9. L’aurora del mondo

Malachite e Clé si abbracciarono forte forte, con indicibile tenerezza, ripetendosi tra i baci succosi una sola dolcissima parola: finalmente! Appena riuscirono a staccarsi, Clé si guardò in giro per assorbire, almeno con un primo colpo d’occhio, lo splendore fastoso del luogo. Malachite però era piena di curiosità, voleva sapere tante cose, voleva sapere tutto.

“Come fu questo famoso, sterminato viaggio di tre giorni, eh? Ma finalmente arrivasti! Racconta, racconta... Insomma non era uno scherzo, una trovata come dicevano gli amici qui... Sai che ho scommesso con Virginia? Lei ripeteva: ‘Ma quello parla, parla, vedrai che arriva in piroscafo, o peggio in vagone letto.’ Ah, ah, ho vinto io, dieci belle lirone (allora un buon pasto, ricordare)... Stanco sei?”

“Stanco proprio no, ma sporco, sudato, ingrommato, sozzo lo sono, sì! Guarda la mia povera tuta. Originariamente era celeste. Ora è bianca di polvere, con queste ditate nere di morchia, poi gialla per gli schizzi di fango qui alla fine, su per lo stradone di Bagheria...”

“Be’, si vede! Ti ci vuole subito una doccia, vero? Pensa, è pronta!”

Malachite chiamò a gran voce Marina, e comparve da una porta laterale un’altissima cameriera con foltissimi capelli neri, dall’aria di maga, con un minuscolo grembiulino bianco a coprire una veste scura. “Conduci il nostro ospite al bagno,” le disse. “È già tutto pronto, lo sai...” Poi rivolta a Clé: “Appena hai finito suona, ti veniamo a prendere. C’è papà che muore dalla voglia di conoscerti... Per il momento siamo noi due soli in casa, Mamà e Pervinca sono andate a Roma per qualche giorno...”

Clé lasciò la moto nel cortile, non senza darle una fuggevole affettuosa carezza (tra uomo e motori si stabiliscono in certi casi rapporti francamente totemici), e seguì la maga – la quale risultò spagnola, fonte di uno spassoso linguaggio siculispanico; il ragazzo spalleggiava il proprio sacco da montagna, contenente per lo meno qualche maglietta e un paio di calzoni arrotolati (chissà in che stato!) per un decente ricambio. Che palingenesi quella doccia fragorosa! Meno male che a vent’anni ce ne vuole per stancarsi sul serio. Clé si riebbe all’istante. Poi si vestì e suonò. La maga venne a prelevarlo, conducendolo giù per una scala a chiocciola, e per dei corridoi scavati nelle mura, fino a una saletta d’angolo della villa.

“La signorita è andata a buscar U’dduca nel limoneto... S’assettasse con comodo,” disse la donna, sparendo poi subito.

Clé si mise a sedere su di una piccola poltrona, un tempo chiaramente di lusso, ma ormai sfibrata dall’uso, e si guardò in giro. Una porta a vetri, larga e alta, stava spalancata lì dinanzi e dava su di un vasto luccicante terrazzo a mattonelle in maiolica, i cui colori erano stati resi ormai tenui dai decenni (o dai secoli?). Il gran sole solstiziale era vicino all’orizzonte, e inondava con i suoi raggi metà della stanza. Fuori, da qualche parte, si udivano sibili di cicale esotiche – almeno per l’orecchio di Clé. Una brezza leggera portava fino in casa dei profumi corposi, un poco allarmanti, di fiori sconosciuti.

La saletta rivelava lungo le pareti tracce sbiadite di affreschi grotteschi alla pompeiana del tardo Settecento. In passato doveva essere stata arredata con notevole sfarzo; adesso però i mobili, i baldacchini delle tende, la cornice di un grande specchio, tutti esempi d’un esuberante Barocco palermitano, apparivano patinati senza pietà dagli anni. Le ricche dorature d’una volta avevano lasciato solo qua e là dei patetici luccichii. L’invecchiamento della saletta, si capiva subito, era dovuto in gran parte all’invasione continua dei raggi d’un sole strapotente e arrogante, attraverso quella porta, probabilmente sempre spalancata. Questo particolare rendeva però il degrado più simpatico, più georgico, più accettabile di uno stato consimile riscontrabile nel chiuso uggioso e muffito d’un appartamento di città.

La saletta doveva anche servire per i pasti di famiglia, lo si capiva dalla presenza di piatti, caraffe, bicchieri, tazze, bottiglie, disposti in una delle vetrine. E doveva inoltre fungere da studiolo, come rivelava la presenza di numerosi libri, non puramente decorativi, alcuni dei quali riposavano aperti, insieme a varie carte, sopra un tavolino e un’adiacente scrivania. Che luogo simpatico, intimo, sereno, vissuto, privo di pretese, assolutamente genuino – andava riflettendo Clé.

In quella si udì una voce potente, squillante, là fuori sul terrazzo.

“Tanoo! Tanoo!” chiamava la voce: “Dicci a chiddi d’u fumiere d’assettarsi adduoco; uora sugno occupato (Di’ a quelli del concime d’accomodarsi di là; ora sono occupato).” Poi nel vano della porta, insieme a Malachite, comparve un aitante cinquantenne, in calzoni di tela rozza e camicia bianca aperta, alto, dalla corporatura ben modellata, miopissimo, sorridente.

“Papà, ecco Clé,” fece Malachite; e poi, “Clé, questo è papà Silvestro.”

I due uomini (Clé ovviamente s’era subito alzato) si strinsero la mano; poi tutti si posero a sedere. Clé notò subito i grossi sandali di cuoio scuro lavorati all’artigiana, calzati sui piedi nudi da Silvestro di Caltavuturo (to’, erano un po’ simili a quelli di Ursula ai tempi dei tempi!).

Malachite, con quelle misteriose antenne di cui sono munite le donne, notò che l’uomo-padre e l’uomo-amore potevano dirsi, in qualche strano modo, gente di pasta consimile. Clé era sicuramente più deciso, più fuodde (folle), quindi più pericoloso (attenzione prima di buttarsi!), ambedue però erano di coloro che mirano all’essenziale delle cose, che spregiano fronzoli, orpelli e formalità. Ne fu felice, si sentì sollevata. Inoltre meno male, le venne la riflessione fulminea, oh non c’è lei (la madre): “Chiddi, quei due, madre e Clé, sono fatti per non intendersi, per urtarsi soltanto a sguardi, figurarsi a parole... Teniamoli lontani finché possibile...”

