12. La stagione del sì
Intorno al 1935 si ebbero alcuni matrimoni, che riguardavano persone di nostra conoscenza. Forse è simpatico parlarne.
Il via lo dettero proprio Clé e Malachite. Era si capisce una follia, ma le follie non erano un po’ nel loro stile? Sul versante siciliano, Yvonne, la madre di Malachite, si dimostrava, senza tanti peli sulla lingua, contrarissima. “C’est idiot” ripeteva (quando era arrabbiata parlava in un suo approssimativo francese), “de quoi vont-ils vivre les deux pigeons, eh?” Il famoso e mitico “industriale milanese” non si era mai materializzato, e Malachite prendeva in giro la madre per le sue “ambizioni sbagliate”.
Il nobile patriarca con i sandaloni da frate aveva invece preso Clé in gran simpatia, sin dal primo incontro; i due se la intendevano per mille sottili ragioni d’impasto personale, anche se prodotti di due mondi così diversi tra di loro, quanto possono esserlo da un lato quello dell’aristocrazia sicula, e dall’altro quello della borghesia tosco-ticinese.
Per lui la legalizzazione del legame affettivo dell’amatissima figlia era cosa ovvia, da non discutersi neppure. Gli aggiustamenti pratici si sarebbero trovati poi in qualche modo. “E vero che Clé ha solo ventitré anni, e Malachite (o Chitella come la chiamava in momenti di intimità domestica) appena ventidue, ma guarda che bella coppia che fanno! Vedrai,” diceva a Yvonne, “che ne vien fuori qualcosa di buono.”
Sul versante fiorentino la situazione era contrapposta con elegante simmetria. La mamma di Clé aveva preso Malachite in simpatia fin dal momento in cui l’aveva conosciuta, durante quella famosa visita iniziale al capoluogo toscano. “She may be a bit wild, but she’s a lady through and through... She’s generous, and obviously in love.” L’antica tradizione britannica della nobiltà un po’ fuodde le andava segretamente a genio? “Dunque, caro figlio, hai la mia benedizione.”
Durissimo invece il dottor Raimondi. Prima di tutto l’età e qui non gli si poteva davvero dar torto. Clé non era ancora laureato, prospettive di guadagno non se ne vedevano da nessuna parte. I ragazzi, si sa, facevano un ragionamento antico di millenni, e corrente ancora oggi: se viviamo con tot lire così come siamo, uno di qua e uno di là, non potremo vivere insieme, unendo le nostre forze, sacrificandoci un poco? Gli sciocchi viziatelli non immaginavano neppure quanto costi un nuovo centro domestico, anche se ci si restringe all’assoluto essenziale.
A parte queste (ammettiamolo, giustissime) considerazioni economiche, c’era da parte del dottor Raimondi molto dell’antica insofferenza dei solerti borghesi svizzeri, suoi antenati, per il mondo dei blasonati, stemmati e portatori di titoli nobiliari. In più il dottor Raimondi, che s’era recato una volta in Sicilia per un brevissimo viaggio di lavoro, con il suo fiuto silente ma finissimo, aveva individuato senza pietà odor di decadenza nel sottosuolo del quadro ancor prestigioso presentato dai Butera al mondo.
“Non contare sul mio aiuto,” gridò a Clé, l’unica volta che l’argomento si presentò tra loro due. “Fai le pazzie, se vuoi, ma dopo te la sbrogli da te... Da laggiù (sottinteso dalla Sicilia) vedrai che potrete morire, ma non vi allungheranno nulla...”
Niente di preciso sarebbe avvenuto se, a un certo momento, Clé non fosse stato richiamato alle armi. A quei tempi si annusava in aria la possibilità di una guerra in Africa, per l’Abissinia (oggi Etiopia), e il ragionamento di Clé e di Malachite fu quello degli innamorati d’ogni secolo e continente: “Mettiamoci a posto, se per caso dovessi andar laggiù e lasciarci la buccia, almeno nostro figlio avrà un nome.”
