11. I Kuriltai di Misurina

Il paesaggio non era un paesaggio.

Forse le concezioni più estreme del Futurismo (ricordare l’“aeropittura”, Depero, Dottori) lo avrebbero potuto ammettere come tale, seppure con qualche protesta.

In alto, proprio sopra il capo, centinaia di metri più su, s’indovinava una sorta di prua di sasso, chiara, luminosa nel sole (dolomite salda, compatta, osso sopravvissuto a ere geologiche d’erosione), più sulla destra si notavano due smisurate colonne di rocce rossastre (dolomite marcia, sbavata da minerali in colori che andavano dal giallo all’arancione). Le due colonne rossastre rinserravano tra di loro una sorta di grotta umida, verdognola e repellente.

Dai lati opposti s’aprivano vuoti paurosi, centinaia di metri di nulla, giù giù fino ai ghiaioni aridi e candidi, rigati verticalmente dal verde dei pini mughi e orizzontalmente dai “sentieri dei camosci”.

Non era un mondo giusto, umano, presentabile. Era una follia. Una vertigine di tuffi mortali, di rimbalzi inattesi, di prospettive impazzite.

Guardando in orizzontale, di là da una valle profonda e per metà nell’ombra, si scorgeva la mole arcigna e grigiastra del Catinaccio, nome italiano brutale ma efficace, che si contrappone al poetico tedesco Rosengarten (Giardino delle Rose). Per fortuna il tempo si manteneva buono. Il cielo era solcato da leggere nubi bianche spinte verso sud da un teso tramontano: non si aveva minimamente la sensazione che il pomeriggio potesse concludersi, come avveniva spesso, con un temporale.

Clé stava in piedi sopra una sorta di cengia, o meglio un minuscolo terrazzino largo sì e no una spanna, pendente in fuori verso l’abisso; però era ben fissato alla roccia tramite un chiodo, due moschettoni e un tratto di cordino.

Data l’ora, Tita Piaz che guidava la cordata aveva fatto cenno di fermarsi per uno spuntino. Tita, Sandro dal Torso e Clé erano partiti dal rifugio all’alba, ed erano dunque molte ore che “lavoravano” la parete Nord-Est della torre Winkler, tentata parecchie volte da vari gruppi di alpinisti, però ancora mai risalita completamente. Piaz, che abitava ai piedi della torre, teneva moltissimo a essere il primo a superare la parete; se ne considerava un poco il padrone, e ne era, in segreto, gelosissimo.

Se Clé viveva il suo ultimo anno da tinegista (allora aveva diciannove anni), i suoi compagni erano dei robusti veterani, ambedue cinquantaquattrenni. Clé s’era divertito a ricordare a Sandro: “Siamo o no una cordata record? Centoventisette anni in tutto!” Ma Sandro aveva risposto che due settimane prima, facendo una salita con un amico quarantenne, la somma era stata, includendo il Piaz, di centoquarantotto anni!

A ogni modo i tre si trovavano benissimo insieme; Tita era capo e guida indiscussa, e Clé seguiva volentieri Sandro, data la sua età e la straordinaria esperienza che aveva della montagna.

Il “Tita” (come lo chiamavano i compagni) s’era posto a sedere sopra un leggero slargo della cengia con i piedi penzoloni nel vuoto. Stava divorando in silenzio qualcosa di gustoso, e si sentiva che sgranocchiava con i denti delle ossa leggere.

“Ma che stai mangiando, eh Tita?” chiese Sandro osservando dei ben visibili crani d’uccelli, misti a frammenti di carne nero-verdastra, il tutto contenuto nel cavo d’una bruttissima e bisunta carta oleata. Tita non si voltò neppure, continuò tranquillo il suo pasto.

“Sono cornacchie... Cosa? Cattive? Ma via, sono buonissime, gustose! E poi ce ne sono tante, non c’è bisogno di scendere a Perra per comprarle! Basta una sassata ben centrata... Certo, ci vuole la Paola per cucinarle. Lei le sa insaporire...”

Tita non aveva davvero l’aspetto della grande guida alpina di oggi, e neppure quella caratteristica delle guide dei primi decenni del ventesimo secolo. A vederlo era sempre rimasto un quadrato e semplice contadino, un alpigiano dalla personalità fortissima e inconfondibile. Bisogna anche ricordare che, essendo nato quando il Trentino era sotto l’Austria, aveva avuto in gioventù tutta una serie di scontri e contrasti con le autorità asburgiche, eventi che non avevano certo contribuito ad addolcirne il carattere.

Come nativo della Val di Fassa si sentiva italiano e teneva a sbandierarlo. L’aspetto e le movenze erano quelle d’un popolano abituato a imporre la propria volontà, e a non venire contraddetto. Il capo sorgeva tozzo sopra un collo taurino. Portava i capelli rasati quasi a zero e s’indovinava che, almeno in parte, erano ormai bianchi. Come del resto la barba, quasi sempre intonsa da un paio di giorni.

Tita era notissimo fin da ragazzo per le sue mattane, le sue stramberie; salire per esempio la torre Winkler di notte, al chiaro di luna... Clé avrebbe scommesso qualsiasi somma che “far colazione a cornacchie”, seduto su venti centimetri quadri di roccia piana in un giro completo d’abissi, faceva parte del suo gusto per tutto ciò che poteva “epatare il borghese”.