“Allora, carissimo Clé,” disse con aperta cordialità il duca Silvestro, “raccontaci qualcosa della cavalcata giù per l’interminabile penisola. Ti sarai stancato, penso. Avrai divorato chili di polvere! Però, in confidenza, non era un poco imprudente farsi tutte le Calabrie da solo? Se ti si guastava la moto in mezzo a quei boschi della Sila, che facevi? Secondo me, sarebbe stato meglio affidarsi al piroscafo Napoli-Palermo. Con il bel tempo è una traversata da nulla, si parte la sera e la mattina eccoci ai piedi di monte Pellegrino, nel porto di Palermo.”

“Vero, verissimo, ma in quel caso avrei perso tante cose straordinarie. Per esempio Nicastro...”

“E che accadde a Nicastro, un paesone bigio come ce ne sono tanti?”

E qui Clé passò a raccontare di quello stormo di fanciulle rossobianco vestite, scalze, con brocche mitologiche per l’acqua sul capo, viste in controluce in una straordinaria nuvola d’oro, al tramonto. “Una scena indimenticabile per tutta la vita. Non come leggere Omero, ma come esser stato suo compagno. Altro che paesone bigio!”

“Ah sì, ti capisco,” acconsentì il patriarca. “Poi forse il tragitto via terra ti avrà fatto comprendere per dura esperienza, sotto la pelle diciamo, quanto noi siciliani siamo lontani da tutto e da tutti, vero? Eh, una volta la Sicilia fu cuore del Mediterraneo, e quindi del mondo. Non per nulla Federico II era così felice in Sicilia. Palermo era la New York del Duecento: greci, normanni, arabi, lombardi, burgundi, aragonesi, franchi, ebrei, catalani, genovesi, pisani, gente d’ogni lingua, colore e fede, circolava per le sue piazze, per i suoi mercati. Poi piano piano siamo rimasti indietro. Siamo diventati...”

“Dei periferici!” esclamò Malachite ridendo. “Ma sai papà, Clé adora le ‘periferie’... Perciò stai tranquillo, viene da noi con un cuore aperto, pieno d’entusiasmo.”

“Quella che è rimasta quasi intatta, se Dio vuole, è la nostra stupenda natura,” continuò il patriarca, e qui con perfetta semplicità citò quattro versi del suo amato poeta siculo Giovanni Meli:

’Sti silenzi, ’sta virdura

’Sti muntagni, ’sti vallati,

L’ha criati la natura

Pri li cori innamurati...

Il duca si coccolava nel dialetto? Certo! Anche a Villa Valginevra scoccava con spontaneità gradevolissima quel corto circuito che unisce in tanti luoghi diversi del mondo aristocratici e contadini. Clé aveva notato spesso il fenomeno in Piemonte, nel Veneto, e perfino nell’agro fiorentino. In Toscana, dicono, non esiste dialetto; si hanno però elisioni e aspirazioni, poggiature così forti e curiose d’accento, scelte tanto capricciose di vocaboli, che si costituisce di fatto almeno un sostituto del dialetto, che può risultare quasi incomprensibile agli estranei. “Gna mi hini hie” (bisogna che mi chini qui), e “t’arà i bai” (tu avrai i bachi), detto dalla nonna al nipotino con il mal di ventre, sono esempi classici.

Certo, i vari Corsini, Frescobaldi, Ricasoli non si spingeranno nel parlare a simili grotteschi estremi, però, una volta in fattoria, viene loro istintivo esprimersi con un linguaggio corrispondente, in essenza, a quello del patriarca Silvestro che dava istruzioni al suo Tano.

Intanto la cameriera stralunga con l’aria di maga era apparsa in silenzio portando in alto sul capo una scelta sontuosa di frutti, sopra un gran vassoio d’argento. Riecco Paolo Veronese in altro registro, pensò Clé di sfuggita. La donna apri la vetrina, ne trasse un paio di bottiglie di vino e dei bicchieri che depose sul tavolo. Poi spari.

“Anche questi frutti li ‘ha criati la natura’” osservò sorridendo il duca, “ma ‘pri li stomachi affamati’! Serviti Clé. Malachite, fagli assaggiare l’Annona Cherimolia... È un frutto peruviano. Ne ho piantato un paio di cespugli qui dietro nel giardino, il clima siciliano deve convenirgli, crescono benissimo!”

“Non ti allarmare,” fece Malachite, porgendo a Clé uno di quei frutti curiosi. “A vedersi sembra una pigna, ma poi profuma di banana, e sa di pesca! Da noi tutti è considerato ordinario. Vedrai quante scoperte... Siamo in periferia. Periferia alla grande!”

“Anche tu sei straordinaria!” avrebbe voluto esclamare Clé. Malachite, eccitata e confusa insieme, aveva attimi di prepotente bellezza. Il leggero incarnato delle guance trovava un giusto accordo di colori con la collanina di pietre celesti che portava al collo, forse una cosuccia da nulla, ma perfetta per l’armonia del suo personale arcobaleno. La camicetta chiara, con disegnini multicolori leggermente tracciati, faceva da sfondo indovinatissimo a collo, volto, capelli, braccia. Gli sguardi di Malachite e di Clé s’incrociarono per un attimo. Ambedue si seppero sicuri che i sentimenti quasi deliranti nati quella magica sera a Firenze, restavano intatti. Il loro era un gioiello di quelli che si raccolgono poche volte lungo le spiagge della vita.

D’un tratto s’udirono delle voci allegre nei corridoi della villa, poi la porta interna della saletta si spalancò.

“Buonasera, come state? Si può salutare il gran fuodde?”

Erano Virginia Corrao, la compagna di Malachite nel viaggio toscano, e suo fratello Luca. Stavano arrivando per la cena a Villa Valginevra da casa loro, disposta in un punto mirabilmente panoramico sui fianchi d’un monte all’altro lato di Bagheria.

“Hai visto, Virginia?” asseriva Malachite con brio. “Avevo ragione io. È arrivato per la via dura, quella dei Visigoti, ha fatto tutte le Calabrie. Ho vinto o no la scommessa?”