Tutto fu tenuto all’osso della più estrema semplicità. Un bel mattino di settembre Clé, in uniforme da sottotenente degli alpini, passò in motocicletta a prelevare Malachite dalla pensione della signora Rina, e la coppia si recò in una chiesetta del centro di Firenze, di cui era parroco don Gusmè. Niente amici, l’unica persona di famiglia presente era Iris, la mamma di Clé. Poverina, piangeva dalla commozione.
Don Gusmè disse poche cose essenziali e simpatiche, non con il tono del sacerdote, ma dell’amico. Terminata la cerimonietta la mamma tornò a casa in taxi, Malachite e Clé se ne partirono in moto verso la pensione di porta Romana. La mattina dopo, prestissimo, sempre in moto, la coppia imboccò la strada per Genova e Aosta, dove Clé era stato richiamato. A quei tempi per coprire i cinquecento chilometri dalla Toscana alla Valle d’Aosta occorreva un’intera giornata.
Giunti nel capoluogo, i novelli sposi ebbero la fortuna di trovar libera una casa, detta Saraillon, in alto sulla città, all’inizio della strada per il Gran San Bernardo, dove Clé aveva trascorso alcuni mesi, un paio d’anni prima.
Luna di miele dunque felicissima, di sogno. Saraillon (riscontrata ancora intatta nel 1986) era una casa isolata e lunga, con i tetti spioventi, che ricordava vagamente uno chalet svizzero; a pianterreno abitava la famiglia padronale di agricoltori del luogo, molto cordiali e ospitali, metà del piano superiore invece veniva dato in affitto. Un caratteristico balcone di legno girava tutto intorno alla casa. Le due stanze principali dell’appartamento occupato dagli sposini guardavano a sud: nei giorni di sole formavano due cuccette di paradiso.
In basso ecco Aosta, allora poco più d’una cittadina murata romano-medievale, poi su su ecco boschi e pascoli, ecco monti sempre più erti e gagliardi, i quali finivano con la piramide suprema e severa dell’Emilius, tremilacinquecento metri. Guardando verso sud è ovvio che, dell’Emilius, appariva dinanzi agli occhi la parete Nord, quella che in ogni montagna viene baciata dal sole più raramente, e quindi è la più dura, orrida, minacciosa.
Ma l’occhio dell’innamorato di montagne è fatto in modo curioso: proprio quell’aria arcigna e proibitiva lo avvince e incanta! Pur tenendo conto, si capisce, degli altri versanti più amichevoli e benigni. Ogni montagna può insomma essere interpretata come una sinfonia di luci e di sensazioni, con i suoi tempi, i suoi ritmi, le sue chiavi, che conducono l’animo dal brutale all’elegiaco, dal grido eroico alla pace sognante.
La giovane coppia era giunta a Saraillon con l’autunno, logicamente lassù era stagione di mele. Ne dovevano essere state raccolte delle tonnellate; il profumo del pomo permeava giorno e notte ogni angolo della casa e dei campi d’intorno. E naturalmente le mele, sul posto, costavano pochissimo, ce n’erano sempre a disposizione; donde, per alcune settimane, fino a sazietà totale, mele e poi mele venivano divorate in ogni immaginabile modo: crude, bollite, soffritte, con panna, in purè, su torte, sulla carne, con le patate, magari in insalata.
Malachite aveva una grande virtù, quella d’adattarsi con allegria e facilità agli ambienti e alle cucine più diverse. Qualche volta parlava con Clé della Sicilia, ma come ricordo di un’amatissima terra, mai come termine di paragone negativo con il mondo alpino così totalmente diverso. Il suo animo vibrava all’unisono con Clé nell’accogliere il fascino dell’autunno alpestre: c’erano, per esempio, le foglie d’oro dei pioppi in controluce sul fondovalle; e che dire delle tinte ferruginose che calavano, settimana dopo settimana, dai greppi più alti verso la città?
