ma contrastarla credo sia peggio. C’è qualcosa di Giovanna d’Arco in quella figurina di fata...”

Ermete sorrise. “Lo so, lo so, ed è esattamente per questo che siamo tutti così preoccupati. Ci vorranno almeno altri tre anni perché Rolando si laurei... Meno male che ha avuto il buon senso di scegliere Agricoltura... Un posto in Nord Africa, per esempio, gli si trova subito. C’è moltissimo bisogno di vere competenze specifiche da quelle parti. Ursula chissà quando potrà contare su qualcosa. Per ora, come sai, siamo tutti indivisi. Ursula gode del bene comune, casa, vitto, servizi eccetera, se dovesse andarsene, dipenderebbe quasi esclusivamente dal marito... Basta, non dico altro, so che mi capisci... Tu che hai influenza su di loro, cerca di frenarli, che non abbiano fretta, che non facciano sciocchezze...”

Clé si sentiva molto addolorato per queste ombre che sorgevano, e navigavano, per il cielo dei suoi più cari amici. Meno male che Ermete parlava soltanto di pazientare, di essere prudenti, di non lasciarsi andare a colpi di testa. Clé aveva inizialmente temuto che Ermete volesse chiedergli d’influire su Rolando perché s’allontanasse da Ursula. Ciò gli sarebbe parso veramente insopportabile. Forse avrebbe risposto male. L’intera vicenda esercitava un curioso effetto sul cuore di Clé. Avendo dovuto rinunciare a qualsiasi successo con Ursula, salvo quello di mantenere con lei una forte amicizia, un amore fraterno fuori del comune, ora si sentiva, non sapeva neppure lui perché, impegnatissimo a far riuscire in pieno, fino al matrimonio e oltre, per sempre, il legame tra lei e il suo migliore amico, Rolando.

Ma i giorni di sosta a Firenze erano contatissimi. Clé aveva poco più d’un mese di tempo per recarsi in Sicilia, nel regno di Malachite, la periferica di sogno.

“Andare a vedere! Andare a vedere!” era ormai divenuta una sua divisa di vita. Così un bel mattino di giugno, all’alba, saltò in groppa alla sua Bmw 750 (allora una delle più forti moto in circolazione) e via. Da Firenze a Salerno, anzi fino a Battipaglia, le strade erano asfaltate. Da Battipaglia in poi le due ruote correvano sullo sterrato, con le sue buche, il suo pietrame sparso, la sua polvere, terribile se c’era appena un po’ di traffico.

Ma la gioia d’avanzare, come una minuscola prua, in un oceano d’ignoto, era inebriante. Clé si sorprendeva a cantare, a gridare, a ridere da folle. Tanto non c’era anima viva! Dopo Sala Consilina, Clé passò in rivista sulla destra i candidi precipizi del monte Alburno, con le sue foreste verticali sposate al sasso. Poi aranceti, agavi, viali d’ulivi altissimi, mai visti prima. Avanti, avanti, era molto se si potevano raggiungere i sessanta all’ora sul contachilometri, in realtà percorrerne quaranta sul terreno poteva dirsi già un successo.

Era giugno, mese solstiziale e prodigioso, festa dell’anno, impero del sole. Verso l’ora del tramonto Clé si trovò nei pressi di Nicastro.

Il paese emergeva vagamente da un alone d’oro. Clé si rendeva conto benissimo che si trattava di polvere sottile, sollevata in nubi roteanti, da centinaia di asini e muli che tornavano verso le loro stalle carichi di zappe, vanghe, fave dei campi, fascine di frasche, accompagnati da contadini e ragazzi, ma l’effetto di prodigio mitologico non ne soffriva per nulla. Stanco, distrutto, dolente di polsi e di schiena – ma incantato – Clé si fermò, poggiando la moto contro un muro di sassi ai lati della strada.

Intanto dalla gran nube d’oro, adesso in perfetta controluce, stavano comparendo gruppi e gruppi, e ancora gruppi, di fanciulle scalze, con anfore di terraglia bruna in capo. Si recavano chiacchierando e canticchiando, leggere e fatate, verso una fonte vicina a prelevare l’acqua da riportare su alle loro case in paese. Le fanciulle erano vestite tutte allo stesso modo: indossavano una gonna e un corpetto rosso mattone, e dal corpetto spuntava una camicia bianca, o chiara, a maniche corte. Un insieme straordinariamente elegante, agreste e gentile allo stesso tempo. Le fanciulle, passando, guardavano quello strano viandante tutto bianco di polvere, ridacchiavano e si coprivano il volto con un lembo del grembiule.

Con il terzo giorno dell’avventuroso viaggio Firenze-Palermo, Clé passò lo stretto di Messina. I monti Nebrodi, con i loro cipressi, facevano pensare alla Toscana. Ma poi riecco il Sud quintessenziale con le rupi e le agavi di Tindari, con le case di Sant’Agata di Militello, con la cattedrale di Cefalù. Infine Termini Imerese, Santa Flavia, Bagheria...

Sì, la periferica abitava a Bagheria, venti chilometri prima di Palermo. Bagheria, brutale paesaccio, roco fin nel nome – anche se, dicono, questo derivi da un termine arabo (baghar, baghara) che valeva “splendore”. Poco prima dell’arrivo, stranezze di giugno, aveva piovuto. Come dire allora l’ultimo chilometro di stradone diritto in salita, accompagnato da file di case basse, sporche, trasandate, quasi vanitose di bruttezza? Un merdaio scivoloso di fango e buche, con abbondante semino di cacche di animali d’ogni genere e specie. Bastava un accenno dato con la mano all’acceleratore e la moto scodinzolava come tentasse d’avanzare sul ghiaccio. Clé chiese più volte la via, finalmente si trovò in uno slargo tranquillo dinanzi a un antico cancello di ferro dalle dimensioni spropositate. Una donna anziana con i capelli bianchissimi venne ad aprire (cigolio lungo e musicale di metalli). Seguì una strada campestre in salita, stretta tra mura dilapidate e fichi d’india. Poi una curva ed ecco Villa Valginevra.

Clé, pur non volendolo, riempì l’antica corte dinanzi a casa con il fracasso della moto. Malachite s’affacciò a una finestra. Poi si precipitò giù come una palla per le scale.