“Infatti,” rispose ridendo Virginia, con un biglietto nuovissimo da dieci lire in mano, “sono venuta per pagarla.”

Clé e Virginia si abbracciarono, ricordando gaiamente Firenze, la pensione della signora Rina, gli amici, i cori, nonché l’ormai famosa “lettera galeotta”. Clé e Luca si presentarono, avevano la medesima età, ma si contrapponevano come tipi umani diametralmente opposti: Clé con quell’aria svagolata d’anglo-vichingo, Luca con il suo sguardo intenso di siculo-fenicio. forse per questo erano destinati a divenire amici?

Poco dopo giunsero altri due ospiti per la serata: il professor Turi Musumeci, tra i cinquanta e i sessanta, alto, magro, con i capelli brizzolati cortissimi e i tratti del volto segaligno duramente scolpiti. Faceva pensare a una poiana, a un falco. Se sorrideva aveva l’aria accessibile, ma a osservarlo da serio si restava incerti: morde o no? Come abito, sui normali calzoni d’un anonimo grigio, portava una sorta di camicia-giacca, di un color ferro chiaro, con una lunga e alta fila di bottoni che gli arrivavano sino al collo; l’insieme faceva pensare al costume di certi nobili indiani – e Clé poi l’avrebbe ritrovata con qualche frequenza tra i notabili siciliani del tempo.

Il suo compagno era un grosso e biondo inglese sulla quarantina, residente a Palermo da molti anni, Michael Webster, ormai quasi completamente italianizzato, anzi siculizzato.

Approfittando della confusione generale, Malachite accompagnò Clé nella stanza che gli era stata destinata. Una quasi-cella, però molto accogliente, con una grande porta che dava sul giardino. Il suo sacco da montagna era stato svuotato, i suoi capi di vestiario addirittura stirati e distesi sul letto. Clé si affacciò fuori della porta, in giardino.

“Che profumi languorosi, da paradiso terrestre!” esclamò, poi guardando in alto, sempre fuori, notò che la sua porta era coronata da un grosso balcone barocco, con eleganti volute di pietra che scendevano, si poteva dire fino a terra.

“Chi dorme qui sopra?” chiese Clé, così tanto per dire qualcosa, veramente senza pensarci.

Malachite gli si avvicinò in silenzio, puntandosi un dito al naso con un sorriso enigmatico: “Io,” gli mormorò in un orecchio.

“Oh dio, davvero?” rispose sottovoce Clé. “Mi sa che stanotte farò l’alpinista...”

“Guai a te se non lo fai!” rispose Malachite con un filo di voce, contro l’orecchio di Clé. “Sarò la tua vetta.” Poi, con voce più alta: “Ora preparati per la cena, ti aspettiamo di là tra poco.”

La mattina dopo, prestissimo – il sole s’era appena levato in un cielo terso in modo superbo – Clé ebbe una gran voglia di uscire in giardino per capire un po’ a fondo dove si trovasse. La sera prima aveva intuito di sfuggita spazi, scorci, quinte, aperture di suprema bellezza. Si era ingannato o era tutto vero? Indossati maglietta e calzoni uscì all’aperto. Poco distante nel giardino di fronte un uomo sulla cinquantina, alto, robusto, scuro di capelli e di pelle, con una camicia grigia e l’immancabile coppola in capo, stava zappando all’interno di un’aiuola di fiori. Vedendo Clé, smise di lavorare e si drizzò.

“Voscienza benedica! (Vostra Eccellenza mi benedica)” disse nel più naturale e semplice dei modi; poi venne avanti con fare umilissimo, quello che si definirebbe in giapponese osorù-osorù (pauron-pauroni), si avvicinò a Clé, gli prese una mano e gliela baciò devotamente: infine in silenzio tornò alla zappa.

Clé restò di sasso, di sale, di stucco, tutto quello che volete. Si sentì sopraffatto e sopraffattore, umiliato e umiliatore insieme. Tutto s’era svolto così all’improvviso che non aveva potuto opporsi all’atto medievale, come avrebbe fortemente voluto in caso di maggior calma. Chissà perché gli venne in mente Rolando: se quello viene a sapere un particolare del genere, bisbigliava una voce segreta dentro di sé, sicuramente ti sputa in faccia: “Te’, feudatario schifoso! Padrone insolente!”

D’altra parte, in una di quelle sue fulminee tenzoni interiori, in un vortice d’amodio, Clé si trovò commosso. Eravamo o no in periferia? La grande, la santa, la mirabile periferia, il regno leggendario di Malachite e dei suoi? “Non lo permetterò mai più,” si disse, “ma per una volta leggiamolo come un segno nobilissimo di devozione, non a me, si capisce, ma al duca e ai suoi.”

Clé si avvicinò all’uomo, che continuava a zappare tranquillamente.

“Allora buongiorno! Siete voi il famoso Tano?”

“Sì,” rispose sorridendo l’uomo, sollevandosi lentamente come se la schiena gli dolesse, poi restando mezzo ricurvo appoggiato alla zappa. “Ma perché famosu? Accà famosu è soltanto U’dduca... E Vossia (Vostra Signoria) è il signore di Firenze, vero? È arrivato con la moto, vero? Mio figlio gliela sta lavando.”

“Oh, ma grazie!” esclamò Clé, ancora una volta sorpreso e commosso. “Non c’era bisogno di farlo... E poi lavorate sempre così presto, all’alba?”

“Eh sì, sono le ore del fresco... Dopo, il sole spacca la testa.”

Tano parlava in siciliano stretto, era difficile capirlo. Intanto Clé rimuginava in testa disordinati ricordi. “Ma dove l’ho già visto questo Tano?” si ripeteva. Poi scattò una di quelle strane scintille che collegano tra di loro i neuroni del cervello: ma sì, è la copia, un po’ più anziana e faticata, dell’appuntato Basilione, l’amore della povera Settima, tanti anni fa, a Ricòrboli! La quercia, il fulmine...

