10. Sulla coffa di trinchetto
Un bel mattino del maggio 1934 Clé fu chiamato al telefono nientemeno che dalla contessa Galina Ouspensky, la madre russa della fidanzata, poi divenuta moglie, dell’ingegner Fabrizio Morgen-Wallace. La signora invitava il ragazzo a recarsi nella villa di lei presso Ponte a Ema, “per parlare di una certa cosetta”.
La prima reazione di Clé fu di vago timore. Perché? Un paio d’anni prima, durante una festa in una delle tante ville dei dintorni di Firenze, era successo che Clé, appena ventenne, si fosse scoperto in grande e subitanea sintonia con una delle giovani sorelle Ouspensky. Ridendo e celiando, non avrebbe saputo neppure lui dire come, s’era ritrovato con la gustosa e vogliosa fanciulla tra le braccia nel fienile accanto alla villa. Le ore erano trascorse beate e rosee in quel profumo d’erba e di fiori secchi, con il seguito fortunato che, quando i due riemersero tra i vortici della festa, nessuno aveva notato la loro assenza.
Il felice incontro era rimasto dunque isolato e segreto, senza conseguenze d’alcun genere. Qualche volta Clé aveva rivisto di sfuggita la fanciulla, ma la sapeva legata ad altri e i loro incontri fugaci si sublimavano in dolci sorrisi ricchi di sottintesi, e basta. Che l’invito a “parlare di una certa cosetta” con la temibile madre della giovane russa riguardasse in qualche modo le segrete dolcezze del fienile in una notte ormai lontana? La ragione di Clé gli diceva “impossibile!”, ma l’immaginazione tracciava esiti sussultori e preoccupanti.
Clé sali con il batticuore le lunghe scale della Villa Ouspensky, condotto da una giovane e graziosa cameriera nella solita uniforme bianca e nera del tempo. La nobildonna venne incontro all’ospite, con le due mani tese in avanti e il volto atteggiato a una quasi teatrale felicità.
“Oh, mio caro Raimondi,” esclamò, “che piacere rivederla! Sediamoci... Ora mi parli di lei!”
La contessa Ouspensky era alta, imponente e inquietante; per qualche indefinibile ragione l’aria intorno a lei sembrava sempre fortemente agitata, viveva, come dire, in regime ciclonico. Portava i capelli nerissimi (caucasici?) lisci sul capo e riuniti a palla sul collo, vestiva in un modo del tutto personale e talvolta sorprendente, sottolineava ogni tanto qualche frase con mosse da maga delle mani e atteggiamenti drammatici del volto. Si capiva subito che era una marescialla abituata a esercitare un potere assoluto sulla numerosa famiglia; la quale, grazie alla sua energia, decisione e intelligenza era stata condotta in salvo attraverso un mondo in fiamme, popolato di iene. La sala della villa, al primo piano e con vista sui campi d’intorno, era colma di ricordi russi d’ogni genere: icone in cornici d’argento e dorate, scatole laccate, samovar di molteplici forme, dimensioni e metalli, cappucci ricamati, e tante altre cose ancora, per esempio delle patetiche bamboline matrioska.
Visto che Clé si guardava curioso in giro, la contessa intuì quello che il ragazzo avrebbe voluto timidamente chiedere. “Ah, ah, caro Raimondi!” spiegò sorridendo. “Ora siamo qui comodi, sicuri, beati, tra tante testimonianze della nostra grande, grandissima Russia, ma non creda che abbiamo portato di là uno solo dei tanti oggetti presenti (grande sottolineatura di voce, eminente stralunamento d’occhi...). Siamo arrivati a Firenze nudi, come mendicanti. Ah, è stato terribile! Che tempi, che mondo! Poi piano piano, tra regali di parenti e di amici, con la benevolenza di conoscenti e compatrioti, ci siamo ritirati su... Ma ci sono voluti anni, creda.”