Preziose, nei primi raggi di sole, erano le iniziali spolveratine di neve sull’Emilius, sul Rutor (dal versante opposto della valle). Alle spalle stava l’impressionante massa glaciale cilestrina di neve nuova del Grand Combin, con i suoi quattromiladuecento metri, oltre il Gran San Bernardo, già in Svizzera.
Giunto l’inverno, a dicembre, Clé venne inviato a La Thuile, come istruttore di sci; naturalmente accompagnato da Malachite, ormai legittima sposa. Oggi La Thuile, proprio in capo alla Valle d’Aosta e sotto al passo del Piccolo San Bernardo che porta in Francia, è un prospero centro di sport invernali, situato sui milleseicento metri, al centro d’una conca con ottime e abbondanti nevicate.
A quei tempi La Thuile era un minuscolo paesello di contadini, pastori, boscaioli, probabilmente poco dissimile da come doveva essere nel 1835 o nel 1735. Clé e Malachite trovarono due comode stanze in una delle migliori case del paese, appartenente a un certo signor Filliotraz. Clé legò subito con i padroni di casa, una coppia sulla cinquantina con due figli. Comunicare non era facile perché la lingua naturale del posto era una variante dei già difficile patoué valdotèn, ma insomma con un po’ d’italiano e un po’ di francese la conversazione era possibile.
La casa aveva una caratteristica interessantissima, oggi probabilmente superata, abolita, forse anche dimenticata. A pianterreno, oltrepassato l’ingresso, si entrava in una stanza ampia e lunghissima, divisa a metà per il lungo da un canaletto; su di un lato, sopra un piano leggermente rialzato, stavano otto, dieci, forse più vacche e vitelli, i cui liquami scorrevano poi nella canaletta centrale. Oltre il fossatello si presentava invece un gradino, poi un pulitissimo ripiano in mattoni, tenuto con la massima cura, sul quale vivevano, cucinavano, mangiavano, dormivano, lavoravano uomini, donne, figli e nipotini.
Le bestie generavano un calore sensibilissimo: se fuori si registravano dieci o dodici gradi sotto zero, in casa si arrivava facilmente ai dodici sopra. L’odore di vacche, di paglia, dei concimi delle varie bestie era indubbiamente forte, ma ci si abituava ben presto, o addirittura, inedita perversione, poteva piacere! Certo era tipico, inconfondibile, come il profumo di mele a Saraillon, o come quello dei cavoli selvatici sulle rupi di Sicilia. Anni e anni dopo, non appena Clé sentiva odor di concime e di vacche pensava (non senza nostalgia) a La Thuile.
Una sera, all’improvviso, chi ti giunge a La Thuile? Ecco Rolando e Geraldo, un amico, detto chissà perché “l’imperatore”. Pare si fossero trovati a Firenze in casa Sjöberg e, in capo a qualche bevutella di troppo, si fossero detti: “Andiamo a trovare Malachite e Clé!” Quando si resero conto che La Thuile era uno degli angoli d’Italia più lontani e meno accessibili da Firenze, era ormai troppo tardi; si trovavano ben rincantucciati in treno, con sci, maglioni e tutto.
“Rolando quassù va benissimo,” esclamò Malachite, “sulla neve ci sembra nato, ma Geraldo che vuoi fare? Si romperà di sicuro una gamba!”
Geraldo rise, disse che non era venuto per sciare, ma per dipingere; infatti aveva portato tutto il necessario in una valigiona rettangolare che faceva paura da quanto era ingombrante.
Così, mentre Malachite, Clé e Rolando se ne andavano con le pelli di foca (allora niente mezzi di risalita) al passo del Piccolo San Bernardo (ottima discesa al ritorno), Geraldo, ricoperto da una fantastica cappa mezza impellicciata che pare provenisse dall’artiglieria, se ne andava in giro per il paese in cerca di ispirazioni pittoriche. Il primo giorno restò piuttosto male: “Tutto è così vasto, così semplice, come si fa a trasformare la realtà in pittura?”
