14. Fiesole millenaria
Con il novembre del 1936 ebbe luogo un evento decisivo per la giovane coppia: Malachite partorì la sua prima figlia, Dafni.
L’ingresso della bimba sul pianeta andò abbastanza bene. Fortunatamente Malachite aveva insistito per farsi ricoverare in clinica, infatti ebbe una forte emorragia che, a casa, probabilmente non si sarebbe potuta arrestare.
Fu a ogni modo evidente che la giovane famiglia non poteva restare alla torre de’ Marsili, senza ascensore e con tutti quei gradini d’accesso. Bisognava di nuovo cercare casa. “Speriamo bene” pensava Clé, tristissimo di dover lasciare la torre con la sua famosa terrazza, bicocca nella quale era stato felice e sereno come poche volte prima. “Dove la troverò mai un’altra veduta simile su Firenze e dintorni?” pensava. “Un altro stupendo teatro di nuvole e tramonti?”
Per caso felice tutto andò benissimo. Tramite amici venne scovato un piccolo appartamento a Fiesole, in una villetta che era stata costruita in forte pendio, quindi qualcosa d’inconsueto e d’interessante. L’entrata era situata al pianterreno, dal lato della strada principale per Fiesole, quasi al suo termine; appena messo piede in casa, però, uno si trovava al primo piano, anzi finiva per affacciarsi dal lato sud sopra uno scosceso podere, tra uliveti, vigne e cipressi.
La vista dalla nuova casa era di tutt’altra natura di quella goduta dalla torre de’ Marsili, ma poteva dirsi altrettanto prodigiosa. Il colle di Fiesole solleva persone e occhi di almeno duecentocinquanta metri sulla pianura distesa là sotto. Firenze, raccolta mirabilmente intorno alla cupola del Duomo, appariva come uno sterminato giocattolo di casine e casette ridotte in proporzioni microscopiche dalla distanza e dall’altezza.
Il riscaldamento della nuova casa funzionava ancora a legna, quindi richiedeva attenzione e lavoro, ma Fiesole è talmente assolata che la cosa aveva scarsa importanza. La cucina era un po’ sacrificata, ma tutto sommato il trasloco dalla torre era andato a gonfie vele. Malachite trovava che i mobili di Fiesole fossero più simpatici di quelli giù in città – e poi non c’erano tutti quei gradini da fare diverse volte al giorno! Contenta lei, sempre un po’ critica sugli aggiustamenti casalinghi, il più era fatto; e si potevano prevedere dei mesi sereni a venire.
“Ladri d’orizzonti!” esclamò Rolando, mettendo piede per la prima volta nella nuova casa. “A Firenze facevate festini di nuvole, ma qui respirate spazi infiniti, eh? Siete perfino padroni del Chianti. Scommetto che con un buon binocolo potete vedere anche Siena e San Gimignano...”
Quello che Rolando non conosceva (la sua visita era capitata di pomeriggio) riguardava certi fenomeni che avevano luogo la mattina presto, specialmente da novembre in poi.
Avveniva spesso allora che, svegliandosi verso le sette, Clé scoprisse una Firenze imbacuccata e quasi sepolta da un lago candido e cremoso di nebbie: dal quale poi, con il passare delle mezzore, cominciavano a spuntare la cupola del Duomo, il campanile di Giotto, la torre del Palazzo Vecchio, come dei gioielli incastonati in madreperla.
Più tardi ancora, le nebbie si perdevano in frammenti vaghi, in sciarpe giocose, in strascichi pigri soffermatisi tra torri e cipressi. Le prime volte il fenomeno parve di tale potenza fascinatrice da rivelarsi pericoloso; si rischiava di stare lì alla finestra per delle ore, trasformando la gioia in un perditempo.
