13. La torre de’ Marsili

E così venne anche il giorno di salutare Saraillon e i suoi ospitali padroni. Addio profumo di mele in autunno, di fieno in estate! Addio profilo ardito del monte Emilius lassù in alto, proprio davanti alla balconata di legno della stanza da letto! Addio sagoma candido-azzurrina del venerato Grand Combin con i suoi quattromiladuecento metri di maestà un po’ misteriosa e defilata! Addio improvvisi, allarmanti bagliori delle acciaierie aostane, in basso, di là dal fiume Dora!

Clé si sarebbe sempre ricordato della Valle d’Aosta, non solo come terra di castelli e di prodigiose montagne, di cui aveva esplorato, ahimè, troppo pochi segreti, ma per di più come un mondo umano chiuso e geloso del suo intimo, che rifiutava all’inizio ogni superficiale contatto, salvo quelli formali e cortesi, ma che poi gradiva una qualche insistenza, dei tentativi d’avvicinamento come segni di sincerità e d’umiltà, fino ad aprirsi in rendiconto finale, con autentico calore d’amicizia.

In questo giapponesi e valdostani, come doveva in futuro scoprire Clé, non sono un po’ simili? Dura la scalata al monte amicizia, ma lassù parchi e giardini di gioia. Caratteristico il caso della famiglia Bertoz. Solo dopo due anni di intime frequentazioni militari (prima Milano, Scuola allievi ufficiali, poi Aosta e reggimento) vennero aperte le porte di casa per un invito a cena. Ma poi con gli anni seguenti, non passavano feste maggiori che, anche da lontanissimi, i Bertoz non si facessero vivi con Clé, e viceversa.

Clé e Malachite si recavano spesso a fare lunghe camminate, anche sul monte Fallère (3061 metri) che sorgeva proprio dietro casa. In un paesino, ai piedi del monte, poco lontano dalla strada nazionale per il passo del Gran San Bernardo, Clé vide una chiesa di rispettabili dimensioni (visto il numero di case circostanti) sulla cui facciata campeggiava la scritta cubitale, in caratteri romani nerissimi DIEU VOIT TOUT. Che impressione! Che terrore! Il raggio segreto, penetrante dell’occhio divino trapassava i muri, le porte, le finestre con i loro scuri, le coperte dei letti, gli armadi, le volte delle cantine, le doghe dei tini, ti raggiungeva ovunque, nelle cripte e nelle catacombe più celate dell’animo. Non restava che aprirsi tutto, squarciarsi il petto con le mani (come Clé avrebbe visto fare, molti anni dopo, nelle immagini dei santi buddisti, gli Arhat, i quali rivelavano la sagoma del Budda in cuore) e gridare: “Voilà mon Dieu, regarde!

Per quale celata ragione, non l’avrebbe saputo dire, ma Clé ricordava sempre la scritta sulla chiesa lassù tra le montagne, come immagine quintessenziale della Valle d’Aosta. Al conto finale, che ne restava di tutti i sollazzi di Saint Vincent, di Cervinia, di Courmayeur? Superfici, illusioni, brillii, inganni per “quelli di fuori”, ma la scritta nera sulla chiesa bianca istituiva un rapporto davvero sui generis (anche perché francofona) tra gente, montagne e Assoluto.

Un giorno di primo autunno Clé e Malachite risalirono sulla loro motocicletta Bmw 750 e se ne tornarono a Firenze.

Nella città toscana presero subito a cercare casa. Restare a Villa Raimondi non era davvero il caso: la mamma Iris avrebbe volentieri ospitato per qualche tempo les deux pigeons (come li chiamava non senza disprezzo la suocera di Clé, Yvonne), ma sfidare il muso duro del dottor Raimondi sarebbe stato un continuo e penoso sforzo emotivo.

Quando il Professore, come lo chiamavano i numerosi coadiutori dello studio di scultura, aveva deciso di boicottare qualcuno o qualcosa non c’era verso di rabbonirlo, era irremovibile e capace di presentare dalla mattina alla sera una faccia a muro che non perdonava. In questo caso, l’avversaria diretta era Malachite, forse non come persona, ma come simbolo di “quelli di laggiù”, i quali, pareva, avevano promesso un certo mensile per la figlia, di cui rimandavano ormai sine die il pagamento.