Medesimo profilo, medesimi colori tetri, funerei, stessi passi lenti e fatali, sguardi simili pregni di non-detto, enciclopedie del non-detto. Ora che ci pensava, il viaggio al Sud aveva condotto Clé nella Terra dei Cento, dei Mille Basilioni. I ricordi della fanciullezza trovavano spessissimo, nei campi, nelle botteghe, nei mercatini di paese, nelle piazze, riscontri e accostamenti; c’erano Basilioni più alti, più piccoli, più grassi, più magri, più ricchi, più poveri, ma tutti ovunque, si può dire da Lagonegro o Castrovillari in giù, avevano qualcosa in comune, per esempio quegli occhi di chi sa moltissimo e dice pochissimo. Per fortuna (o erano le particolari circostanze?) Tano si comportava da Basilione più loquace del solito.

“Voscienza vuol vedere il giardino, la villa?” chiese Tano al giovane ospite. “Adesso è il momento giusto! Tra un’ora o due il sole diventa assassino...”

Clé fece un cenno di saluto a Tano, gli raccomandò di ringraziare il figlio per il lavaggio della moto, e s’avviò per il suo piccolo giro d’esplorazione. Avrebbe certo amato farlo insieme a Malachite, ma le imposte del balcone della sua camera erano sbarrate. Del resto glielo aveva detto lei stessa: “Domattina sbrigati da solo con Marina per la prima colazione. Io sono dormigliona, i più bei sogni sono quelli del mattino! Ci vedremo verso le nove, o dopo... E papà se ne parte all’alba per le cantine di Traversa...”

Clé s’accorse subito che la villa era stata costruita sopra una collina, in una posizione privilegiata che dominava l’intero smisurato paesaggio circostante. Il terreno vicino era stato spianato e poi sorretto ai suoi confini da mura, non molto alte, ma sufficienti a creare un vasto terrazzo-giardino, limitato da una grossa e continua balaustrata in tufo biondo e poroso. Clé andò ad appoggiarsi con i gomiti sulla cimasa della balaustrata.

“Mamma mia che spettacolo! Ma questo non è un panorama,” ripeteva dentro di sé, “è l’aurora del mondo. È cosmogonia, è officina degli dèi.”

Nelle immediate vicinanze uliveti e limoneti, argentei e ascetici i primi, sontuosamente verdi i secondi, digradavano dolcemente verso il mare, a un paio di miglia più in basso. Dalle tonalità del verde allora si passava all’infinita gamma degli azzurri e dei cilestri marini.

La costa nord della Sicilia gli si sciorinava dinanzi agli occhi in baie e promontori, sempre più distanti, perciò sempre più delicatamente biadi e opalini; qua e là si scorgevano paesi, città, villaggi: Altavilla Milicia, Casteldaccia, Termini Imerese.

S’indovinavano perfino Cefalù con il suo capo, e sulla sinistra, verso nord, il vulcano spento d’Alicudi, l’ultima delle isole Eolie in direzione di ponente, distante quasi cento chilometri in linea d’aria.

Sulla destra l’occhio percepiva gran parte dell’ossatura montuosa siciliana, dalle cime delle Madonie, circonfuse di nebbie, al profilo arcigno e bitorzoluto del monte San Calogero, sopra Termini Imerese. A distanze più ravvicinate ecco una cavalcata di monti nudi e deserti, color terra di Siena bruciata, vere Tebaidi da romiti – o da banditi. Spiccavano con profili inconfondibili le vette sdirupate della catena di Caramigna, le cui valli profonde, disabitate, dormivano nel viola intenso, ombre ancora indisturbate dal sole giovane e basso.

“Ciao violino!” squillò allegra, fresca, una voce dall’altro estremo del gran terrazzo. Era Malachite che veniva avanti per raggiungere Clé alla balaustrata delle meraviglie.

“Ciao principessa di Trebisonda, sei venuta a sorvegliare il tuo mar Nero, ché non s’avvicinino i turchi?”

Malachite e Clé si abbracciarono un istante con tenerezza, poi la fanciulla si staccò dal suo giovane amico, tenendolo a distanza di braccio.

“Be’, capisci, se ci vede Tano che pensa?”

“Giusto, ma perché m’hai chiamato violino?”

“Come, non lo sai? Dicono che Stendhal, affacciandosi qui dal terrazzo, abbia esclamato: ‘La vista da questo punto trae suoni dall’anima come l’arco dal violino!’ T’ho veduto lì pensieroso, incantato, mi son detta: ecco, s’è fatto violino!”

“Altro che violino, qui ci si farebbe orchestra. Ti giuro che non ho mai e poi mai ammirato qualcosa di più straordinario da un terrazzo, da un giardino... E tu sei d’accordo?”

“Sì, sì, ma sai che ‘devo pensarci’! Purtroppo esiste quello che papà chiama scherzosamente ‘il callo al bello’... Insomma toujours perdrix, toujours perdrix, uno finisce che ci s’abitua. Ci vuole l’estraneo, il viandante, il pellegrino che si entusiasma – come te – e allora ci si risveglia dal funesto torpore per indigestione di bello. E ci si ricorda quanto siamo stupendamente privilegiati.”

“Così, ti senti privilegiata?”

“Certo! E...” bisbigliò poi avvicinandosi a Clé, “spesso me ne vergogno.” Malachite rise in un modo adorabile, tutto suo. “Ora ho altri privilegi, di cui non mi vergogno.”

“Che diavolo vuoi dire?” fece Clé, intuendo maliziosamente la risposta.

“Ah, ah,” la fanciulla allungò il braccio per tenere ben lontano l’amico, “ho l’amore riamato, ti par poco? E niente bacio, Tano ci guarda!”

Qui venne spontaneo a Clé di raccontare a Malachite i misteriosi avvicinamenti, nelle sue memorie d’infanzia, tra Tano e l’appuntato Basilione... Seguì la storia della Settima, i suoi pronunciamenti biblici, le sue familiarità con le serpi, la sua fama di maga, poi il temporale, la grande quercia, il fulmine spaventoso e mortale...

Malachite ascoltava con attenzione: quanto le piacevano i racconti, i ricordi, le vicende del passato, specie se un po’ misteriose, specie se tragiche!

“Anche qui sai,” aggiunse Malachite, quasi sopra pensiero, “sono successe cose misteriose, inspiegabili, sibilline.”

“Davvero? Perché non racconti?”