Sandro era molto più tranquillo e predicibile in tutto. Anzi, il conte dal Torso, per ricordarlo araldicamente, incarnava alla perfezione la figura del gentiluomo veneto di terraferma: proveniva da Udine, dove (dicevano) teneva bellamente corte nel palazzo avito – quando non era in gita, o in arrampicata per le sue adorate Dolomiti. Era un omone imponente nel fisico, ma di squisita gentilezza nei modi. Anche lui aveva sempre il cranio rasato a zero, ma da quel poco di barba che adombrava la faccia s’indovinava il bel pelo rosso della gioventù. Parlava quasi sempre in un aulico dialetto da doge o da magistrato delle acque.

Aveva scoperto l’arrampicata tardi nella vita, a metà del suo quarto decennio, ma ora non voleva perdere un minuto (diceva) lontano dalle crode, dalle torri, dagli sfulmini delle Dolomiti. Vestiva in modo piuttosto trasandato, coprendosi con un completo di velluto verdolino rigato, da rocciatore.

Unico sfizio: al polso teneva un cronometro d’oro di gran pregio.

Rifocillatisi con lo spuntino, dissetatisi con un po’ d’acqua raccolta da uno stillicidio lì vicino, i tre uomini ripresero la salita. Ormai stavano di fronte all’ostacolo più duro dell’intera ascensione: una muraglia di quaranta o cinquanta metri, verticale o addirittura in leggero strapiombo, a grosse bande nere e arancioni, nere dove la pioggia riusciva a bagnare la roccia, arancioni dove la pietra restava permanentemente al riparo, e riusciva a mantenere il colore vero del minerale.

Tita si sollevava lentamente, con grande sicurezza, ma bisognava confessarlo, senza alcuna eleganza: si sarebbe detto un contadino o un muratore messosi in testa di riparare una grangia o un fienile.

Clé non poté fare a meno di ripensare all’altro grande alpinista e guida del momento, Emilio Comici. La sua eleganza e leggerezza nell’arrampicare erano ormai una leggenda. Pareva che sfiorasse appena la roccia, che ci volasse sopra come una libellula. Sandro, che spesso arrampicava con Emilio, diceva: “Ma non è un alpinista, è una ballerina, un angelo!”

Tita aveva ormai risalito tre quarti della ributtante, truce muraglia nera e arancione. L’uomo era legato a due corde, una più nuova e più grossa, una più vecchia e più sottile. Con due corde poteva fare uso di più chiodi e moschettoni, senza il timore che gli attriti lo frenassero da dietro e gli rendessero difficile innalzarsi. Clé e Sandro tenevano in mano le due corde. Tita, salendo, si era spostato sulla sinistra sparendo oltre una grossa gobba della parete.

Si sentivano adesso le sue grida: “Tira la ‘bona’ (la corda nuova)... molla la ‘trista’ (la corda vecchia)!” Gli echi della sua voce rimbalzavano di parete in parete nella montagna. Chissà se potevano sentirli anche giù al rifugio? Il rifugio, di cui ogni tanto s’intravedeva il tettino grigio, restava come una dolce tentazione umana in questa brutalità d’abissi, e d’insensate schegge petrose.

Tita finalmente gridò qualcosa: non si capiva bene cosa dicesse, ma era chiaro che aveva superato la famosa muraglia nera e arancione che poi costituiva la chiave dell’intera salita. Dopo un poco Sandro poté seguire il capocordata, infine per ultimo toccò a Clé che aveva il compito di liberare la montagna, per quanto era possibile, dai chiodi.

Sopra la muraglia stava una cengia, quasi una sorta di marciapiede, molto più comoda di quella in basso, e i tre vi fecero una breve sosta.

Poi via verso la vetta! Le nuvole si stavano già tingendo d’un viola roseo diffuso, non avevano più la freschezza cristallina di poco innanzi.

L’ultima parte della salita si svolse lungo uno spigolo quasi verticale di roccia color madreperla, pulitissima, saldissima, nella più folle esposizione, su due o trecento metri di purissimo vuoto. Clé guardando in basso vedeva il tacco delle proprie scarpette in linea immediata con il tetto grigio del rifugio. La constatazione non gli causava la minima angoscia, anzi gli dava l’impressione esilarante di volare, d’essersi reso libero dal peso del corpo – segno che il ragazzo era bene allenato.

Sulla vetta, piccolissima, puntuta, un’isola di pietre gialline in un oceano d’aria, i tre si trattennero poco.

Era ormai tardi, le Dolomiti stavano vestendosi di colori strabilianti; e si vedevano molte delle grandi cime, vicine e lontane, dalla Marmolada, al Sassolungo, al Catinaccio...

Sandro e Clé si complimentarono con Tita per il suo successo, ma lui preferiva fare il burbero, come se non gliene importasse nulla (eppure si trattava della riuscita d’un piano covato in cuore per anni!). Pochi minuti dopo, i tre compagni di cordata stavano calando velocemente verso il rifugio, verso la cena preparata con gran cura dalla Paola.

* * *

La mattina seguente, di buon’ora, Clé salutò e abbracciò Tita, Sandro, la Paola e altri del rifugio, rimontò sulla sua motocicletta per tornarsene a Misurina, traversando i passi del Pordoi, del Falzarego e di Tre Croci. L’ascensione della torre Winkler per la parete Nord-Est era stata un’occasione felice e ambita, dovuta a un invito speciale di Sandro, il quale cercava un terzo di cordata per l’impresa, ed era rimasto bene impressionato dal modo d’arrampicare di Clé, osservato durante una salita alle Tre Cime di Lavaredo. Ma la base ordinaria estiva e dolomitica di Clé era Misurina.