Malachite per di più era rimasta incinta, cosa fausta, se vista da certe angolazioni, infausta da altre più terrene e materiali.

Ben presto Clé venne a sapere che Aldo, il fratello di Ermete, possedeva un appartamentino nel centro di Firenze, al decimo o undicesimo piano di una vera torre medievale, detta de’ Marsili, in borgo San Jacopo. Pare fosse l’abitazione più alta di Firenze, e indubbiamente salendo fin lassù ci si accorgeva di aver superato ogni altro tetto. I gradini d’accesso erano centosettantadue – niente ascensore, si capisce – ma Clé e Malachite contavano lo sforzo delle salite come allenamento per la montagna. Clé spesso risaliva i gradini addirittura di corsa, per tenersi in forma.

Aldo fu d’accordo nell’affittare l’appartamento agli amici. Il tutto consisteva in un grande e luminoso spazio che fungeva da studio, con un divisorio per il letto, più un cucinino e un minuscolo bagno. La torre era coronata da una vasta terrazza quadrata, dalla quale si godeva una vista impareggiabile su Firenze e sui suoi dintorni.

Sotto e dinanzi alla torre s’apriva il canale dell’Arno, con il Ponte Vecchio da un lato e il Ponte Santa Trinita dall’altro, fiancheggiato dal Lungarno Acciaioli: l’acqua era tanta, verdolina e tranquilla, che suggeriva una veduta veneziana.

A distanza un po’ maggiore, e ad altezze davvero eminenti, sorgeva la costellazione prodigiosa dei massimi monumenti fiorentini, una pleiade di geometrie fatate, di colori sfolgoranti, di marmi, di cotti, di pietre d’ogni genere, che dava l’impressione insieme d’ardire, di forza e di fantasia. A destra si levava il Palazzo Vecchio con la sua torre altera e petrosa, al centro il Duomo con la cupola del Brunelleschi a otto costole robuste di marmo, riunite con slancio agile e sicuro nella lucerna, a sinistra il campanile multicolore di Giotto.

Più in là stavano la cupola delle Tombe medicee e, dal lato opposto, il campanile della Badia, la torre del Bargello e altri edifici storici. Il complesso spuntava da un mare di tetti d’un rosso mattone gradevolissimo, pulito, uniforme, tratteggiato minutamente, se uno l’osservava con cura, dai filari dei tegoli e dei coppi.

Quattro o cinque chilometri più oltre il mare di tetti, l’occhio si posava sui colli verdeazzurri di Fiesole, di monte Cèceri, di Settignano, con le loro ville e badie, e i loro casali, conventi e castelli. Monte Morello serrava la vista verso nord, con le sue pacifiche cime rotonde e brulle (oggi finalmente sono boscose!).

Alle spalle sorgeva la mole compassata, d’un color pancotto, del Palazzo Pitti, più in alto ancora svettava il profilo seghettato del Forte di Belvedere, seguito più lontano dalla facciata in marmi policromi di San Miniato, che in certi momenti magici rifletteva i raggi del sole dal mosaico dorato sopra il portale. All’orizzonte di levante s’indovinavano i colli dell’Incontro e perfino la cara Secchiéta così viva d’occulti ricordi: mentre dal lato opposto, verso ponente, si potevano seguire una per una le cime dell’Appennino, dal Corno alle Scale al Libro Aperto, dal Passo dell’Abetone al Rondinaio e al Giovo; più a sud comparivano talvolta le pale aguzze delle Apuane. Era insomma un panorama unico, per vastità di respiro e per dovizia e qualità di particolari.

Bisogna riconoscere che Firenze è la città meglio conservata non solo d’Italia, ma forse del mondo. A finissimo ventesimo secolo si può dire che quasi nulla sia cambiato nella vista che ancora oggi si può abbracciare dalla terrazza della torre de’ Marsili.

Non solo, Clé si divertiva spesso ad ammirare un panorama della città, delineato dalla basilica di San Miniato fin dal 1574, dicasi 1574, che risulta fondamentalmente sovrapponibile a quello di oggi. Certo è un risultato che, specie nei tempi moderni, è costato e costa molto in termini d’ingerenze delle autorità (vedi l’occhio lungo delle Belle Arti!) negli affari privati, e che impone strettissimi limiti in ogni direzione ai proprietari d’immobili. Ma il fatto che tutti o quasi tutti, accettino queste insigni seccature senza protestare, non è prova confortante di senso civico, e d’amore comune per un’eredità incomparabile?