“Temo che non ci crederai... Ma è proprio vero! Ci fu un periodo in cui i miei, incoraggiati o istigati, come dite meglio, eh, voi toscani?, da una certa zia un po’ maniaca di queste cose, facevano spessissimo il gioco del tavolino... Sai, lo spiritismo, il tavolino a tre gambe e cose così. Be’ una notte (ma perché farle sempre all’oscuro queste cose? Già tale fatto ti mette il sospetto addosso, no?), insomma una notte qualcuno chiese allo spirito: ‘È vero che nella villa c’è nascosto un tesoro?’ Lo spirito rispose di sì. Allora figurati, tutti addosso a quel tavolino senza dargli pace un istante! ‘Guidaci al tesoro,’ dicevano. E il tavolino si mise a camminare per il salone. Il gruppo era a pianterreno. Il tavolino trascinò tutti fino a una scala. Dal che si capì che voleva salire, infatti lo portarono al primo piano. Qui si rimise in movimento e traversò un paio di stanze, fermandosi al centro di una saletta laterale, accanto a quella dove dormo io adesso... Nuova interrogazione: ‘Il tesoro è qui’ affermò deciso lo spirito. Emozionatissimi, mandarono a chiamare un muratore...”

“Nel mezzo della notte?”

“Certo, che c’è di strano? In Sicilia tutto è possibile se hai le conoscenze giuste... Arriva il muratore, toglie le mattonelle, scava un poco e, meraviglia delle meraviglie, compare una cassetta dall’aria antica, di legno. La tirano fuori con ogni cura possibile. Stranamente era leggera. ‘Ma che tesoro sarà?’ si chiedevano. Finalmente il grande istante. La cassetta viene aperta. Conteneva uno scheletrino di neonato. Per qualcuno, chissà quando, era stato ‘un tesoro’.”

“Francamente mette i brividi addosso. E tu c’eri?”

“No, non voglio ingannarti, io non c’ero, avevo otto o dieci anni, ero in collegio. Ma l’ho sentito sempre raccontare, anche da persone diverse, e sempre con i particolari identici. Del resto chiedilo a papà, stasera quando lo vedi. Lui c’era, credo.”

Malachite e Clé adesso stavano appoggiati con le schiene alla balaustrata di tufo; invece di guardare il panorama infinito alle loro spalle, osservavano la vasta facciata meridionale della villa. O almeno Clé l’osservava, con un senso indicibile d’incanto. Forse in altri tempi, in stagioni di cieli bassi e pesanti, là dentro si erano vissuti drammi e dolori, c’erano stati parti clandestini con minuscoli cadaveri da nascondersi in cassette e seppellirsi sotto gli impiantiti, ma ora la villa era tutta una festa di serenità impregnata di luce.

Indubbiamente c’era qualcosa di grandioso nell’edificio; prima di tutto nelle dimensioni, poi nella ricchezza dei fastigi a livello del tetto, quello centrale celebrante con un grande medaglione a bassorilievo la fondatrice del palagio, gli altri, degli statuoni di personaggi mitologici perfettamente commisurati alle proporzioni dell’insieme, giganteschi se visti da vicino, a misura giustissima se percepiti da lontano. Allo stesso tempo la villa emanava un’indefinibile umiltà e gentilezza agreste, forse dovuta alla squadratura sempre approssimativa, quasi nuragica, delle grosse pietre di tufo che costituivano i balconi e le mostre delle finestre. Il candore dell’imbiancatura, evidentemente rinnovata spesso, impregnava il fatato edificio di sole.

Nel quadro entravano numerose piante del Sud, fichi d’india, cactus, agavi, azalee, buganvillee, ed esse fornivano un raccordo del tutto appropriato con la natura spontanea del luogo, con le sue rocce calcaree erose in forme strane, con la sua terra rossa, con le essenze selvatiche dagli odori acri, i cavoli, i sedani di monte, le euforbie e i cespi d’elicriso.

“Voi, forse, avete ormai il callo al bello,” osservò Clé stringendo una mano di Malachite, “il povero viandante qui beve bello, tracanna bello, trangugia bello, e finirà per essere ubriaco di bello, steso a terra dal troppo bello.”

“Allora ti piace? Vedi che anche le periferie...”

“Malachite, come potevi dubitare del mio responso? Anzi ti dirò, è quasi eccessivo. Passa il segno. Mi distrugge. Non è semplice incanto. È droga, fattura, magia. Come potrò vivere in futuro! Solo di ricordi? Sarò reso per sempre orfano dal bello...”

Un ragazzotto con il berretto in mano, anche lui avanzando osorù-osorù verso la coppia, annunciò in siciliano stretto, prontamente tradotto da Malachite, che la moto, di là, era pronta, lavata, oliata e lucidata. I tre oltrepassarono il giardino, entrarono in casa, ne traversarono l’interno lungo i soliti corridoi oscuri, e sbucarono dall’altra parte. La Bmw 750, sollevata sul suo cavalletto, luccicava come nuova. Clé stava per dare una mancia al ragazzotto. Malachite però gli suggerì che sarebbe stato meglio farlo più tardi, alla partenza...

Clé intanto si guardava d’intorno. Com’era diverso questo versante della villa, tra ponente e tramontana, da quell’altro che dava sul mare e le coste siciliane!

Chiaramente qui stava l’ingresso, l’accesso al palagio da fuori, dal paese, da Palermo. La facciata principale, mossa, curvilinea, con scaloni scenografici, era un trionfo d’inventiva barocca. Anche qui statue e fastigi, a livello del tetto, che restava nascosto, costituivano parte ambiziosa dell’invenzione. Il corpo principale dell’edificio si completava, da questo lato, in due lunghe esedre ricurve, che nel Veneto si chiamano barchesse, a solo pianterreno, ospitanti un tempo scuderie e stanze di vario disimpegno. Questi due bracci serravano nel loro seno un vasto spiazzo circolare dove passi e voci risvegliavano echi sonori.

“Pensa,” osservò Clé, “cosa dev’essere stata questa corte ai tempi dei tempi, con arrivi e partenze di carrozze, dame e gentiluomini nei loro costumi da Flauto magico; e dopo il tramonto, le torce...”

“Sogni romantici, mio caro,” rispose con aria smagata Malachite, “ora con l’abbandono di decenni tutto è cosparso d’erbe selvatiche... Fa pena, lo so, ma pensa i soldi che ci vorrebbero per mantenere la villa come una volta. Ahimè, siamo dei sopravvissuti, temo. Il mondo moderno ci è contro. Eppure ‘il naufragar m’è dolce in questo mare’!