Poi, discutendo della cosa con Malachite e con gli amici, venne alla conclusione che “l’unica salvezza sono i particolari... Ma trovarli, ecco il problema!”. Un’ottima ispirazione gli venne dalle tracce d’una lepre sulla neve vergine... Le tre buchette (la lepre riunisce due zampe saltando) formavano un ricamo nitido ed elegante sulla coltre bianca. Ne venne fuori una piccola pittura che Geraldo avrebbe poi voluto distruggere, ma che Rolando gli strappò di mano, dicendo: “Questo è per Ursula!” nascondendolo poi con cura tra le sue cose.
Circa un anno dopo il matrimonio di Clé con Malachite, ebbe luogo quello di Rolando con Ursula.
L’opposizione da parte dei famigliari di lei s’era gradualmente attutita. La madre di Ursula, la signora Williams, la più fiera, sottile e potente nemica di Rolando, ormai molto anziana, era deceduta all’improvviso senza lasciar testamenti. Aldo non aveva mai sollevato obiezioni, non sarebbe stato nella sua natura dolce, remissiva, felice di veder felici gli altri. Anche l’imprevedibile Ermete Trimegisto si era messo piano piano l’animo in pace.
L’unico che teneva duro era l’ingegner Fabrizio, ma neppure lui poteva effettivamente fare molto, di fronte alla determinazione adamantina della sorella.
Ursula, con tutto il suo aspetto di fata, con il suo collo da regina Nefertiti, con le sue mani lunghe e delicate dalle dita simili a quelle delle dee di Botticelli, con il suo sorriso incantatore e la sua voce di angelo, nascondeva dentro di sé una volontà d’acciaio, che era difficile ad apprezzarsi, appunto perché non ne comparivano chiari dei segnali esteriori.
Da lunghissimo tempo aveva deciso, nei riguardi di Rolando, “quell’uomo è mio” o più precisamente ancora, “quell’uomo sarà il padre dei miei figli”. E piano piano, senza tanta politica, semplicemente tenendo duro, rifiutandosi di chinare il capo, o addirittura di rispondere, era giunta alla meta.
E Rolando? Clé aveva spesso l’impressione che il vero pilota della coppia fosse Ursula. Non in un senso esteriore e deteriore (“la sposa con i pantaloni”), perché in realtà Rolando interpretava benissimo, e con bel piglio, la sua parte di uomo e di maschio. Le decisioni maggiori e minori le prendeva lui; e lei appariva sempre agli occhi di chi la osservava come una compagna gentile, affettuosa, elegante, perfino un tantino indifesa e sperduta.
In realtà Ursula teneva in mano il timone della barca perché viveva il connubio con totale, finale, sicurezza interiore. Nessun dubbio la indeboliva. Nessuna contraddizione le faceva da intoppo.
Rolando, invece, almeno Clé la vedeva così, non era sicuro al mille per mille che Ursula potesse soddisfare per sempre le sue aspirazioni amorose, sotto ogni immaginabile aspetto. Certo era molto lusingato dallo smisurato successo; sapersi e sentirsi amato con simile ardore, nonostante le opposizioni dei famigliari, da una donna di tante rare qualità come Ursula, per lui era una gioia profonda e perenne.
Ma qualcosa c’era che non quadrava del tutto.
Rolando e Clé, sempre legati dalla più vigorosa amicizia, compagni costanti d’avventure in montagna, non parlavano mai, se non di sfuggita e superficialmente, del capitolo Ursula. Ma Clé, che un certo fiuto l’aveva, intuiva la presenza di almeno due remore segrete che trattenevano l’amico dal corrispondere l’amata con la totale dedizione che lei invece gli dava.