A Misurina, ormai da parecchi anni, finivano per aggregarsi durante le vacanze alcuni degli amici fiorentini, Rolando, Ursula, Ulisse, Maurizio, mentre Gisella li raggiungeva da Trieste, Nico da Roma, Giorgio da Milano; di Malachite era stato annunciato l’arrivo da Palermo, ma per adesso non se ne sapeva nulla. Misurina aveva molti pregi; era bellissima, con il suo laghetto circondato da abetine che scendevano fino all’acqua, era fuori dalle vie battute dal grande turismo, era circondata da montagne alte, splendide, selvagge e lì gli alberghi minori, specie allora, costavano davvero poco. Gli amici parlavano volentieri dei loro incontri come d’un festoso Kuriltai, prendendo a prestito una parola mongola.

I nomadi delle steppe chiamavano infatti così certi loro raduni annuali durante i quali si decidevano gli affari generali delle comunità, si ricordavano i morti, si festeggiavano matrimoni, nascite e amori, tra mangiate, bevute e gare di bravura a cavallo.

Sul gruppo dominava la figura mitica di Emilio Comici, il famosissimo maestro e guida di montagna, la cui base era proprio Misurina. In genere Emilio era occupato con i suoi clienti in salite alle varie Cime di Lavaredo, al Sorapis, alla Cima Una di Sesto e altre montagne rinomate, ma appena aveva tempo amava condurre gli amici fiorentini, e gli altri del gruppo, su questa o quella croda dei dintorni.

Emilio era piccolo, mingherlino. Nessuno incontrandolo per la strada lo avrebbe giudicato un “alpinista d’eccezione”, un fortissimo della montagna: bastava però vederlo seminudo (per esempio quando si tuffava nell’acqua gelida del lago di Misurina) per capire come stavano le cose. Rispetto al peso del corpo, possedeva una muscolatura assolutamente eroica; per questo, sollevandosi su due dita che facessero presa anche su di appigli minuscoli e sfuggenti, riusciva ad avanzare elegantemente in qualsiasi parete, dando l’impressione di volare, di possedere poteri magici.

Il volto scavato, con due vigorosi muscoli masseteri a chiudere come in parentesi la bocca, esprimeva intelligenza, simpatia umana e caparbia volontà. Gli occhi erano chiari, luminosi; i capelli bruni tenuti in genere piuttosto corti, gli formavano un ciuffo caratteristico sulla fronte. La voce, che spesso si rompeva in falsetto (“la voce a spillo d’Emilio”), era inconfondibile.

Per di più, per qualche combinazione sensoriale e psichica, non solo non soffriva in alcun modo di vertigini – lo vedevi beato, sospeso su appiglietti da nulla, con vuoti di centinaia di metri sotto i piedi o dietro le spalle – ma lui dichiarava spesso di goderci, che i grandi vuoti gli davano un’ebbrezza particolare e indicibile. Il suo atteggiamento verso la vita era eccezionalmente gioioso, gaio, lieto; ovunque comparisse portava un senso di festa. Cantava spesso con gli amici, e suonava abbastanza bene la chitarra accompagnando il coro.

Le vicende della sua vita erano inconsuete. Non era, come Tita Piaz di Val di Fassa, come Gino Soldà di Recoaro, come Lacedelli di Cortina e, come tanti altri famosi alpinisti, nativo della montagna; era nato invece in riva al mare, a Trieste. Diplomatosi in ragioneria, avrebbe finito per fare il contabile in qualche ditta, se non che da giovanissimo s’appassionò alla speleologia, facendosi notare per la bravura e l’ardire con cui riusciva a vincere qualsiasi strapiombo gli capitasse dinanzi in grotta.

Da queste imprese sotterranee era poi passato alle arrampicate all’aperto, specialmente nella famosa Val Rosandra, a pochi chilometri da Trieste. Infine aveva scoperto le Dolomiti.

* * *

Fu nel 1929 che Rolando e Clé incontrarono Emilio per la prima volta. In quell’anno, di luglio, i due ragazzi (diciassettenni) avevano deciso che bastava con le montagnucce di casa e dell’Appennino, e che era tempo di cercare avventure un po’ più maschie sulle Alpi.

Eccoli dunque partire in treno per il Cadore e salire poi a un rifugio ai piedi del monte Pelmo (3168 metri). Che emozioni quella sera guardando in alto dalla porta del rifugio! Centinaia di metri sopra il loro capo sorgeva una gran spalla del monte, una rupe sovrumana, d’un nero assoluto, contro la luce argentea della luna che le stava comparendo da dietro.

Rolando e Clé si tenevano per mano, senza parole, vibranti d’una commozione tra lirica e mistica. Questa sì che era montagna!

La salita del Pelmo (più faticosa che interessante) venne compiuta il giorno dopo.

Il giorno dopo ancora i ragazzi si recarono a piedi, traversando boschi e valli, al rifugio Coldai, sul lato Nord del monte Civetta (3220 metri), in alto sopra il paese di Alleghe, dove restarono per una settimana.

Doveva essere il terzo o il quarto giorno di permanenza; dopo aver salito, dai lati facili, buona parte delle cime del celebre monte, una sera i due amici erano rimasti soli nella saletta-cucina del rifugio, quando arrivarono da fuori, dall’alto, due uomini inverosimilmente carichi di corde, cordini, con catene di moschettoni e mazzi di chiodi pendenti dalle cinture, con martelli e altri attrezzi ciondoloni dai sacchi... Avevano l’aria d’essere stanchissimi, provatissimi. Erano chiaramente dei sopravvissuti a qualche tremenda impresa.