Allora Clé ripensava ai panorami fatati di Villa Valginevra in Sicilia, e – perché no? – a quello arcigno e robusto che si godeva da casa Saraillon, sopra Aosta. È vero che, vivendo a lungo con panorami fuori del comune, sopraggiunge una certa assuefazione, e si finisce per fare un certo callo al bello; ma poi ogni tanto ci si risveglia: “Ah, il mio gaudioso panorama, eccolo là, caro, adorato, ognora presente. Grazie vista sublime! Ti bacio, ti saluto!”
Clé scoprì tutta una serie di piaceri speciali nell’abitare a Fiesole. Godeva nell’identificarsi con questa località antichissima e orgogliosa, piccola ma resistente come un diamante ai cambiamenti di fondo. Fiesole era già Fiesole quando Firenze non esisteva neppure, o era un minuscolo borgo sorto vicino al passaggio più comodo e sicuro sul fiume Arno? Fiesole era probabilmente Fiesole prima che Roma fosse Roma. A cento metri, o meno, da casa, sorgeva una breve sezione megalitica di mura arcaiche, che un tempo dovevano proteggere la città fortificata sulla cima della montagna; ora non servivano più a nulla, sostenevano semplicemente la terra rossastra di un uliveto, ma le pietre smisurate d’arenaria, lavorate, piallate, scolpite dai millenni, risvegliavano in Clé, la medesima meraviglia e il medesimo rispetto che aveva provato dinanzi ai nuraghi della Sardegna.
Che genere supremo di gente doveva essere quella che riusciva a smuovere e a disporre con arte dei massi di simile peso e dimensione! Almeno sotto questo aspetto c’è stato, con il fluire del tempo, decadenza. Saremo più bravi, più maturi, più raffinati in tante cose, ma per alcuni lati i lontanissimi progenitori ci sorpassavano, eccome. Clé provava a Fiesole la medesima meraviglia rispettosa e incantata che registrava in sé giù a Firenze, nel museo d’Antropologia, quando gli mostravano a lezione delle lame scheggiate in pietra dura della cultura solutreana, lavorate con una precisione e un’eleganza che facevano pensare, secoli e secoli dopo, agli orologi Pathek Philippe, o alle macchine fotografiche Leica.
Poco sopra, a Fiesole città, si trovava il palazzo comunale, con innumerevoli stemmi dei podestà che vi avevano esercitato il loro potere, disordinatamente disseminati per ogni dove sui muri; alcuni risalivano al Trecento. E poi, subito al di là del colle, stava il luminoso e ben tenuto teatro romano, con il suo piccolo museo, ricchissimo di resti etruschi e romani. Anche quella era un’amata presenza che rompeva il regime e l’assolutismo cristiano e cattolico che prevalevano a Firenze, e vi pesavano sopra come una cappa d’incenso.
Clé si sentiva vivamente attratto dalle civiltà che il professor Pasquali definiva situate “oltre i limiti dell’indoeuropeo”, ma anche dalle civiltà precristiane. Sentiva in modo irresistibile e profondo che l’uomo fu uomo fin dai millenni più remoti del passato, che la civiltà contiene il Cristianesimo come caso particolare e non viceversa. Il Cristianesimo è una grande vicenda dell’endocosmo, ma non è un assoluto, non ha valore esocosmico.
Tornando agli etruschi, aveva intuito bene lo scrittore inglese David Herbert Lawrence, quando affermava che gli italiani moderni sono, in essenza, molto più vicini agli etruschi che ai romani!
And I thought again how much more Etruscan than Roman the Italian of today is: sensitive, diffident, craving really for symbols and mysteries, able to be delighted with true delight over small things, violent in spasms, and altogether without sterness or natural will-to-power. The will-to-power is a secondary thing in an Italian, reflected on to him from the Germanic races that have almost engulfed him.
E le osservazioni valgono in modo speciale per i toscani, così riluttanti a sentire un vero senso dello Stato, così attaccati al loro particulare, e su di esso tanto potentemente concentrati. Gli etruschi non riuscirono mai a raccogliersi tutti in un organismo politico; al massimo una dozzina di città e distretti si confederarono tra di loro. Pare che annualmente organizzassero delle specie di Kuriltai alla mongola, nei pressi di Bolsena, ma siamo ben lontani da un autentico Stato. Ognuno voleva fare per conto suo.