“Vieni di là,” fece poi con energia, come per riaversi da quell’attimo da “decadenza dei Buddenbrook” a cui s’era lasciata andare, “ti voglio mostrare il mio studio. Scusami sai, ma è ricavato dalla riunione di due delle antiche stalle per cavalli, lì nell’esedra sud. Bisogna arrangiarsi,” diceva guidando Clé verso una porticina verde nella barchessa di scirocco. “La villa, capisci, è divisa tra quattro rami della famiglia, eh che vuoi farci? Noi però siamo gli unici ad abitare qui tutto l’anno. Niente più palazzo a Palermo, come una volta. A papà piace la campagna, poi così è più vicino alla sua azienda dei vini.

“Ora la villa è vuota e silenziosa, ma d’estate ci vengono a stare anche gli altri, e tutto si popola. Al centro, nella porzione di rappresentanza e dei saloni, ci sta zia Carlotta, la vedova del principe Lauro, il fratello maggiore di papà, morto qualche anno fa. Sono gli eredi diretti del nome, della maggior parte dei titoli eccetera, e hanno un figlio maschio, mio cugino Eugenio, detto Lulù (Clé stava abituandosi ai nomi da bambole, o da coboldi, di molti uomini palermitani: Mimì, Fefé, Didì, Cecè e simili).

“Sul lato nord stanno i Diamante, altri cugini. Nella barchessa di tramontana, come la chiami tu, ha un suo appartamento la zia Fernanda, detta la Verginona, mai sposata, ottuagenaria simpaticissima, scrittrice di micromemorie di microfatterelli d’antenati e delle loro famiglie...”

Malachite aprì la porta e Clé pose piede in una vasta stanza, gaiamente illuminata da finestre irregolari, dove regnava un gradevole odore di vernici e di solventi.

“Allora, ecco il tuo studio, il tuo rifugio, il tuo regno!” esclamò Clé. “Sarai felice quando ti ci puoi ritirare, vero?”

Malachite si strinse accanto a Clé, di colpo le era tornato quel visino angosciato di poco prima, faceva quasi pena.

“Sai che ci vengo di rado adesso... Ahimè sono in crisi, crisona, crisaccia. Da qualche mese ho scoperto una cosa triste: che non so dipingere. E ciò dopo quattro anni d’Accademia a Palermo, pensa che guaio. E grave, no? Ho poi capito una cosa terribile, che non saprò dipingere mai. Perciò basta. Tra poco butto via tutto...”

Clé notò che Malachite aveva le lacrime agli occhi. Cercò di confortarla.

“Ma tutti gli artisti hanno queste crisi, è parte della loro carriera segreta... Non ti devi perdere di coraggio. Quei ritratti appesi alle pareti sono tuoi? Ti dirò subito che i volti sono vivissimi... Quello è Tano, vero? Lo si riconosce subito... E quella è la tua amica Virginia, anche di lei un’immagine molto riuscita.”

“Sarà anche vero,” rispose Malachite con un tono grigio di voce, “il guaio è che sono delle specie di fotografie, capisci? Ho imparato la tecnica, ma non riesco a trovare un mio stile personale.”

“E quel nudo luminoso in piedi, accanto al tavolo con fiori e frutta?”

Malachite rise. “Sì, anche quello è mio. Ma non sai le storie che mi fecero in Accademia perché riprodussi la modella come la vedevo, cioè con i suoi bravi peluzzi sul pube. Quanto sono ipocriti i professori!”

“Oppure era una scusa per parlare di sesso con una bella studentessa?”

“Già, forse, non ci avevo pensato... Ma insomma adesso non m’importa più di nulla. Ho smesso di pensare all’arte. Sono una fallita da quel punto di vista. Punto e basta.”

“Punto e bacio!” esclamò Clé, prendendola tra le braccia e carezzandole a lungo il collo, la bocca, le guance, le orecchie con le labbra. “Tanto qui Tano non ci vede, vero? Sono sicuro che ritroverai un senso nella vita. Lo ritroveremo insieme, che ne pensi? Sarà meraviglioso risalire la china in compagnia, no?”

Malachite si staccò da Clé. Si appoggiò a un tavolo. I due stavano uno di fronte all’altra. “Mah, non so... Se proprio devo essere franca, non sono sicura al cento per cento... Sei troppo fuodde. Oggi qui, domani là, domani l’altro chissà dove... Sei come i tonni, oggi in Sicilia, domani in Sardegna, domani l’altro alle Baleari! Ci amiamo è vero, ma non sento fondamenta sicure sotto i nostri piedi. La mamma, ti dirò, vuole che sposi un ricco milanese (che lei dice di avere già individuato) per risollevare le sorti della famiglia, pensa un po’.

“E ti dirò che la mamma, senza conoscerti, ti odia già, perché non sei né milanese né ricco: solo toscano, trecento chilometri a sud del punto giusto, e solo modicamente benestante, dunque mille miglia dall’agognata meta... Povera Malachite, oggetto per aste! Carota per asini milionari!”

“E tu ci staresti a un simile sacrificio dinastico da romanzo dell’Ottocento?”

“Non so che dirti Clé... Qualche volta, quando vedo tutto che decade qui d’intorno ci penso e ci ripenso. Amo la villa, la gran terrazza, con il suo panorama che tu chiami ‘l’aurora del mondo’, in un modo sciocco, balordo, ossessivo. Talvolta farei qualsiasi cosa per aiutarne il salvataggio.”

“Segnorita,” chiamò Marina da fuori, “c’è una sua amiga al telefono.”

Malachite scappò di là. Clé rimase solo con i suoi pensieri, molto scosso. La solita superficialità, di cui si rendeva conto sempre troppo tardi, lo aveva condotto a contentarsi d’un mare di apparenze. Piano piano stava capendo tante cose, addirittura elementari per qualcuno un po’ meno bambinone di lui. Il proprio affetto e passione per Malachite li sentiva fermissimi e duraturi. Da quando aveva incontrato la fanciulla a Firenze, erano divenuti dei capisaldi della propria esistenza.