Innanzitutto c’era l’importantissimo coefficiente fisico, sessuale: da certe osservazioni marginali, involontarie, sfuggite per caso, da valutazioni d’altre figure femminili colte di rimbalzo (ma non per questo meno significative), Rolando si sarebbe detto scarsamente eccitato dalla pelle chiara, dal totale biondismo leggermente slavato della fanciulla. Ci doveva essere insomma in lui più amore che passione, più affetto che appetito erotico.
Ancora meno percepibile, ma forse più potente, doveva essere una certa “vergogna della zappa”. Rolando non lo diceva mai, però Clé osava leggergli alcuni gelosissimi pensieri: “Come, io rivoluzionario per natura, da sempre in stato di radicale opposizione al sistema e chi lo incarna, proprio io vado a inserirmi nel nodo più rappresentativo del sistema stesso! Divento membro cointeressato, e un giorno forse in parte erede, di una famiglia borghese, e borghese non solo in maniera sommessa, ma in maniera clamorosa?” Il ragionamento valeva comunque ben poco, perché bastava risalire al nonno di Rolando, il dottor Wissler, con la sua grande libreria, la sua invidiabile villa in via San Leonardo, da cui si godevano paradisiache viste sui colli e la conca di Firenze, per ritrovarsi nel bel centro dell’aborrita borghesia.
Ma l’animo umano vive di contraddizioni, no? Altrimenti saremmo tutti dei prontuari di calcoli logaritmici ambulanti con giacca e calzoni, con gonna e camicetta.
Le incertezze di Rolando erano troppo deboli per resistere a due forze femminili scatenate e riunite: quella traente di Ursula che voleva il giovane per sé, e quella propellente della signora Rina, la mamma di Rolando, che voleva Ursula (con tutto ciò che lei significava) per il figlio. Insomma venne il giorno soleggiato in cui la coppia (innegabilmente bellissima, lui con l’aria d’un principe saudita pronto per raggiungere una conferenza internazionale, lei con la presenza d’una margravia turingia partecipante a un raduno di principi nordici) si trovò, con pochissimi parenti, nell’ufficio comunale di un paesino maremmano, pronta per il fatidico “sì”.
Il problema del rito matrimoniale (religioso, civile?), che tanto spesso può causare dei mezzi disastri nelle famiglie, non s’era posto in alcun modo. Ursula era cresciuta in una famiglia di lontane tradizioni protestanti, ma ormai totalmente annacquate in un benevolo agnosticismo ecumenico. Per di più non aveva personalmente né sensibilità, né antenne religiose.
Rolando, lo sappiamo già, ponendosi rigidamente in totale antitesi al sistema, rifiutava senza ambagi la Chiesa con tutte le sue magie. Frequentare gli Scolopi come compagno di Clé, d’Ulisse, di Maurizio, di Rinaldo e di tanti altri del gruppo, gli aveva reso ancora più antipatici preti, sacerdoti, padri, frati e simili. In questo il suo curriculum fidei era stato molto più semplice, più elementare e tronco, di quello dell’amico Clé. Il proscioglimento di Clé dal Cattolicesimo doveva essere un percorso ancora lungo, lentissimo, sofferto, di tipo assai diverso. La politica non c’entrava per niente. Il terreno semmai, se possiamo scusare la terminologia roboante, era metafisico e filosofico.
Gli altri matrimoni che riguardarono i giovani amici furono squisitamente convenzionali. Gisella, la cara triestina, figlia di primo letto della signora Sjöberg, incontrò a Cortina Jean-Pierre Fournier, che aveva una decina d’anni più di lei. Clé, nel suo piccolo, pensava che simili cose avvenissero solo nei romanzi della Vicki Baum, o nei film detti allora dei “telefoni bianchi”, invece nossignori, accadevano davvero.
Jean-Pierre era lontano parente dei reali belgi, ricchissimo, bellissimo, e pittore sempre sull’orlo tra le incarnazioni del supremo dilettante, e del professionista transfuga. Fatto sta che era bravo davvero nei ritratti e molto ricercato dalle nobildonne dell’Europa frisio-vallon-teutonica.