D’altra parte gli etruschi erano civilissimi, raffinati, artisti di vaglia, gaudenti e festaioli, sensuali e crudeli, sapienti di magie e divinazioni. Con un po’ di forza e molto ordine i romani se li divorarono boccone dopo boccone. Clé amava immaginarsi gli ultimi etruschi, ancora culturalmente e linguisticamente tali, che si dovevano essere rifugiati lassù a Fiesole, mentre la pianura dell’Arno, laggiù nelle nebbie, era già romana.
Tanto Clé quanto Malachite tenevano a diventare fiesolani autentici. Non v’era una certa nobiltà occulta nell’appartenere davvero al “Colle Lunato”? Un giorno Clé si recò in comune per rendere ufficiale il trasferimento della nuova famiglia da Firenze. Fu in quell’occasione che ebbe luogo il felice incontro con Vieri Mancinelli.
Più anziano di Clé d’un paio d’anni, Vieri aveva trovato un posto di segretario comunale nella cittadina del colle, lavoro che gli permetteva di vivere alla meglio. In realtà, e la cosa venne fuori quasi con pudicizia in un successivo incontro, “La mia passione,” confessò, “sono degli studi piuttosto peregrini e del tutto inutili... Non mi crederai, mi appassiona la storia delle religioni... Anzi,” disse poi, “la Religionsgeschichte. Figurati, ho fatto due anni di studi in Germania, a Friburgo, dove l’università è nota per queste ricerche... Ah, ah, e ora sono un povero scrivano! E se no come campare? Per di più ho preso anche moglie, che è rimasta subito incinta, figurati... Eh, in Italia è difficile sistemarsi per uno come me! Forse verso i quarant’anni, se avrò pubblicato qualcosa di buono, ma ci spero poco.”
Distinguere Vieri in una folla sarebbe stato difficile. Di media statura, di corporatura abbastanza forte, vestiva senza alcuna ricercatezza o pretesa. Camminava un po’ sbadatamente, non si capiva bene se per vezzo di studioso che plana vagamente sulle cose del mondo, o per un difetto di coordinamento neuro-muscolare.
Caratteristici erano solo i capelli, nerissimi, lisci, oleosi, ribelli; era vero che li teneva piuttosto corti, ma poi se li pettinava di frequente con le dita a rastrello, quasi nell’intento poco speranzoso di domarli. Si radeva il volto con cura, ma sotto la pelle s’indovinavano le radici fusche d’una barbaccia aggressiva. L’epidermide delle labbra era particolarmente paonazza. Gli occhi, dalle pupille nere come carboni, erano mobilissimi, curiosi, avidi di captare segni, messaggi, espressioni d’ogni interlocutore, con il loro carico di sottintesi e segreti.
Vieri aveva un modo di guardarti dritto in faccia nelle conversazioni, dicendo poi un “sì, davvero?” che risultava oltremodo attraente. Forse soffriva d’un certo complesso d’inferiorità. Se era vero, cercava abilmente di superarlo. Misteriosamente Clé era succubo dei capricciosi giudizi e pregiudizi di Rolando, riguardo a qualsiasi nuova relazione umana che si presentasse all’orizzonte. Una volta avviata (l’amicizia o l’amore che fosse) restava sospeso in cielo il problematico incontro della nuova persona con l’occulto capotribù Rolando. Per fortuna, nel caso di Vieri, la cosa andò bene, o per lo meno rimase sul neutro soleggiato.