Chi erano? Cosa avevano fatto? Rolando e Clé non osavano chiedere notizie. I due uomini, forse sulla trentina, erano piccoli, mingherlini, ben diversi dai leoni della montagna, come se li immagina la gente comune. Entrarono, si sedettero a uno dei tavoli, si fecero portare un po’ di cibo dal custode, e cominciarono a bere litri su litri di tè con zucchero e limone. Finalmente, rifocillati e un po’ meno tesi di prima, presero a parlare con i ragazzi.

Dissero di chiamarsi Emilio Comici l’uno e Benedetti l’altro, ambedue triestini. Avevano giusto compiuto una delle imprese più memorabili (e più folli) dell’alpinismo dolomitico d’anteguerra.

Bisogna sapere che il Civetta presenta sul lato Ovest, sopra il paese e il lago d’Alleghe, una delle pareti più formidabili di tutte le Alpi, alta mille metri e larga un paio di chilometri; in genere la sera, specialmente d’inverno con la neve, compare come una sublime e colossale muraglia che va tingendosi d’un rosa sempre più delicato (o intenso, a seconda della giornata), fino ad ardere in una gran fiammata di rosso quando il sole tramonta davvero.

Un’altra caratteristica straordinaria della parete è che gli elementi che la compongono si manifestano con altissime linee verticali, dando all’insieme aspetti di organo, un organo cosmico pronto per sinfonie astrali.

Naturalmente i tentativi per risalire questa favolosa muraglia cominciarono a partire dalla fine dell’Ottocento. Due alpinisti inglesi (Gilmore e Phillimore) con delle guide ci riuscirono fin dal 1881, ma percorsero una via indiretta, con vari tornanti che lasciò il problema in realtà insoluto.

Poi nel 1925 due tedeschi, Solleder e Lettenbauer, finalmente aprirono una via direttissima, di straordinario ardire, elegante e difficile, da tutti accettata come paragone del Sesto e supremo grado (a quei tempi) d’arrampicata su roccia.

Comici e Benedetti erano partiti con l’idea d’aprire una nuova direttissima, questa volta italiana, sull’immensa parete. Ma a un certo punto, per qualche ragione, avevano perso l’orientamento, motivo per cui la loro via è stata ritenuta meno logica, meno diretta di quella dei tedeschi; d’altra parte pare sia più difficile, e certo più pazzesca per come affronta una dopo l’altra smisurate placche lisce sospese sul nulla.

Rolando e Clé avrebbero ricordato per sempre questo incontro serotino, davvero storico, avvenuto nel silenzio e al chiarore d’un tremolante lume a olio nello sperduto rifugio Coldai.

Il giorno dopo i due scalatori s’erano pienamente rimessi. A ridosso del rifugio v’è un masso smisurato caduto dalla montagna, che offre delle ottime paretine alte dieci-dodici metri per fare esercitazioni di roccia; e il Comici e Benedetti si divertirono a dare lezioni d’arrampicata ai due ragazzi. Poi Comici disse che aveva passato da poco l’esame di guida, che era stato destinato a Misurina, e invitava cordialmente Rolando e Clé a visitarlo nella sua nuova sede: “Così faremo qualche bella salita insieme...”

Naturalmente Rolando e Clé non si lasciarono sfuggire l’occasione. Dopo aver salito varie montagne lungo l’itinerario dal Civetta a Misurina (la Croda da Lago, le Torri di Averau, il Pomagagnon, il Cristallo, il Piz Popena...) eccoli ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo.

“Benvenuti! Avete fatto benissimo a salire fin qua,” esclamò Emilio salutandoli. “Il tempo si mantiene al bello... Domattina andiamo alla Nord della Cima Piccola di Lavaredo.”

La Nord della Piccola di Lavaredo è una gagliarda e slanciata parete di roccia salda e articolata, con due celebri vie parallele; una aperta dal tedesco Helversen nel 1890, l’altra dall’americano Fehrmann nel 1909; la seconda è molto più difficile della prima. Naturalmente Emilio aveva optato per la via Fehrmann.

Sarebbe inutile soffermarsi sull’ascensione, che fu felicissima sotto tutti i punti di vista, se non ci fosse stato da registrare un episodio caratteristico di Emilio.

Quando i tre attaccarono la parete, scoprirono che dinanzi a loro, ormai oltre la metà del percorso, stavano arrampicando due giovani tedeschi... Evidentemente non erano all’altezza dell’impresa, prima di tutto perché andavano pianissimo, in secondo luogo perché facevano cadere continuamente dei sassi, cosa molto pericolosa per chi sta sotto.

Dopo qualche attesa, Emilio gridò ai tedeschi di starsene fermi, lasciò Rolando e Clé su di una scaglia sbilenca di pietra sospesa sull’abisso, si slegò, salì in arrampicata libera fino a raggiungere i tedeschi, si legò a loro, li condusse fino in vetta, poi ridiscese, sempre in arrampicata libera, senza corde né altre assicurazioni, fino a riprendere i due giovani amici che infine (imprecando contro i tedeschi), condusse sulla cima.