Tra Gisella e Jean-Pierre scoccò un amore al calor bianco che li portò prestissimo al matrimonio. Jean-Pierre, per Gisella, significò dedizione totale ed eterna; su questo non c’era alcun dubbio e Clé, che le era affettuoso amico da lungo tempo, ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
In quanto al rapporto inverso, del marito nei riguardi della moglie, Clé avrebbe magari posto la mano sul fuoco, ma con forti ripari d’amianto; tutte quelle bellissime dame internazionali che volteggiavano intorno a Jean-Pierre suscitavano interessanti sospetti. Mai seguiti, si capisce, perché Clé non aveva davvero la stoffa del cronista mondano. Jean-Pierre, da parte sua, ispirava subito la più viva simpatia; era intelligente, colto, e aveva un modo di smontare gli argomenti di chi lo avversava, in qualsiasi campo, con un bonario umorismo, quasi contadino, che disarmava.
Con tutto il suo sfondo corrusco da soffitto affrescato del Settecento, era anche lui “un vrai” (un vero). Controprova ne era il fatto che, calato a Firenze, divenne amico strettissimo e ammiratore di Rolando, lo “schiacciaré” (come lo chiamava nel suo italiano pittoresco).
La signora Sjöberg naturalmente si coccolava il suo Jean-Pierre in modo quasi osceno, tanto che Clé ebbe, per un breve momento, l’impressione che il casuale incontro con Gisella a Cortina fosse stato architettato a distanza, con machiavellica accortezza diplomatica, dalla madre di Gisella. Ma no, poi si capiva benissimo che era stato un caso benigno: chi avrebbe mai potuto arrivare al punto di far pestare l’unico callo del piede sinistro di Gisella da uno scarpone maschile (calzato da Jean-Pierre) salendo nella vecchia, quasi comica, navicella affollatissima della funivia Cortina-Pocol?
Da anni ormai, quando Gisella capitava a Firenze in visita dalla madre, i Sjöberg aprivano generosamente le porte della villa e del suo parco agli amici della figlia. Vi si vedevano, naturalmente, Rolando e Ursula, Maurizio, Ulisse, e altri giovani che Clé o non conosceva del tutto, o aveva solo incontrato superficialmente. Qualche volta, insieme a Gisella, scendevano da Trieste anche altre due sue amiche, Lydia e Dora, non grandi bellezze, ma simpatiche e al solito sportive di sicuro impegno. Tutti legavano subito con loro, ma Clé se ne sentiva particolarmente attratto, com’era stato attratto dagli amici siciliani di Malachite (e come si sarebbe trovato bene in futuro con molti tibetani e giapponesi).
Clé, forse per una certa sua immaturabile immaturità, si scopriva in armonia con gli spiriti giovanili, entusiasti, pronti a vedere i lati positivi delle cose e delle persone, a gettarsi senza riflettere troppo in imprese anche folli. I fiorentini, eredi d’antichità smisurate, etrusche, romane, gotiche, franche, e chi più ne ha più ne metta, covavano in genere una smagata saggezza nelle midolla dell’animo, e questo li portava piuttosto alla critica ironica che allo slancio, al sorrisino demolitore che all’impeto costruttivo.
La signora Sjöberg, forse cinquantenne, alta, magra, scura di capelli, aveva dei tratti troppo marcati per essere bella, ma leggeva molto, frequentava concerti e mostre, viaggiava spesso, e conversava intelligentemente con i giovani, ascoltando le loro domande, risposte, obiezioni e proposte, con simpatica attenzione.
Clé pensava spesso che sarebbe stato giusto noverare anche lei tra i suoi maestri extrascolastici di gioventù. Chi fu che gli parlò la prima volta de Il Castello di Kafka? La signora Sjöberg. Da chi sentì nominare per la prima volta Robert Musil? Chi suggerì così di sfuggita una lettura di Rilke? Sempre la medesima persona.