Clé, con il suo sciagurato tuttismo sempre all’erta, fu immediatamente preso da una passione bruciante per la Religionsgeschichte. Appurato, fin dal primo lievitare del soggetto in conversazione, che Vieri non era, né era mai stato, un seminarista (specie a Fiesole assai diffusa, per l’esistenza in piazza d’una poderosa “fabbrica di preti”), e che le sue relazioni con il Cattolicesimo si tenevano sul rispettoso agnosticismo, Clé si sentì immediatamente convogliato dallo spirito della più genuina Religionsgeschichte. “A Friburgo,” raccontava Vieri, “mi sono interessato parecchio dell’Islam... Non per convertirmi, beninteso, ma con lo spirito con cui tu, per esempio, devi aver studiato le conifere, o l’embriologia umana...” Parole che suonavano con incanto di musica attraverso le aule endocosmiche di Clé.
Qualche volta i due amici si trovavano a casa di Clé, e allora Malachite preparava del tè, sparendo poi di là con Dafni in braccio. Altre volte era Clé a fare visita a Vieri, il quale occupava alcune stanze nell’ex portineria d’una villona situata più in basso del colle di Fiesole, dalle parti di San Domenico.
In quel caso a ricevere l’ospite c’era Vanna, la moglie di Vieri, una timida e silenziosa personcina, nera di capelli, ma bianchissima di carnagione, caruccia e spasmodicamente incinta. Lei serviva i ragazzi in maniera meno cosmopolita con due caffè; poi si sedeva nel salotto in contemplazione beata del marito e non azzardava mai una parola.
Clé, nella totale ignoranza del campo di ricerche dell’amico, trovava spesso affascinanti le più elementari nozioni che questi poteva comunicargli; proprio come Vieri, quasi del tutto digiuno di scienze, restava invaghito da un orizzonte di studi di gran prestigio, ma rimasto per lui alle conoscenze del liceo.
Per esempio Vieri aveva sentito parlare di Alfred Wegener, e della sua teoria sulla deriva dei continenti. Oggi questa è molto perfezionata e domina pressoché incontrastata i campi della geologia e della geografia, ma allora, negli anni trenta, benché pubblicata fin dal 1912 in forma elementare, era poco conosciuta, fieramente criticata da molti, e da alcuni ritenuta stramberia degna di fantascienza.
Clé per l’appunto aveva letto Formazione dei continenti e degli oceani nella traduzione inglese, un paio d’anni prima, e ne era rimasto entusiasta e persuaso; poteva dunque illustrare al compagno il geniale quadro teorico di Wegener in tutti i suoi particolari. “Il guaio di Wegener,” spiegava Clé, “fu quello di avere una formazione originaria di meteorologo. I geologi e i geografi si levarono in falange compatta contro di lui. Che vuoi che ne sappia di continenti uno specialista di nuvole?! E invece era stato il classico colpo di genio del totale outsider...”
Un altro importante compartimento del sapere, in cui domanda e offerta, nell’economia d’uno scambio delle idee tra amici, funzionava in modo egregio, riguardava le teorie dell’evoluzione... Per Vieri la sola parola “evoluzione” risvegliava nella mente echi di uno dei massimi conflitti presentatisi nella storia della cultura umana tra religione e scienza.
Anche qui il caso volle che Clé avesse dedicato molta attenzione durante gli anni precedenti, insieme all’anatomia comparata e all’embriologia umana, proprio a una ricerca circostanziata sulle varie teorie dell’evoluzione. Quindi gli era facile e gradito parlare di darwinismo, con tutti i suoi perfezionamenti successivi, del lamarckismo e di ciò che può restarne valido a tutt’oggi, del mutazionismo di De Vries, del plasma germinale di August Weismann, magari dell’élan vital di Bergson.
Parallelamente Clé cominciava a intravedere, da quanto gli diceva l’amico Vieri, l’unità sostanziale delle tre grandi religioni profetiche, Giudaismo, Cristianesimo e Islam. Gli venne anzi subito da chiamarle “le religioni giucrislamiche”, con qualche protesta più divertita che censoria da parte di Vieri.