Clé e Malachite invitavano spesso gli amici lassù sul terrazzo per tramonti spettacolari o sommessi che fossero, ma sempre d’altissima classe. Un lusso, una gioia, una chicca, che tutti volevano godere e ricordare.

Nei felici e leggeri incontri di quei mesi, comparivano naturalmente Rolando e Ursula, Ermete e Aldo (il proprietario della casa), Maurizio con la sua ragazza Marcella, Rinaldo, Ulisse (quasi sempre solo, i suoi amori erano umbratili e segreti), Gisella e Jean-Pierre, Geraldo, il professor Pasquali, il fisico Occhialini con una misteriosa tedeschina, perfino una volta o due l’editore Enrico Vallecchi.

Valeva l’uso che i Clé offrissero terrazza, vista e bevande, mentre gli amici portavano carni e contorni (un pollo arrosto costava allora dieci lire), dolci, frutta e simili.

Gli otto o nove mesi trascorsi da Malachite e Clé sulla torre de’ Marsili furono tra i più intimi e felici nella loro vita di giovane coppia. “Si vivevano allora i primi mesi di un matrimonio d’amore durante il quale le frenesie, le acrobazie dei sensi sono smaltate e sorrette da tutte le gerarchie angeliche, benevole benché sorprese” (per citare Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa).

Tra Clé e Malachite era poi sorto un lessico erotico famigliare, che serviva benissimo per discorrere di sesso e affini anche tra estranei, senza essere capiti. L’amplesso rispondeva al verbo “talamare” (ovviamente da “talamo”): circolavano perciò espressioni come, “che talamata ieri sera!”, oppure, “ti andrebbe un talamino pomeridiano?” Pene, vagina e sperma s’erano nobilitati in vesti di sanscrito come lingam, yoni e soma. Fellatio diveniva di conseguenza “bacifallo” o “bacilingam”, o anche “culto del lingam”, e cunnilingus si trasformava in “beatitudine della yoni” o “beatificare la yoni”. Ce n’era insomma per ogni capitolo, paragrafo e comma del Kamasutra domestico.

Il romanzo di Ulisse (ahi, quella sintesi-confessione durante il Kuriltai di Misurina gli stava costando molta pace!) era ormai diventato quasi opera comune del clan. Rolando puntò alla mole del Duomo lì dinanzi e ricordò la leggenda secondo la quale i fiorentini medievali andassero, nei momenti di tempo libero, a dare una mano all’immensa costruzione, portavano su pesi, o spingevano uno dei carrelli su cui stava scritto UFO (Unione Fiorentina Opera, sottinteso “del Duomo”), donde l’espressione “lavorare a ufo”, lavorare gratis, per nulla...

“Allora Ulisse,” propose Rinaldo, “lavoriamo un poco ‘a ufo’, vuoi? Come te lo immagini il tuo Carletto? È dopotutto la figura centrale del racconto, Carletto è colui che sale, che ce la fa, il self-made man del palazzo, no? Non lo vedi un po’ come Heathcliff in Cime tempestose? Il piccolo nomade, o Rom che fosse, rastrellato per le vie di Liverpool? Oscuro, ispido e scontroso?”

“Quella sarebbe un’immagine del tutto sbagliata!” sbottò Ulisse. “Un essere simile crea intorno a sé opposizione, quindi fallisce nei suoi piani. Carletto è sì piccolo di statura, benché forte e ben proporzionato, è nero di capelli e di pupille, pare più impastato con l’inchiostro che con il sangue, questo sì, ma poi è furbissimo, quindi gentilissimo, ansioso di piacere, d’insinuarsi nelle grazie di chi conta nel mondo. Capisce in poco tempo che a comandare nel palazzo è il signor Vertecchi, l’amministratore, e non il conte Bertieri, anche se il primo non alza mai la voce, e il secondo fa delle scenate da mettere paure verdi addosso a chiunque...”