La camerierina graziosa entrò portando un lussuoso vassoio d’argento, con teiera, tazze e zuccheriera. Anni più tardi Clé avrebbe appreso alcuni segreti della cerimonia del tè, come si è sviluppata in Giappone, ma tante volte allora gli sarebbe venuto da riflettere: “Però anche da noi, in Occidente, esiste una cerimonia del tè! Soltanto che non ha nome e nessuno ne parla... Si fa e basta: eppure c’è, eccome se c’è!” Infatti la contessa preparò la bevanda per l’ospite con tutte le dovute moine e tutti i gesti di rito, chiedendogli anche se lo preferiva con il limone o con il latte, oppure senza niente... Finalmente si venne al messaggio: ormai Clé era strasicuro non riguardasse minimamente l’episodio faunesco e ribaldo del fienile; in cosa poteva mai consistere allora? La curiosità del giovane era divenuta quasi frenetica.
“Mio caro Raimondi,” prese a dire la contessa, “so che lei ha pratica dell’inglese, vero?”
“Eh già,” rispose il ragazzo, “sono stàto fortunatissimo... La mamma, come sa, è inglese. Ma ciò non basta affatto. Di mamme inglesi ce ne sono tante! La mia mamma ha tanto insistito nei modi più diversi, perché imparassi non solo a parlare la lingua, ma a leggerla e scriverla... In fondo è come possedere un piccolo tesoro...”
“Bene, bene, sono sicura che lei ha anche sentimenti profondi di patriottismo per questa nostra bella Italia, vero?”
“Certo, sicuro, ci mancherebbe altro!” (Ma dove voleva andare a finire l’enigmatica nobildonna? Tutto era ancora molto misterioso.)
“Allora, a nome di un alto ammiraglio mio amico, vorrei proporle un progetto singolare, che spero le interesserà. Si tratta di questo: la prossima estate lei dovrebbe dedicare – in cambio di un certo compenso, si capisce – un paio di mesi del suo tempo agli allievi dell’Accademia Navale di Livorno... Se acconsente, come spero, s’imbarcherà sulla nave scuola Amerigo Vespucci ai primi di luglio, restando a bordo per tutta la crociera estiva, che credo quest’anno debba svolgersi nel Mediterraneo. Il suo compito sarà quello di conversare in inglese con gli allievi, ma nel modo più cordiale, da compagno tra compagni, evitando lo stile accademico... Allora che ne dice?”
Era evidente che Clé, con la sua sete d’esperienze d’ogni genere, con la sua fame d’orizzonti, il suo romanticismo (vela!), fosse destinato a dire di sì. Quella diavola della sciamana circassa aveva indovinato giusto. Non restava che mettersi in contatto con il misterioso “alto ammiraglio” per prendere gli accordi del caso.
Clé aveva già visto da lontano la Vespucci, con le sue arcaiche e affascinanti fiancate bianche e nere, i suoi oblò che facevano pensare a boccaporti per cannoni dell’epoca napoleonica, con le sue grandi vele bianche, l’aveva vista passare al largo di Castiglioncello, all’epoca dei suoi primi contatti con il mare. Mai e poi mai avrebbe pensato di mettere davvero piede un giorno sulla bellissima nave, e non da turista, ma come un addetto ai lavori – almeno in tono minore. Che emozione qualche settimana dopo, porre piede sulla scaletta d’accesso ai ponti, salutare l’ufficiale di guardia, e poi sistemarsi in una minuscola ma comoda cabina a poppa della nave! In qualche curioso modo, tutto sapeva di favola. Clé vibrava d’emozioni deliziose, forse piuttosto infantili, ma proprio perciò intensissime.
I primi incontri, nel basso e largo refettorio della nave, con una sessantina d’allievi, più o meno suoi coetanei, furono curiosi. La consegna del comandante era stata: “Ricorda, tu sai solo l’inglese, anzi sei un inglese. Non far capire a nessuno che sei italiano, per di più fiorentino, sarebbe un vero disastro!” Agli allievi era stato detto all’incirca: “Durante la crociera sarà a vostra disposizione un giovane inglese, conversate liberamente con lui, approfittatene.” Naturalmente, trascorsi due o tre giorni di doverosa commedia, la realtà venne fuori. La reazione degli allievi fu inizialmente piuttosto sguaiata, come ci si può immaginare. “Eh, ce lo potevi dire! Ma che ci volete prendere in giro?” Scoppiarono anche alcune sonore pernacchie. Fortunatamente la scoperta avvenne quando, come succede a vent’anni, gli allievi e Clé si erano già presi in forte reciproca simpatia. Anche il comandante dovette convenire che era impossibile portare avanti la finzione per più d’alcuni giorni, figurarsi per i due mesi della crociera!