“Non trovi assolutamente scandaloso,” commentava Clé, “come da noi si possa venire considerati persone colte, coltissime, magari con più di una laurea, e non sapere nulla, dicasi nulla, delle massime religioni che ci attorniano da tutte le parti?” Vieri per fortuna non aveva la natura dello specialista, dell’uomo who knows more and more about less and less, era anche lui un potenziale tuttista, sebbene in grado meno disperato e pernicioso di Clé.
Nell’ignoranza totale che Clé si ritrovava addosso in questi campi, certe ovvie notizie passategli dall’amico gli giungevano come stupende esplosioni di luce endocosmica.
“Vedi,” gli diceva Vieri in risposta a una generica domanda, “tu non devi istituire il parallelo ‘Dio-Gesù-Vangeli’ da un lato e ‘Allah-Maometto-Corano’ dall’altro... Le corrispondenze esistono, ma sono del tutto diverse da quanto ti aspetti... Dio e Allah possono stare bene insieme. Per quanto entità configurate assai diversamente, hanno parecchi fondamenti in comune... Maometto non ha però nulla a che spartire con Gesù! Maometto s’è sempre proclamato un essere completamente ed esclusivamente umano, che Allah s’è compiaciuto di rendere annunciatore (profeta) di una nuova e finale rivelazione. Gesù invece è riconosciuto dai cristiani come incarnazione di un’entità misteriosa chiamata Figlio di Dio, ed è partecipe della suprema Trinità, che costituisce l’essenza del divino. Il parallelo esiste, ma inaspettato, sorprendente.
“Gesù va semmai omologato al Corano! È stato grossolanamente detto che, mentre nel caso cristiano Dio s’è incarnato nel Figlio, nel caso islamico Allah s’è ‘incartato’ nel Corano.
“Il parallelo va dunque istituito tra Rivelazione Verbale (Corano) e Incarnazione Redentrice (Gesù), ambedue operazioni divine di comunicazione con l’uomo. I musulmani non hanno bisogno di ricorrere alla redenzione, perché non è da loro postulata l’eredità della colpa originaria, cioè la caduta dell’uomo.”
“Allora niente parallelo Vangeli-Corano?”
“Assolutamente no... E vengono fuori altre distinzioni importanti. I Vangeli sono documenti ispirati, ma del tutto umani, tant’è vero che vanno sotto i quattro nomi dei loro autori. Il Corano (la parola significa ‘recitazione’) è un documento sui generis... Il fedele musulmano lo crede esistente in cielo, secondo alcuni ab aeterno, e altri ancora lo vogliono lassù inciso su lastre d’oro.
“Fatto sta che, si dice, durante i primi decenni del settimo secolo questo sacerrimo testo venne dettato a Maometto, durante molti episodi di mistico rapimento, dall’arcangelo Gabriele in persona. Il Corano dunque, a differenza dei Vangeli, non è un documento umano, ma un dono di Allah, un ‘Figlio di Dio’. Per di più è legato essenzialmente alla lingua araba, la sola che fa testo indiscutibile.
“Tradurlo è ammesso, ma solo per ragioni di necessità pratica. La recitazione autentica, efficace, è unicamente quella fatta in arabo.”
* * *
Queste e altre affermazioni, che facevano parte del sapere elementare di Vieri, colpivano Clé come stupende folgorazioni... Ah sì, la Religionsgeschichte (suonava tanto più nobile e persuasiva in tedesco), ecco l’orizzonte futuro degli studi da seguire!
E qui, per caso, s’aggiunse un’altra inaspettata apertura. Un pomeriggio, mentre i due amici, riuniti in casa di Vieri, stavano animatamente chiacchierando di legge, sharia, dharma, e loro sottili distinzioni, s’udì un richiamo di voce maschile dal pianterreno, fuori. Era il signor Cavendish, il padrone della villona più sopra, che dava un saluto passando a piedi per il cancello dei veicoli. Vieri chiamò subito Clé alla finestra, e fece una rapida, sommaria presentazione dell’amico al suo vicino di casa.