“Come fai Ulisse?” osservò Ursula, sempre curiosa riguardo alle tecniche delle varie arti, tra cui la narrazione. “Vai avanti pari pari con i decenni, come se tu fossi il Tempo stesso? Oppure ti permetti dei salti, come un architetto che perfeziona prima un balcone, poi alcune finestre, infine un portale?”

“Uh, quante ne volete sapere!” sospirò Ulisse, tra il seccato e il lusingato. “È un grande arazzo, quindi prendo appunti di qua e di là, secondo come viene...”

“Sempre facendo parlare la casa, il palazzo, vero?”

“Eh già, quello è il motivo, la chiave che porta avanti tutta la storia.”

“Hai già qualche parte completa?” chiese sempre più curiosa Ursula.

“Be’ sì... Il momento in cui Carletto sedicenne s’insinua nella casa del conte...

“Il tema lì è la brace... La bella brace di qualità, che il padre e i fratelli di Carletto producono sulla montagna e poi fanno scendere con i muli in città. Quando la percuoti suona come una gentile campana... D’altra parte sporca, fa polvere nera, quindi occorre imballarla bene. Carletto sale con il Giangrandi, padrone della bottega affittata dal conte, portando balle della miglior brace, su alla cucina del palazzo. Lì trova la cuoca Marina con la figlia Susanna, la prima un donnone sulla quarantina, autoritaria e bravissima, ma manesca, la seconda una biondina diciottenne vogliosa e sprovveduta...

“Che prontamente s’innamora di Carletto... Ecco il ponte che permette a Carletto, zitto zitto, di metter piede stabile in casa Bertieri...”

* * *

Clé e Malachite si trovavano a casa, sulla terrazza di torre de’ Marsili, il famoso 6 maggio del 1936, il giorno in cui venne annunciata la conquista di Addis Abeba, e la fine della guerra d’Etiopia (allora Abissinia).

Clé avrebbe sempre ricordato che la città parve impazzire per l’occasione (checché ne abbiano poi detto i posteri). La torre era come un belvedere sul centro di Firenze, e soprattutto sul Lungarno Acciaioli, uno dei tratti più frequentati di tutte le vie che fiancheggiano il fiume cittadino. Continui cortei di gente con bandiere e gagliardetti d’ogni sorta passavano su e giù cantando e gridando. Si sentivano cori improvvisati che cantavano Faccetta nera, o Giovinezza, oppure l’Inno del Piave...

Passavano drappelli di militi fascisti, di camicie nere, passavano scolaresche con o senza preti e monache, passavano gruppi d’impiegati o d’artigiani raccoltisi per l’occasione, felici di trovare un’ottima scusa per fare vacanza. File di macchine cercavano di aprirsi una strada suonando a più non posso trombe e clacson. Si vedevano anche carrozze a cavalli cariche di giovanotti e di ragazze con i berretti goliardici, evidentemente studenti festanti.

Le manifestazioni durarono tutto il giorno, tutto il pomeriggio e la sera, e si calmarono solo con il calare della notte.

Né Clé né Malachite, pur essendo consci di trovarsi testimoni d’un evento di grande rilievo storico, se la sentivano di partecipare all’entusiasmo della folla. Che la guerra fosse terminata era ovviamente causa di gioia per tutti, ma troppe erano le ragioni di dissenso riguardo all’impero colonialista per gettarsi in pieno nel bagno d’emozioni scatenate della folla.

E più o meno tutti gli amici del clan nutrivano i medesimi sentimenti. Restava però incontrovertibile il fatto che nel maggio del ’36 l’assenso degli italiani, o per lo meno dei fiorentini, al fascismo e al duce era pressoché totale. Questo Clé lo avrebbe potuto sempre testimoniare, in quanto esperienza personale diretta. Guai, in quel periodo, a dimostrare in pubblico pareri non conformi all’umore generale, c’era da venire brutalmente zittiti, o peggio segnalati alle camicie nere come peccatori pubblici, con il pericolo di conseguenze poco gradevoli. Per fortuna il regime italiano era molto meno brutale di quelli germanico o russo del tempo: se la facevi proprio grossa potevi aspettarti (come Carlo Levi, e altri intellettuali del momento) d’essere inviato al confino in un luogo fuori mano, o su un’isola.