Sposarsi o non sposarsi, poteva ancora restare una questione aperta, ma intanto ribolliva un oceano di sentimenti mai vissuti prima; come definirli se non “un grande amore”? L’intesa con Malachite era perfetta a ogni livello: da quello fisico di pelli, ritmi, cieli, paradisi, a quelli emotivo e intellettuale.

Ma ora all’improvviso il terreno stava franando sotto i suoi piedi. Almeno potenzialmente tutto si rimetteva in discussione, nella voragine dei dubbi. Era un dolore lancinante, e allo stesso tempo, Clé se ne rendeva appena conto, un’umiliazione cocente.

Malachite tornò di corsa dicendo che nel pomeriggio un gruppo di sue amiche e amici, compagni d’Accademia e altri ancora, sarebbero venuti con due o tre macchine da Palermo fino a Bagheria.

“Vogliono conoscerti e festeggiarti!” esclamò nuovamente, con una di quelle sue tipiche capriole emotive, in fase d’entusiasmo mussante. “Offriremo una piccola festa qui nel mio studio... Vedrai come sono tutti simpatici! Marina e io prepareremo tutto con cura. E tu? Se ti recassi a fare un giro in moto? Vai a vedere capo Zafferano – ne abbiamo già parlato –, un picco spettacolare sulle onde del Tirreno. Ci andremo poi anche insieme per nuotare... Ma intanto potresti renderti conto delle meraviglie che abbiamo a portata di mano, anzi di ruota... Chiedi prima di Santa Flavia, poi tutti sanno dov’è capo Zafferano. Ciao, baci, a presto.”

Clé, francamente un po’ frastornato, inforcò la moto e partì.

Appena fu per strada si sentì sollevato. Fin da bambino era stata sua abitudine cercare e trovare conforto a dolori, angosce, miserie, schiaffi segreti della vita d’ogni genere e colore, nella natura. Via a tutto gas dunque, a velocità fuodde fino a Santa Flavia, a pochi chilometri da Bagheria; poi ecco Porticello, un minuscolo borgo di pescatori, allora formato da un cumulo omogeneo di candidi cubi a tetti piatti, disposto tra fantastiche rupi d’un grigio argenteo con striature di giallo oro. Oltre le ultime case, si profilò il prodigio, capo Zafferano!

Il mare intensamente azzurro faceva da sfondo: rupi d’un calcare ora candido, ora bluastro, ora a chiazze o strisce d’oro si ergevano da ogni parte; in basso lande di terra rossa, cosparse di strane piante stecchite, univano un elemento dell’agitato paesaggio all’altro.

Capo Zafferano stesso pareva un’onda smisurata di maremoto pietrificatasi di colpo.

Clé lasciò la moto sotto un carrubo e s’arrampicò come un camoscio fino sulla cima del capo. Ma era una piccola cima dolomitica, circondata dal mare!

Innumerevoli barche di pescatori, allora ancora a vela, fiorivano come candide corolle sui prati celesti, tornandosene verso Porticello. A levante la costa, una ghirlanda di capi e di baie, si poteva seguire sino alla massa oscura di Cefalù con la sua rupe, a ponente il sole andava calando oltre monte Pellegrino dal profilo riconoscibile tra mille. Con un’occhiata sola si carpivano cinquanta, sessanta, forse cento, chilometri di Sicilia. Che posti! Che respiro! Che magnificenza!

Per chi sente, ama, onora la natura, era come per il conoscitore d’arte scoprire un ignoto Michelangelo, un Fidia mai nominato, un Beethoven sepolto in un cassetto. “Malachite? E che me ne importa di Malachite? Questa splendida, incredibile Sicilia non è uno sfondo per lei e i suoi incanti, è lei che è un puntolino qualsiasi su questa geografia di meraviglie! Lei e la Sicilia mi sono entrate insieme nella vita, ma se lei dovesse mancare, mi resta, eccome, questa Sicilia. Un nuovo amore a sé, del tutto indipendente.”

Clé vagava qua e là, su e giù, tra le rupi del capo scolpite da millenni di venti salmastri, saette impazzite, mareggiate furiose.

Il viandante poteva dire ancora ben poco dei siciliani, avendone conosciuto un numero troppo esiguo, ma la terra di Sicilia, oh quella sì, lo stava innamorando alla follia. Fin da bambino Clé aveva vissuto il contatto geologico e botanico con il mondo in modo elettrico, passionale, vorrei dire in modo sensuale, quasi erotico. Amava certe terre, certe pietre, certe vegetazioni come si amano certe donne per la loro pelle, capelli, occhi, odori, profumi, voci, gesti, orgasmi – del tutto separatamente dagli affetti e dai sentimenti.

Il mondo delle rocce calcaree (Dolomiti, Apuane, Gran Sasso) gli produceva immediata erezione spirituale, e suprema gioia tattile, visiva, olfattiva: tra gli schisti e gli gneiss si trovava invece a disagio, a meno che non fosse in alta montagna, dove ghiaccio e neve purificano la pietra, portandone fuori l’essenza, l’ossatura denudata. In quanto alle arenarie, lo riempivano d’indicibile fastidio; tra lui e loro scattava un autentico rifiuto epidermico.

Fortunatamente capo Zafferano e dintorni gli offrivano un tumulto spasmodico delle più amate rocce calcaree: girandogli intorno, Clé aveva anche scoperto un titanico arco naturale. Festa dunque, festa grande! E per di più, ecco tutta una vegetazione nuova e sorprendente: ombrellifere vistose come arbusti e odorose come dispense di spezie, timi giganti, thlaspi orgogliosi, cespugli d’euforbie maleodoranti ma simpatiche, asfodeli ormai sfioriti, e certi pulvini di sedum a fiorellini gialli resistenti alle arsure più disperate. Per i famosi zafferani (da cui il nome capo Zafferano) doveva essere ancora presto.

Clé, del tutto rappacificato con la vita, calò di nuovo al piano, riprese la moto e se ne tornò a Bagheria.

Entrato nello studio di Malachite vide che gli amici di lei, sei o sette tra ragazzi e ragazze, erano già lì. Ebbe timore di averli fatti attendere, ma fortunatamente anche loro avevano perso tempo per la strada, ed erano sbarcati nel cortile della villa solo cinque minuti prima. Malachite fece le presentazioni, offrendo subito saggiamente in giro dolci siciliani (esplosivamente zuccherini) e spumante.