Lo spettacolo di Emilio che “passeggiava” slegato su e giù per una parete di buon quinto grado era tale da togliere il respiro per l’ammirazione – e l’invidia! Come faceva quel mago a essere così sicuro, così elegante, così spigliato su per rocce indubbiamente difficili che vedeva per la prima volta? E sì che sotto i due ragazzi c’erano almeno trecento metri d’oceano d’aria, giù fino ai ghiaioni grigi e perennemente in ombra ai piedi della parete.

* * *

Un paio d’anni più tardi il Kuriltai di Misurina fu molto più nutrito e vivace. Quando i ragazzi si sedevano per godersi un’aranciata o una menta (la Coca-Cola era ancora di là dall’orizzonte) ai tavoli di legno verniciati di bianco della Pensione Sorapis, lì di fronte al lago su di cui si rifletteva amabilmente il sole, potevano contarsi davvero con soddisfazione. Non esistevano inviti né formalità; la gente arrivava perché attratta dal fascino dei luoghi, dalla compagnia, dal magnetismo d’Emilio.

Prima di tutto c’erano Rolando e Clé, ai quali si aggiunse per alcuni giorni anche Maurizio Pacini, il botanico, poi ecco Ursula (se possibile ancora più bella e fatina del solito), e Gisella tutta muscoli e abbronzatura (“Sai, sono in allenamento per il nuoto...”). Inoltre s’erano fatti vivi anche Ulisse, il “letterato”, con un suo nuovo amico, Giorgio Bertelli, pittore di origine toscana, ma ormai residente a Milano da parecchio tempo.

Malachite aveva telefonato diverse volte, ma ancora non era riuscita a raggiungere gli amici.

Ulisse e Giorgio facevano un po’ categoria a sé, per la semplice ragione che, pur essendo incantati dalle montagne e dalle vallate dolomitiche, non erano malati del bacillo arrampicatorio.

“No e poi no... È assurdo! Fatemi scendere!” aveva esclamato molto risentito Ulisse, condotto una volta, quasi a forza, sulla via normale alla Piccola di Lavaredo, un’arrampicata da principianti. “È chiaro come il sole,” continuava, “che questi turpi paracarri non sono fatti per gli esseri umani... Splendidi sì, ma visti da lontano, dalla finestra dell’albergo... Siete voi i degenerati che v’intestate a scalarli, che volete andare in luoghi che Dio ha fatto apposta ripidi e scivolosi per tenerne lontani i pazzi... Dio fece le scimmie per arrampicare, agli uomini affidò le pianure, al massimo le colline... Il giro del lago? Quello lo faccio quante volte volete in un giorno, ma lassù sui paracarri arrampicatevici voi scalmanati!”

I ragionamenti di Giorgio erano un po’ diversi, ma in sostanza conducevano ai medesimi risultati. “Ah, quanto mi piacerebbe salire con voi lassù in alto,” diceva, “purtroppo non ce la faccio... Appena s’accumulano dieci metri di vuoto sotto i miei piedi sto male, mi gira la testa, mi viene la nausea peggio che in barca...”

Giorgio aveva un paio d’anni più di Clé e degli altri (salvo Ursula si capisce, la veneranda fata-mammina di tutti). Seguiva a Milano i corsi dell’Accademia d’Arte, voleva seriamente diventare pittore. Ulisse garantiva che del talento ce n’aveva. Era un ragazzo pulito, netto, solido di fisico e di carattere; castano, sempre pettinatissimo, abbronzato ma non troppo, muscoloso ma non troppo, era attentissimo alle fasi della luna sociale nel vestire: maglia e scarpette adatte per le passeggiate, giacca e sciarpette in tono per l’albergo, camicetta leggera di colori opportuni se scendeva a Cortina – dove gli altri non andavano mai, per caparbio snobismo inverso.

Sia Ulisse che Giorgio, in un modo o nell’altro, portavano qualche barlume d’interessi intellettuali ai Kuriltai di Misurina, che altrimenti minacciavano di restare subissati da disquisizioni dotte e interminabili su numero, lunghezza, efficacia dei chiodi da roccia, su resistenza e sicurezza di corde e cordini, su gradi di difficoltà della via Alfa sulla cima Beta, del camino X sulla guglia Y, dello strapiombo G sullo spigolo M. Era tutto un girotondo incantevole, ma così specializzato da rasentare una sorta di scienza metafisica, o d’algebra impalpabile.

Clé avvertiva talvolta dentro di sé che la passione per la montagna poteva acquistare le caratteristiche d’ogni febbre che minaccia di sbilanciare gli equilibri dell’animo. E per di più non esistevano remore morali, anzi!

La sensualità erotica poteva trovare resistenze e limiti non solo nella morale comune, ma nella semplicissima cura della salute. La montagna no. Salvo il caso deprecato d’una caduta (quasi sempre con esiti mortali), le sue frequentazioni facevano soltanto stupendo bene: dopo quindici giorni d’ascensioni uno si sentiva re del Creato, leggero, elastico, pimpante come un giovane abete o una festosa betulla. Era difficile davvero trovare una giusta armonia tra le varie parti di se stesso: e in quest’ansia Ulisse e Giorgio venivano senza volerlo in aiuto.

Ulisse e Giorgio avevano scovato degli interessi comuni, libri, idee, musiche: i due facevano delle lunghe passeggiate di sentiero, salendo per esempio nell’interno del gruppo dei Cadini, erti monti così chiamati perché tra l’uno e l’altro vi si sprofondano delle vallate rotonde, “a catino”; oppure si spingevano su per la Val Popera, tutti luoghi favolosi di cui Giorgio avrebbe voluto carpire qualche segreto nei suoi schizzi...