“Sai,” spiegò subito dopo, “l’ho voluto fare perché il signor Cavendish possiede una piccola, ma importante collezione di stupendi stendardi religiosi tibetani (si chiamano thanka, mi pare...), e potremo chiedergli di farceli vedere. Ne è molto orgoglioso e li mostra volentieri. Forse t’interesseranno, no?”
“Certo, hai fatto bene... Mamma mia però, troppa carne al fuoco! Ora anche il Buddismo... Ne sai qualche cosa? Mi aiuterai a capire?”
“Gli stendardi tibetani sono un osso difficile, lo confesso... Ma ci proverò per quanto mi è possibile.”
Qualche giorno dopo, previe consultazioni telefoniche tra Vieri e James Cavendish, i due amici risalivano il viale ghiaioso a larghe curve che serviva da ingresso veicolare al tozzo e tutto sommato brutto villone che il nuovo proprietario inglese aveva ribattezzato “Wuthering Heights”, dal famoso romanzo della Brontë.
Ai lati del vialone si estendevano dei tipici campi dell’agro fiorentino a colture miste, interlineate da filari di viti sposate a querce, aceri, frassini, pioppi e altri alberi tenuti bassi, e a rami divaricati da frequenti potature. Per farsi un’idea di quanto fossero incantevoli i filari degli alberi da supporto delle viti, con festose verdi ghirlande di tralci e di pampini tra l’uno e l’altro, colme di grappoli maturi a tarda estate, bisogna ricorrere ad alcuni quadri dei macchiaioli fiorentini, o alle vecchie fotografie degli archivi Alinari.
A ridosso dei villone i campi si trasformavano in frammenti di quello che fu una volta un giardino, ora in disarmo completo; sopravvivevano solo delle vigorose piante di limoni in vaso, distribuite nei punti strategici.
Ecco James! Stava ai piedi d’uno scalone, dinanzi a un cavalletto, tenendo nelle mani tavolozza e pennelli, in atto di dipingere uno scorcio della villa con i suoi limoni, sullo sfondo del colle di Fiesole. L’uomo poteva avere quarant’anni; era biondissimo di pelo, rosso di guance, celeste di pupille, piuttosto ben pasciuto, gioviale, dal sorriso ospitale e incoraggiante, evidentemente sempre intento a godersi al massimo tutte le cose buone della vita.
“Gli piace fare l’inglese, come se lo immagina la gente...” aveva detto incidentalmente Vieri in una conversazione poco prima; infatti adesso accolse gli amici con il capo ricoperto da un berretto a doppio spiovente, a quadrettini, tipo Sherlock Holmes, con un pullover color zafferano e dei calzoni bigi alla zuava, come usavano allora (ricordare quelli tipici del famoso scrittore George Bernard Shaw), e calzettoni color foglie morte.
“Well, my dear boys” fece James Cavendish, ponendo da parte sopra una sedia tavolozza e pennelli (il quadro appariva appena cominciato), “welcome to Wuthering Heights! I guess you’ve come to see my Tibetan monsters, eh? Vieri (lui pronunciava il nome come Vaieri) li conosce bene, lui è uno scholar (un accademico)... By the way, call me James, may I call you Kleh?”
Il terzetto si volse verso il villone, risalendo un’ampia scala lastricata a mattoni butterati da licheni multicolori e fiancheggiata da limoni in vaso. Era ormai autunno. “Tra poco dovremo rimettere i vasi in limonaia,” osservò James, “anche se a Fiesole fa più caldo che altrove... Tanto sole? Sì, ne abbiamo tanto da queste parti!” La scala terminava su un terrazzo, sempre d’ammattonato lichenuto, che circondava tre quarti della villa, un cubo imponente, ma sgraziato, rifatto, si sarebbe detto, a metà Ottocento.