Dopo pochi minuti sembrava che i presenti, Clé compreso, si conoscessero da anni. La domanda di rito pareva fosse: che ne pensi della Sicilia? Clé restò commosso: dunque i ragazzi tenevano alla loro isola, e alla sua reputazione, in modo spasmodico. Che differenza dall’aria ironica di superiorità su tutto e su tutti che prevaleva tra la maggioranza dei fiorentini!

E qui per un istante passò per la mente di Clé una curiosa riflessione: non c’era qualche somiglianza tra la freschezza e l’entusiasmo di “questi” siciliani (altri potevano certo essere ben diversi) e i lontani amici di Trieste? Impensato salto d’avvicinamento tra estremi...

“E dei siciliani cosa pensi?” chiese più d’uno.

Clé si schermiva ridendo. “Ne conosco troppo pochi per averne ancora un’opinione... Lasciatemi respirare! Gli esseri umani sono ben più complicati delle pietre, delle montagne, degli alberi.” E lì venne fuori una simpaticissima proposta di Franco Lalumia, il quale sembrava un tantino più anziano degli altri (infatti Clé seppe poi che era laureando in Architettura).

“Il prossimo fine settimana,” annunciò Franco, “abbiamo due feste di fila. Che ne direste di condurre Clé a fare un giretto, almeno per la Sicilia del Nord? Potremo mostrargli tante cose, fargli conoscere tanta gente, insomma propinargli un corso intensivo di Siciliologia teorica e pratica, analitica e sintetica... Disponiamo di due macchine, come stasera. Sarà una cosa piacevolissima per tutti! Che ne dici Malachite? Chi approva alzi la mano.”

Tutti sollevarono la mano. Il guaio fu che alla fine risultarono più persone che posti. Clé pensò di risolvere il problema offrendosi di prender parte al carosello con la sua moto, aumentando così di due il numero di posti. “E volendo ci si può stringere anche in tre sulla vecchia Bmw...”

Un po’ più tardi la compagnia si trovò per i saluti nel silenzioso cortile della villa, subito ricco d’echi molteplici, incrociati, di voci e risate. Una grande luna splendeva in cielo. Non era ancora tardi.

Qualcuno lanciò la proposta: “Che ne direste d’un salto a Palagonia?” “Sì, sì, buono!” risposero tutti. La banda di giovani discese dunque in vari gruppetti per il vialone fino al cancello. Poi cento metri di strada ed ecco l’ingresso di Villa Palagonia. Come al solito in Sicilia, chi ha buone connessioni ottiene tutto. Malachite conosceva benissimo il custode, la sua famiglia... Poveretti, stavano andando a letto, ma di fronte alle pressanti richieste aprirono il cancello. “Non più di mezz’ora, mi raccomando!”

“Questo sì che è un privilegio!” esclamò Malachite prendendo Clé a braccetto. “Neppure io sono mai stata a Villa Palagonia con la luna... È pura magia, vero?”

Ma cos’è questo particolarissimo luogo? Intanto il nome fusco e bislacco deriva dal paesotto di Palagonia, non lontano da Caltagirone, nella Sicilia del Sud, feudo di uno dei venticinque principi palermitani, e precisamente dei Gravina. La villa fu costruita pare nel 1715, in piena stagione barocca, ma il bello aveva avuto inizio dal 1747, quando il nipote del fondatore, Ferdinando Gravina, cominciò a far scolpire, da una bottega di propri artigiani, tutta una serie di statue in tufo, a grandezza appena minore del naturale, con cui poi andò coronando le cimase delle due barchesse disposte a cerchio intorno alla corte d’ingresso.

I soggetti delle statue (la loro iconografia, direbbe un pedante) sono frutto del capriccio più sfrenato: gnomi, draghi, cavalieri, mendicanti, ignude amorose, soldatacci, maghi, alchimisti, nonché tutta un’orchestra di pietra. C’è il grottesco e il tremendo, il patetico e l’orrido. Un buono psicanalista potrebbe ricostruire da questo popolo conturbante l’endocosmo turbolento e torturato del principe – conosciuto anche da Goethe e descritto in un’aura di estrema stranezza, se non di benevola follia.

Il popolo locale ha sempre parlato dei “mostri di Palagonia”, ma il termine è insieme troppo generico, e troppo preciso. Non sono mostri, sono molto di più, se uno li studia uno per uno da vicino... Ma adesso era difficile poter interpretare le sculture nel misterioso splendore lunare; apparivano come nere sagome indecifrabili, se disposte in controluce, oppure come diafane larve, se illuminate dall’astro notturno. Certo, allora Malachite, Clé e i loro amici godevano di un vantaggio da lungo tempo soppresso. Oggi dietro i “mostri” si levano ignobili caseggiati tirati su in spregio d’ogni protezione del paesaggio, d’ogni rispetto per le testimonianze del passato; allora le sculture della bottega Gravina spiccavano ancora pulite contro l’infinito del cielo.

Terminata la visita (contenuta nella mezz’ora promessa), partiti gli amici, consumata la cena in famiglia, Malachite e Clé si recarono in giardino, sedendosi presso la balaustrata di tufo a chiacchierare, a ritrovarsi in rinnovate tenerezze, dopo il corto circuito del pomeriggio. I profumi notturni dei fiori, per lo più nuovi per Clé, erano talmente intensi e sontuosi da far girare vagamente la testa.

D’un tratto, a una distanza assai ravvicinata, nel buio profondo dei limoneti ai piedi del muro di sostegno del gran terrazzo-giardino della villa, s’intesero due, tre colpi d’arma da fuoco, seguiti da un urlo terribile che si perse subito in un gemito. Dopo di che, silenzio assoluto. Nessuna voce, nessun rumore di passi. Nulla. Notte, luna, mistero.

“Malachite!” esclamò subito Clé molto impressionato, un tantino impaurito. “Cos’è, che succede? Non sarà il caso di chiamare qualcuno? D’avvertire la polizia, i carabinieri? Stai qui, vado subito...”

“Ma no!” rispose Malachite, senza scomporsi, stringendo forte un braccio di Clé. “Non ti muovere! È semplicissimo. Si ammazzano tra di loro. Mai occuparsi di simili cose. Hai davvero sentito qualcosa? Io direi che non abbiamo sentito nulla. Proprio nulla.”