A furia di tentativi e di aggiustamenti si raggiunse la più logica delle soluzioni. All’inglese venivano dedicate un paio d’ore di lezione-conversazione a gruppi successivi di otto o dieci allievi. E dove si tenevano questi corsi? Clé aveva scoperto un posticino ideale: la coffa dell’albero di trinchetto della nave! Per chi non lo sapesse la coffa è una sorta di terrazzo-balcone, o meglio una specie di paniere in legno, sospeso a una dozzina di metri dalla tolda, circondato dai cavi che sostengono il punto in cui si congiungono i due segmenti dell’albero di trinchetto. Lassù tirava sempre una brezza incantevole e si sentivano forte gli odori del salmastro marino. Qualche volta, se il mare era un po’ burrascoso, Clé preferiva la coffa dell’albero maestro, che era più grande, e inoltre risentiva meno dei rollii e dei beccheggi che subiva la nave.
Clé era preso dai suoi turni praticamente tutta la giornata; era un’occupazione simpatica per la collaborazione volonterosa della maggior parte degli allievi e per i legami d’amicizia che andavano sviluppandosi con i vari gruppi. Gli allievi erano molto provati dalla vita rigidamente regolata di bordo, la quale aveva inizio alle cinque di mattina e durava talvolta fino alle dieci di sera. Avveniva quindi ogni tanto che i meno resistenti finissero per addormentarsi in quella culla isolata e protetta che era la coffa, durante l’ora di inglese. Clé cercava di tenerli svegli con l’inglese meno scolastico e convenzionale possibile, magari allegramente matto o goliardamente osceno. Poi c’erano sempre i limericks (limericchi) a dare ossigeno. Si andava dal classico:
There was an old man of Abruzzi
So blind he could’nt his foot see
When they said “that’s your toe”, he replied “is it so?”
That extraordinary man of Abruzzi...
al limericchio che si dice composto da un gruppo di famosi fisici (Einstein in testa?) durante un congresso, e che avvia un discorso finissimo sul tempo-spazio:
There was a young lady of Bright
Whose speed was greater than light,
She eloped one day, in a relative way
And returned on the previous night.
Infine quando l’attenzione s’affondava nel plumbeo ci voleva un risveglio energico, una frustata:
There was an old man whose good luck
Provided him virgins to fuck.
But when his collection, was nearing perfection
His prick started losing its pluck.
Durante i primi giorni il mare si presentava in liscissima calma, e la nave procedeva (vergognosamente!) con l’ausilio dei motori, senza vele. Di conserva, a qualche miglio di distanza, seguiva anche la nave sorella, la Cristoforo Colombo, bella e romantica, specie la sera quando appariva come un’elegante vignetta in nero assoluto sul mare violaceo, contro le nubi arancioni del tramonto. Sulla Colombo era imbarcato, con le stesse mansioni di Clé, un suo giovane amico, rampollo d’una nota famiglia della nobiltà fiorentina.
La seconda o la terza sera della crociera, le due navi passarono vicine all’isola di Stròmboli. La notte era scesa da poco ma il cielo a ponente era ancora perlaceo e luminoso; la grande montagna sorgeva come una massa nerissima dalle onde, leggermente increspate e dai riflessi verdi. Clé restò molto impressionato dalle eruzioni regolari del vulcano che si presentava in modo così alto e tracotante. Non s’udivano rombi o scoppi, ma ogni pochi minuti aveva luogo lassù, presso la vetta, una prodigiosa vampata di fuoco rosso con pioggia di scintille; era come il respiro febbrile d’un mostro. In simili circostanze si comprendeva facilmente la leggenda d’Ulisse e di Polifemo!
Tremila anni prima, girando per un universo in massima parte ancora inspiegato e inspiegabile, lo Stròmboli doveva essere spettacolo da brividi che scuotevano le ossa: presenza suprema dell’inquietante assoluto.