Varcata una delle tante porte protette da persiane verdoline bisognose d’una riverniciatura, i tre si trovarono in una sala assai vasta, ma arredata senza alcuna cura, alla campagnola toscana; Clé notò dei mobilacci lucidi spaiati del secolo scorso, delle poltrone comode ma faticatissime, un vistoso lampadario di cristalli da Grand Hotel appeso al soffitto. Sulle pareti stavano dei quadri di poco valore in cui si rappresentavano delle tipiche scene di caccia...
“Ho lasciato tutto come ho trovato qui all’inizio,” disse James agli ospiti. “Ogni settimana penso: ‘Ma bisogna rifare l’intero arredamento!’ Poi non so, mi sembra un peccato... L’insieme ricorda i tempi in cui i padroni di prima consideravano la villa una specie di rifugio di campagna e basta... Anche questo ha il suo fascino, non vi pare? Be’, ci penserò ancora, tanto Vaieri, che abita praticamente qui, lo saprà subito...”
Il padrone di casa fece sedere gli ospiti e batté due o tre volte energicamente le mani: apparve quasi subito correndo un giovane indiano con turbante a strisce paonazze, con un sorriso superlativo incorniciato da barba e baffi neri e lucidi, tenuti a posto da un retino quasi invisibile (era un sikh); indossava un’uniforme candida, d’apparenza militaresca, inappuntabile. “Volete qualcosa da bere?” chiese James. Erano le tre del pomeriggio e bevande alcoliche parvero inopportune; James suggerì dei sorbetti, che vennero prontamente portati, con l’aggiunta balzana di acqua e una bottiglia di Pernod.
“Vaiery è un autentico scholar,” ripeté James, “ma io sono un povero dilettante in tutto... Ah, ah, m’è capitato di acquistare una mezza dozzina di stendardi tibetani a un’asta in Svizzera, mi piacciono moltissimo, però non ci capisco nulla, proprio nulla... Sono affascinato da un’arte così ardita e così perfetta, però c’è tutto un simbolismo che mi sfugge.
“Sono assolutamente ravished da queste opere che uniscono l’ardire, quasi la follia, all’eleganza! Da un lato gli artisti sanno esprimere con sublimi dolcezza e serenità la pace beata dei Budda in meditazione, nei loro nirvana celesti... Poi di colpo mutano completamente registro e si concentrano con furore maniacale su demoni scatenati, sanguinari, mostruosi. Mai perdendo la testa però, sempre mantenendo il loro segno preciso, decorativo, da codice miniato.
“E infine ti mettono a confronto con una teatralità erotica così francamente esplicita che è peggio d’un afrodisiaco... Come si spiega tutto questo, Vaiery, tu che sei un esperto?”
Intanto il solerte sikh turbantato, nella sua uniforme candida, scalzo con il suo squillante sorriso in permanenza sul volto, stava introducendo nella sala un cavalletto altissimo di legno su rotelle, che (lo si vide subito) doveva servire da supporto per gli stendardi. Kumar Singh (così James chiamava il giovane indiano) srotolò uno stendardo e lo depose con grande cura e attenzione sul trespolo di legno.
“Questo,” fece James, “mi sembrerebbe uno dei più pregevoli tra gli stendardi in chiave pacifica, serena... Anche i colori delicati, maturati dai secoli, sembrano contribuire alla dolcezza del messaggio. Su, Vaiery, spiegaci cosa rappresenta! Lo sai di sicuro, vecchio scrigno di scienza, non lasciarci soli a brancolare nel buio...”
“Ma vedi, James,” rispose Vieri piuttosto imbarazzato, “mi sono appena occupato di Lamaismo in linea generale, la sua iconografia è un campo minato, difficilissimo, dove anche i maestri finiscono per cadere... A ogni modo mi parrebbe che siamo dinanzi a uno dei cinque massimi Budda celesti, ciascuno dei quali presiede a un kalpa (epoca) nella storia cosmica. Forse è Amitabha, colui che presiede al nostro kalpa... Sì sì, vedo che ha per ‘veicolo’ o ‘simbolo’ un pavone, è il suo segno... Allora siamo proprio dinanzi ad Amitabha, ‘Luce senza Limiti’...”