“Ma è disperante!” esclamava. “Come mai queste montagne sono così belle, e poi quasi impossibili da dipingere? E perché poi sono invece facili da fotografare? Di belle fotografie di montagna se ne vedono a mazzi, di bei quadri di montagna non ne capitano quasi mai... Ogni ora del giorno, dall’alba al tramonto e oltre, ti regala visioni da togliere il respiro quando le vivi, vai a tradurle sulla tela, o sulla carta con il disegno, e i risultati fanno cadere le braccia dalla delusione...”

Di questi problemi si discuteva volentieri la sera, in gruppo, seduti al tavolo della pensione, che era un po’ come un rifugio, con bicchierini di grappa o di vin santo che passavano in giro.

Rolando era del parere che forse, concentrandosi su dei particolari, si poteva afferrare qualcosa dell’inafferrabile... “Un ceppo d’albero con il suo verde di muschi, una pietra circondata da rododendri, una cascatella, un pulvino di rosacee come ce ne sono tanti in alto, una radice contorta che spunta da un dirupo: suggerire il tutto per mezzo delle parti, che ne dite?” Ursula venne invece fuori con una sua teoria strana, originale... “La verità,” diceva, “è che noi siamo tutti degli incantati, degli stregati. Abbiamo una sorta di religione delle montagne e ne siamo irrazionalmente attratti... Ma è davvero bella la montagna? O è solo interessante?”

Ulisse suggerì la questione del colore... Che poi anni più tardi doveva essere ripresa da Dino Buzzati. In un suo scritto del 1956, Buzzati afferma: [le Dolomiti] “rappresentano l’unico spettacolo della Natura con il quale i pittori, per quanto bravi, non ce l’hanno mai spuntata... Perché quando un artista è riuscito a fissare sulla tela la luce vera che in una cert’ora mandava la montagna – andava perso tuttavia tutto il resto; la struttura, i lineamenti, la somiglianza insomma; e il risultato si riduceva a un appunto coloristico, a un abbozzo: insufficiente. E quando invece – come l’inglese Compton, uno dei pochi – l’artista riusciva a ‘prendere’ la somiglianza, a definire cioè la forma in modo persuasivo, il colore gli sfuggiva.”

Ma il buono, il caro Ulisse aveva altri suoi problemi. Donne, fanciulle, dame di cuori? Sembrava di no: e, in ogni caso, su questo capitolo il ragazzo era sempre stato oltremodo schivo e silenzioso. Allora che c’è? Dài, racconta, estèrnati internone!

“Be’, mi sono buttato in una vera follia...” Cioè? “Cioè... ho messo in cantiere un romanzo! Ve lo immaginate che sciocchezza? Mi ci vorranno due, tre anni per finire... Compirò il lavoro insieme alla tesi di laurea. E speriamo che nessuno lo sappia all’università, altrimenti mi mangiano vivo...”

“Bravo!” esclamò subito, sorridendo in modo incoraggiante Ursula, abituata da sempre ad avere gente in casa che “creava”, che seguiva vie traverse e un po’ bislacche. Anche il fratello Ermete, tra i tanti suoi progetti, non aveva forse parlato d’un romanzo? Pare volesse eternare l’asse d’amicizia Firenze-Bombay... Anche Clé ne aveva sentito parlare.

Poi una sera dopo cena, seduti intorno al solito tavolo con la tovaglia altoatesina, con molliche di pane e grappa nei bicchierini, dopo che aveva piovuto tutto il giorno e gli animi erano presi da un languore curioso, Clé iniziò a punzecchiare l’amico Ulisse, “il bel-brutto alla Lorenzo de’ Medici”.

“Allora, a che punto siamo con il celebrato romanzo? Possiamo brindare al personaggio principale? Ma chi è? Una donna, scommetto: bella, giovane, scapestrata e magari anche ricca! O è un uomo, saggio, forte, virtuoso?”

“Nessuno dei due,” disse finalmente Ulisse trangugiando un altro grappino. “È una famiglia, anzi sono due famiglie...”

“Davvero!” esclamò Gisella. “Ti sarai mica messo sulla strada dei Buddenbrook? Pensa, io l’ho letto tutto, e in tedesco...”

“Be’ quasi...” continuò Ulisse, divenuto di colpo loquace, come volesse scaricarsi d’un peso. “È una storia che ho in mente da tanto tempo... Mi piace, mi affascina come una favola, una saga. In realtà tutto viene raccontato da una casa. È la casa l’io narrante. Folle, no? Ma più ci penso più mi diverto, e se mi ci diverto io, penso che anche gli eventuali “venticinque lettori” si divertiranno, no?

“Immaginate un palazzo, non dico una cosa monumentale come lo Strozzi a Firenze o quello dei Farnese a Roma... Voglio dire, una bella residenza di famiglia nobile e abbiente. Siamo alla fine dei Settecento...

“La casa racconta come il conte Bertieri acquistò il terreno, poi ‘mi fece costruire da un bravo architetto’ eccetera. La casa vede tutto, sa tutto, sbircia le intimità del conte, della contessa, dei figli, gli imbrogli degli amministratori... Passano un paio di generazioni, siamo verso il 1848. Il palazzo dà su di una piazza, ci sono moti, proteste... Il giovane Bertieri capisce che deve darsi da fare... Comincia con l’affittare alcune stanze a pianterreno a uso di botteghe. In una ci viene un carbonaio, e il carbonaio prende al soldo un garzone, Carletto, bravo, solerte, ambizioso.”