A Reggio Calabria breve sosta. Chi doveva mai improvvisamente apparire tra la piccola folla allineata sulla banchina del porto? Malachite! La quale, avendo letto sui quotidiani che le navi scuola transitavano dallo stretto di Messina, era venuta fin là da Bagheria in gita d’automobile, insieme alla sua amica Virginia e al fratello di lei Luca, sperando al massimo di salutare da lontano i galeoni sventolando fazzoletti o improvvisate bandiere. Invece c’era possibilità d’un vero incontro. Clé notò subito la fanciulla, con i suoi ricci biondi e la sua persona vistosa, omaggio vivente al pennello di Paolo Veronese. Si riconosceva tra mille! Bella, entusiasta, magica.
Ma ora come comportarsi? Clé aveva il suo seguito di allievi, ragazzotti ventenni, alcuni tontoloni e tranquilli, altri più svegli, scanzonati, e tutt’occhi spalancati per quanto accadeva nel mondo che li circondava. In che maniera giustificare quest’incontro fin troppo espansivo con una fanciulla di prorompenti attrattive? Clé si trovò nervosissimo, quasi colto in qualche flagrante delitto. Dire “è la mia fidanzata” impegnava eccome, e forse significava tirarsi addosso chissà che interrogatori spavaldi da parte degli allievi, e magari degli ufficiali. Senza contare che i suoi erano ancora pensieri informi, feste vaganti tra le nuvole, insomma cose celate in pectore!
Per fortuna Virginia e il fratello avevano programmato una colazione in una villa d’amici nei pressi di Reggio, e per addizionale buon caso la sosta in porto si preannunciava abbastanza lunga per effettuare il programma.
Con la sera giunse il momento della partenza. Strazio: baci, addii segreti fuori degli sguardi d’occhi dissacranti!
Poche ore dopo, l’Etna dominava l’orizzonte, ma era presenza molto meno drammatica e mitologica dello Stròmboli. Ormai la nave avanzava in pieno mare Ionio.
La mattina di poi Clé si svegliò prestissimo, colpito da un misterioso silenzio. La nave viaggiava, eccome, si udiva il fruscio dell’acqua marina lungo i suoi fianchi, e si avvertiva un ondeggiare nervoso, ben diverso dall’abbandono d’uno scafo spinto da eliche; c’era qualcosa di nuovo nell’aria, la nave pareva viva, quasi avesse un’anima. Clé s’infilò sveltissimo i calzoni, si dette una lavata lampo al muso e schizzò di sopra, sulla plancia. “Ah, lo dicevo!” esclamò.
La nave stava infatti procedendo, come la sua natura comandava, in pieno assetto di grande veliero! E così continuò per un paio di giorni. Tirava un vento teso e sostenuto di gran largo, da nord-ovest, perfetto per venire sfruttato dalla velatura al completo. “Sai,” disse a Clé un allievo, il Nutelli, con il quale principiava a profilarsi una vera amicizia, “il nostro comandante è un patito della vela... Appena è possibile fa spengere i motori e ci manda a riva per sciogliere le vele al vento. Vedrai che arriveremo a Creta senza più colpi di motore... È bravissimo!”
Clé cominciava ormai a identificarsi in pieno con la nave, con il suo equipaggio, con la vita di bordo. In pochi giorni aveva imparato i nomi di tante cose; per esempio degli alberi, “trinchetto”, “maestra” e “mezzana”, con i loro fusti maggiori e minori, e con le loro vele, di cui se ne contavano ben diciotto, oltre i fiocchi del bompresso; e andavano dal “controvelaccino di trinchetto”, alla “gabbia volante di maestra”, e dal “parrocchetto fisso di trinchetto”, alla “gabbia volante di maestra”, per non dir nulla della “randa”, con il suo “boma” gigante. Poi c’era tutta la nomenclatura di parti della nave, e Clé prese subito in simpatia la “pazienza”, quel luogo ai piedi degli alberi dove andavano fissati, con nodi speciali (altre nomenclature!), tutti i lunghissimi cavi che regolavano il respiro delle vele.
Bisognava inoltre fare uso delle giuste espressioni riguardanti i vari casi e momenti della vita marinara: “andare a riva” non significava recarsi sulle spiagge della costa, bensì arrampicarsi con la velocità di gatti su per le sartie, raggiungere le coffe, ripiani di sosta a un terzo o due terzi degli alberi, per operare sulle vele, sciogliendole o imbrogliandole. Era inoltre imperativo sapere che gli ufficiali venivano nominati come il “Signor” Giorgetti, il “Signor” Rami, il “Signor” di Collalto, e non con i loro gradi, come avviene nell’esercito.