La signora Sjöberg era di origini ebraiche centro europee, la sua lingua materna doveva esser stata il tedesco; per questo era sempre al corrente di quelle che erano allora primizie letterarie, artistiche, musicali austriache e germaniche. Fatto che veniva a correggere non poco il forte colorito anglo-franco-americano del patrimonio culturale di Clé e dei suoi amici.
L’endocosmo dei giovani è come una casa che si arricchisce continuamente di nuova mobilia, alle cui pareti s’appendono nuovi quadri, nuove carte geografiche, nuovi bassorilievi in stili diversi, una casa per di più alla quale è possibile aggiungere appartamenti, ali, torri, cortili, barchesse prima inesistenti.
Quanto alla musica, l’influenza della signora Sjöberg fu indiretta, ma decisamente di primo piano. Indiretta perché possedeva una discoteca favolosa, e con grande generosità prestava dischi e album ai suoi prediletti, dei quali Clé sapeva di far parte.
Oggi la musica riprodotta è comune e abbondante come l’acqua, ma allora esistevano solo i pesantissimi e fragili piattoni a 78 giri, costosi e, per opere poco conosciute, difficili a trovarsi. Ermete aveva rivelato a Clé Gershwin e Stravinskij, De Falla e Albéniz, e anche Vivaldi e Scarlatti, ma restavano continenti interi da scoprire nel pianeta sconfinato e sublime della musica.
Chissà per quale stupida ragione Beethoven era andato a finire tra “i noiosi della domenica”, forse per qualche concerto di musica da camera inflitto a Clé da ragazzino, in età troppo giovane per capirne qualcosa. Clé ricordava ancora gli urli, per così dire, di scoperta (thálatta! thálatta!) quando, insieme a Rolando, anche lui sensibilissimo alla musica, aveva ascoltato per la prima volta il prodigioso motivo d’apertura affidato al piano, nel Quinto concerto per piano e orchestra. Dalla pattumiera delle noie domenicali, Ludwig van passò in un baleno agli altari della più sconfinata adorazione. Naturalmente questi furono i primi passi di un cammino lungo, difficile, durato anni, che dischiuse infine le porte magiche ai quartetti finali del Maestro.
* * *
L’ultimo sì, se vogliamo restringerci ai personaggi principali nella “banda dei tinegisti” seguiti fin qui, fu quello di Daisy.
Dopo tre anni trascorsi a Firenze e in Toscana – per fare il liceo, aveva detto, ma anche per stare più vicina al padre e “un po’ per sciacquare i panni in Arno”, Daisy con la madre era tornata a Milano, mentre il padre, il dottor Levi-Ragusa, rimaneva imperturbabile nella sua campagna maremmana di Monteriòlo. Con i primi tempi dopo il trasloco ci fu un vivace scambio di lettere tra Daisy e Clé, e anche tra Daisy e Ursula, ma poi i trecento chilometri che separano i capoluoghi lombardo e toscano si fecero sentire e, come succede, i contatti finirono per sfocarsi. In linea generale si sapeva che Daisy s’era iscritta all’università, a Lettere, ma in seguito i contorni degli eventi cominciarono a perdere di nettezza.
La prima a portare notizie della strepitosa novità fu Gisella, ormai baronessa Fournier, la quale, muovendosi spesso per l’Europa con il marito, facendo soste a Milano, a Trieste, e naturalmente a Firenze dalla madre, teneva dei contatti tra territori altrimenti divisi da lunghe distanze e silenzi.
“Eh sì,” raccontò Gisella a Clé e Malachite, seduti sul prato della Villa Sjöberg, “pare sia notizia sicura. Daisy è fidanzata! Anzi pare abbia lasciato l’università per dedicarsi interamente ai preparativi del grande evento...”