“E la casa continua a raccontare?”

“Eh già, capisci per una casa le stanze, i saloni, le scale sono come le sue viscere... Immagina la casa come una vecchia, simpatica signora piuttosto chiacchierona, che ogni tanto ti osserva con la sua lorgnette, chiedendoti se hai capito, se la segui... Ne ha viste tante! Ha quasi duecento anni, ma li porta benissimo.”

“Torna a parlarci di Carletto...”

“La sua fortuna cresce, cresce: riesce a istruirsi. Intanto i conti Bertieri perdono gioielli, quadri, tappeti al gioco, fanno bischerate imperdonabili, s’impelagano in matrimoniacci assurdi. Non sanno resistere. Per sdebitarsi devono vendere intere parti del palazzo.

“Carletto ha messo da parte dei soldi e compra, compra. Da un lato i Bertieri lo odiano, dall’altro lui è furbo, e poi sa tutta la storia della famiglia e può approfittarsene. Carletto sale. I Bertieri scendono. Carletto si butta in politica, diventa ministro: un carrierone. Diventa padrone del palazzo. I Bertieri, quelli che ne restano, sono confinati come inquilini nelle soffitte del palazzo...”

“Mamma mia,” commentava Gisella. “Non uno, ma due Buddenbrook! Quelli che calano e quelli che salgono... Un’ideona maestra! Ma ce n’avrai per una vita!”

* * *

Emilio era tornato al Sorapis da un lungo impegno con dei romani che lo avevano condotto in Val Gardena alla Nord del Sassolungo, poi alla Kiene delle Cinque Dita, e alla Sud della Marmolada... Instancabile, sembrava che le tre belle salite lo avessero soltanto stuzzicato. “Che ne direste, domani alla Piccolissima?” Ursula, Rolando e Clé furono entusiasti, fortunatamente Gisella non se la sentiva, perché già quattro persone formavano una cordata pesante, cinque sarebbe stato impossibile. Così la sveglia venne messa alle quattro del mattino successivo.

La famiglia delle Cime di Lavaredo è complessa, grandiosa e regale. I due masti principali del castello sono la Cima Ovest e la Cima Grande, che sfiora i tremila metri. Per ambedue le vie normali di salita sono banali e facilissime. Sul lato Nord invece si spalancano due pareti-abisso, poderose, terribili, quasi assurde, due muraglie gialle in buona parte strapiombanti, che allora nessuno aveva affrontato – ma delle quali la Nord della Grande sarebbe stata salita pochi anni dopo proprio da Emilio insieme con i fratelli Dimai di Cortina, e poi ancora una volta da Emilio in solitaria.

A est della Cima Grande sorge un complesso di torri aguzze che formano un vero paradiso per l’arrampicatore: ci sono la Cima Piccola, la Punta Frida, lo Spigolo Giallo e la Piccolissima.

La Piccolissima, l’ultima della famiglia turrita, è una strana specie di fungo spaccato verticalmente da un taglio immane, come la traccia d’un colpo feroce di fulmine. La Piccolissima venne salita per la prima volta nel 1911 da un fuori classe dell’alpinismo, Paul Preuss; ancora oggi rappresenta una scalata breve, ma di tutto rispetto; ai tempi dei Kuriltai di Misurina era considerata impresa ancora molto ardita. Ursula aveva già compiuto alcune arrampicate di nerbo, ora Emilio (che l’ammirava moltissimo) voleva farle provare qualcosa d’estremo. Ursula arrampicava molto bene, non per i suoi mezzi fisici, aveva braccia e gambe lunghe e poco muscolose da longilinea nordica, ma per il suo equilibrio nervoso, per la sua calma assoluta, un maligno avrebbe potuto dire per la sua freddezza.

In testa alla cordata avanzava, si capisce, Emilio, seguito da Rolando, poi da Ursula e Clé stava in coda. Superate delle facili rocce iniziali, si presentò “la paretina Preuss”, una banda compatta di sasso, alta una ventina di metri, espostissima al vuoto, che porta all’inizio della titanica spaccatura che fende la montagna. Clé, da bravo fanalino di coda, poteva ammirare il passo felino, a scatti lievi e continui di belva che sta per afferrare la preda, con cui Emilio superava l’ostacolo. Rolando seguì benissimo (però con la corda dinanzi a sé chi non è bravo?). Ursula gli fu forse superiore; avanzava liscia di appiglio in appiglio con assoluta padronanza di sé; era un piacere vederla.

Osservandola Clé non poteva fare a meno di ripensare al suo puppy love, al suo “amor da cagnolino” per la fanciulla, appena l’ebbe conosciuta tanto tempo prima; poi all’indifferenza un po’ risentita che aveva provato in seguito, quando capì che lei gli aveva preferito Rolando; infine alla relazione di fratellanza che s’era istituita e rafforzata adesso. Clé aveva soltanto una sorellastra, Wanda, che conosceva appena: Ursula era divenuta una “dolce sorellina” a tutti gli effetti.