Guai poi a parlare di “corde”, ti rispondevano con lazzi e ingiurie; si dovevano chiamare “cime”. Com’era da miseri terrestri parlar di “remare”, quando esisteva un nobile termine marinaresco: “vogare”. E quella cosa che galleggia era una barca? Neppure per sogno, era un battello!
Re della Vespucci era forse l’ammiraglio Paladini, che si vedeva ogni tanto comparire lontano nella sua uniforme bianca, sereno, diafano come un bellissimo doge, silenzioso e nobile, dalla carnagione vagamente tinta di sole, ma dalla capigliatura candida come neve? No! E allora era forse il Signor Giorgetti, energico, loquace, dalla faccia scavata come un corsaro, gran maestro nell’arte della vela? Neppure! E allora chi era il sovrano, il pontefice, il navarca del bellissimo veliero, scivolato dritto dritto in mare da una stampa inglese dell’Ottocento? Be’ ci voleva poco a capirlo, era il nostromo Brandimarte!
Piccoletto, tarchiato, rivestito da una sorta di sozza unifor-mastra sopravvissuta a infiniti cimenti, principalmente oleosi, lo si trovava quasi costantemente presente e in piedi vicino alle pazienze dei vari alberi, con la sua formidabile arma, un fischietto di metallo lucido e a bulbo, dal quale ricavava sinfonie, concerti di fischi modulati dall’altissimo al basso secondo la sua volontà e ispirazione – un vero Paganini del sifolo.
Gli ufficiali davano i comandi generici, ma il nostromo Brandimarte era colui che ne dirigeva l’esecuzione per gli aspetti circoscritti e materiali. I suoi fischi formavano un autentico linguaggio, seguivano un invisibile spartito che teneva, chissà dove, in testa, e segnavano i movimenti dei complessi balletti di cui gli allievi erano i ballerini, magari sospesi a venti e più metri dalla tolda e dal mare, mentre scioglievano o raccoglievano le vele. Gli allievi avevano il massimo rispetto del nostromo Brandimarte, il quale dopo quarant’anni di praticaccia sui velieri sapeva premiare una manovra ben riuscita con un sorriso ambito da tutti, o deplorare un pasticcio, magari involontario, con un muso atteggiato al più profondo disgusto.
Clé riuscì ad appurare dalla bocca di un ufficiale che la nave procedeva “per lo meno a quattordici miglia orarie”. Era infatti un’esperienza inebriante, impossibile a dimenticarsi! Pensava: ottocento tonnellate di legno e metallo spinte avanti dal vento che gonfiava le vele fino allo spasimo, che tendeva ferocemente tutto il sartiame, e costringeva l’intero scafo a sbandare in modo quasi pauroso verso sottovento. Il mare era molto agitato, d’un azzurro cupo, con le creste delle onde candeggianti di spuma; l’acqua aveva davvero qualcosa del vino violaceo, come già notava millenni or sono Omero. La Vespucci non era una nave, un veliero; aveva qualcosa dell’airone, del condor, e le sue vele facevano pensare ad ali.
In distanza s’intravedeva vagamente un massiccio cilestrino, il capo Matapan, la punta meridionale del Peloponneso. Qualcuno disse: “Siamo su cinquemila metri d’acqua!” Infatti la nave stava traversando uno dei massimi fondali del Mediterraneo.
Poi venne oltrepassata Cerigotto, la piccola Citera (dov’era nata Venere!), un’isoletta scoscesa di rocce rosse e gialle. Si respirava già mitologia nel cielo e nelle onde. Il mattino dopo, con maggior calma, la nave si avvicinò alle rupi violacee e cremisi dell’isola di Creta, e la sua costa fu seguita per una trentina di miglia. Infine, girato un capo, ecco il porto di Candia, o d’Iraklion, alla greca. “Te lo dicevo che il Signor Giorgetti è un mago della vela...” osservò il Nutelli. Il comandante era infatti riuscito a entrare in porto con mezza velatura a riva, con il vento ancora portante; poi a far calare tutto al momento giusto, e infine, profittando dell’abbrivo, a raggiungere la boa d’ormeggio assegnatagli, senza fare uso dei motori. Operazione di straordinaria finezza ed eleganza.