“E chi è mai il felice prescelto?” chiese Malachite.
“Mah!...” interloquì Jean-Pierre Fournier con aria di piacevole mistero, “non ci hanno voluto dire nulla di preciso, ma pare che sia un grosso, grossissimo industriale milanese. E che abbia una decina d’anni più di lei.”
Il famoso ipotetico “industriale milanese”, al cui mito parve in un primo tempo doversi sacrificare Malachite, si era dunque incarnato, ma nella vita di Daisy. Certo lì dovevano nascondersi le operazioni machiavelliche della signora Marina, con i piedi molto meglio piantati in terra della nobildonna Yvonne, irrimediabilmente provinciale e sprovvista di contatti utili al caso.
Naturalmente il responso di Rolando, del capotribù per puro carisma personale, seguì sulle prime i caratteristici istinti del personaggio.
“È un vero tradimento... Sono disgustato!” sbottò alla notizia. “Da quell’ambiziosa e ambigua signora Marina me l’aspettavo... Mi dispiace invece per quel galantuomo del dottor Levi-Ragusa... Chissà che delusione a Monteriòlo!”
Tra una cosa e l’altra passò quasi un anno. Tutti si erano pressoché dimenticati di Daisy e delle sue vicende. Un bel giorno eccotela comparire a Firenze, di passaggio per la Maremma e la campagna del padre. La signora Sjöberg ne approfittò per invitare nel suo giardino alcuni degli amici tinegisti d’un tempo.
“Allora,” fece Rolando ridendo un po’ forzatamente e abbracciando Daisy. “Dobbiamo felicitarci con te, vero? Ma cosa fa esattamente il tuo promesso?”
“Be’ Rolando... si occupa di molte cose,” rispose lievemente imbarazzata Daisy, bellissima sempre, anzi più fiorente che mai, “ma principalmente di tubi d’acciaio.”
“Eh!?” esclamò Rolando con l’aria di chi resta spiacevolmente deluso.
“Ma Rolando,” rispose subito Daisy, rossa in volto e con gli occhioni spalancati al massimo, “tu non immagini neppure quante cose me-ra-vi-glio-se si possono fare con i tubi d’acciaio!”
Rolando restò per un attimo come incerto, come abbattuto da un colpo basso. Però si riebbe subito e abbracciò ancora una volta Daisy ridendo.
“Oh mia cara, carissima Daisy,” disse con tutt’altro tono, “vai avanti sicura per la tua strada, sarai sempre felice!” Poi, rivolto a Clé, a Malachite e agli altri che stavano lì vicino: “Ragazzi, questo è un amore grande, genuino... Non ci resta che brindare alla salute della nuova coppia!”
Trascorse ancora del tempo. Del matrimonio di Daisy apparvero fotografie sui giornali e sulle riviste del momento. Infine venne il giorno di conoscere personalmente il famoso marito. L’occasione fu una specie di raduno degli amici toscani a Monteriòlo, nella campagna maremmana, presso il padre di Daisy.
“Perfetto!” commentò Clé a Malachite quando, la sera dopo una cena festosa e fastosa, i due si ritirarono nella stanza loro assegnata. “Alto, bello, gran signore, lo si vede subito. E s’interessa di tante cose, non solo dei celebri “tubi d’acciaio”, ricordi? Ma di pittura moderna, di letteratura, di cinema... Anzi ti dirò che m’è parso un uomo straordinariamente colto e sensibile, ideale per Daisy... Ah, ah, vedi cos’hai perduto tradendo le speranze di tua madre, e scegliendo per compagno un tuttista senz’arte né parte, come me?”
“Uh, Clé,” rispose Malachite abbracciando e baciando il marito, “non tutti gli industriali milanesi saranno del suo calibro! Poi, sposando te, lo so, ho firmato una cambiale in bianco. Un giorno verrà scontata, ne sono sicura. Non vorrai mica tradirmi, eh?”