Raggiunta l’immane fenditura, che si presentava come un camino da risalire in gran parte per appoggi a destra e a sinistra, la cordata parve perdersi nelle viscere della montagna. I compagni, più che vedersi, si sentivano lanciando gridi, o fornendo istruzioni date a gran voce. Piano piano il camino si restringeva e così tutti venivano spinti in fuori. C’erano dei punti irti, in cui benché rinserrati dai bordi della fenditura, stavano sospesi su di un vuoto impressionante; centinaia di metri separavano i ragazzi dal ghiaione là sotto, che sembrava stranamente formato da sabbia brunastra. Poi finalmente il sole, e poco dopo la vetta!

La discesa venne compiuta lungo un orrido vallone dal lato opposto del monte, con la successione d’almeno una dozzina di corde doppie.

* * *

Il bel Kuriltai s’andava ormai sciogliendo. I vari “mongoli” tornavano alle loro yurte, alle loro città e campagne lontane, nella speranza di rinnovare l’incontro l’anno dopo. Intanto da Palermo era arrivata Malachite.

Emilio era impegnato con dei tedeschi. Malachite e Clé, rimasti soli, si caricarono provviste per qualche giorno nei sacchi, nonché una minuscola tenda, e salirono piano piano, come degli Sherpa stracarichi, tra i monti Cadini. Oggi queste crode vengono raggiunte facilmente da Misurina con dei mezzi meccanici, e c’è un ospitale rifugio ben fornito di tutto, ma allora erano luoghi assolutamente deserti, che nessuno frequentava in quanto “cime minori”, “cime fuori mano”. Questo costituiva proprio il fascino dei Cadini! Di giorno, durante le loro ascensioni, non fu visto nessuno. Di notte si sentivano i rumori dei camosci che scendevano da chissà dove per annusare la tenda, e per cercare avanzi di cibo. Malachite e Clé erano beati, come se fossero signori del mondo (e lo furono, almeno per alcuni giorni!).

La più alta cima dei Cadini è dedicata a san Lucano, santo molto venerato nelle Dolomiti, dove gli sono stati consacrati anche una valle e un gruppo di pale (monti) presso Agordo. Clé aveva notato che lo sperone Nord del Cadin di San Lucano, che punta dritto dalla valle verso la vetta, non era mai stato salito; o almeno non trovava indicazioni nelle guide che tale via fosse stata almeno tentata. Dunque, perché non andare a vedere come stavano le cose? Lo sperone, visto dal basso, sembra offrire una via di salita logica, dritta, su ottima roccia. Perché non tentarne la scalata? Malachite, naturalmente, era per il sì: “Se te la senti, va bene!”

Poco dopo l’alba del 9 settembre (1935) Malachite e Clé si legarono in cordata e attaccarono delle simpatiche e salde rocce bigiastre alla base dello sperone. Per i primi cento metri non ci furono vere difficoltà, anzi la roccia si presentava ricca di appigli e di benvenute rugosità. A un certo punto la cordata raggiunse una selletta che divide il vero pilastro del monte da una sorta di grosso torracchio; Clé si divertì a chiamarlo “Torre delle Vedette”, con terminologia castellana, dato l’aspetto di fortilizio di tutta la montagna. Sullo stretto ripiano della Belletta, Malachite e Clé consumarono uno spuntino, e si presero un po’ di riposo al sole: per fortuna la giornata si stava svolgendo con sereno e calma completa.

Più in alto si profilava ormai il vero pilastro, che sorregge poi l’intero banco di rocce della vetta del Cadino. Aveva l’aria accessibile, per quanto assai ripido. S’intravedeva in alto un camino che terminava con uno strapiombo. “Lassù troveremo le vere difficoltà,” osservò Clé. Tentare? Andare avanti? Ma sì! Non era davvero il caso di rinunciare. Malachite arrampicava benissimo, anche se era al momento poco allenata. Il suo stile era abbastanza diverso da quello di Ursula, si muoveva con maggiore impulsività, la giovane donna aveva anche più forza nelle braccia e nelle gambe, e quindi “prendeva possesso della pietra”, non la sfiorava con tanta eleganza come l’amica fiorentina.

Clé risalì tutta una serie di placche grigie, salde e molto esposte, con un gran vuoto da ambo le parti. La cordata si avvicinava ormai al camino visto dal basso che terminava con una chiusura sporgente in fuori, un vero strapiombo.

Era certamente la chiave della salita. Per fortuna la roccia era salda e offriva delle buone fessure per piantarvi dei chiodi; uno almeno era entrato benissimo e dava piena sicurezza in caso di caduta. Un po’ con il cuore in gola Clé superò lo strapiombo. Un altro non dissimile, invisibile dal basso, lo seguiva; ma anche quello venne superato. Buona parte del pomeriggio era trascorsa, ma prima del tramonto Malachite e Clé si trovarono riuniti in un abbraccio felice sulla cima della montagna.

La discesa fu facile e rapida lungo canaloni della via normale. Qualche difficoltà i due la trovarono invece nel vallone alla base del monte. Il sole era tramontato; un nevaio molto ripido e liscio s’era gelato, come succede con il buio. Muniti com’erano solo di scarpette da roccia, Clé e Malachite si trovarono nei pasticci. Aiutandosi con un chiodo più lungo degli altri come piccozza, furono capaci di uscire dal nevaio senza scivolare e farsi del male.

Arrivati al ghiaione, ai primi ciuffi d’erba tra i sassi, poterono tirare un gran sospiro di sollievo e riuscirono a guardare in su. La luna stava sorgendo da qualche parte e illuminava già di striscio la vetta remota, fatata, del Cadin di San Lucano.

“La nostra cima!” esclamò Malachite, stringendo una mano di Clé.

Sì, veramente, era la “loro cima”.