Kumar Singh tolse lo stendardo dal trespolo e lo sostituì con un altro. La pittura non rappresentava più un Budda sereno, assorto in profonda meditazione, tale da ispirare pensieri di pace e di benevolenza, bensì un nume inferocito, sanguinario, forse crudele, con sei braccia, di colore azzurro cupo, incoronato da un diadema di crani, contornato da un’aureola smisurata di fiamme dipinte con la precisione del miniaturista. Come uno schermitore, poggiava sulla gamba destra in una posa oltremodo dinamica e aggressiva; intorno alla vita teneva una ghirlanda di piccole teste recise; le spalle erano ammantate da una pelle di leone ancora fresca, rossa di sangue all’interno. Intorno alla figura maggiore stavano altre apparizioni mostruose a cavallo di belve o di yak inferociti. In alto si vedevano invece tre lama aureolati d’oro, assorti in profonda meditazione.
James interrogava Vieri per farsi in qualche modo un’idea di cosa potesse rappresentare il tutto nella mentalità tibetana... Ci deve pure essere un senso! Non è un furore approssimativo, grossolano, gettato là sulla tela a caso, c’è una precisione da ossessi, da scienziati della demonologia. Vieri intuiva che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata presa per oro colato, ma da persona onestissima qual era preferiva confessare le sue perplessità.
“Riesco solo ad affermare,” disse quasi arrossendo, “che, nella stragrande maggioranza dei casi, le immagini terrificanti non rappresentano diavoli o demoni, come potrebbe essere da noi (per esempio, nei mosaici del Battistero fiorentino), bensì forze del bene, della santità, che prendono aspetti paurosi, terrificanti, per atterrire e allontanare le forze del male...”
“È insomma il principio dei san Giorgio con il drago?” chiese Clé.
“Sì, ma solo come suggerimento... San Giorgio appare come un guerriero, ma salvo talvolta un cimiero fantasioso, è bello, giovane, affascinante. Gli spaventadraghi tibetani sono l’epitome dei mostruoso, dell’orrendo, del raccapricciante e del macabro... Come del resto si vede in questo stendardo, no?”
Intanto, silenziosamente perché scalza, era entrata nel salone da una porta laterale una giovane donna di allarmante bellezza, come se ne vedono talvolta nei grandi alberghi internazionali, non nelle ville toscane, per di più trasandate.
“Oh, scusate,” esclamò James, “vi presento la mia cara ospite Juana, che viene dal Brasile... E questi sono Vaiery, che conosci già, e il suo amico Kleh, ambedue appassionati d’arte tibetana... Il nostro Kumar Singh sta deliziandoli con alcune visioni degli stendardi acquistati in Svizzera. Tu ci sei abituata, vero? Li conosci benissimo...”
La giovane brasiliana, spropositatamente alta, avrebbe fatto colpo ovunque. Intanto si era seduta su una delle poltrone tirando su le gambe nude, ma tale era la mole delle sue carni di gigantessa che il povero mobile le conteneva appena.
“A certe visioni non ci si abitua mai!” esclamò Juana in un italiano esotico, ridendo. “Ogni volta che vedo gli stendardi di James provo dei nuovi brividi... Però mi piacciono! Scuotono! Sono come la musica di Villa-Lobos... Che ne dici caro, vero che sarebbero piaciuti a Villa-Lobos?”
Clé era rimasto un po’ sorpreso, e negativamente, dall’arrivo di Juana, un personaggio che sottolineava con la sua presenza e il suo aspetto il lato mondano, frivolo, d’ostentazioni volgarotte, tipico di James e di quanto lo circondava. D’altra parte non riusciva a sopprimere un vivace interesse, una curiosità addirittura erotica per la gigantessa brasiliana.
I capelli d’un biondo-rosso quasi irlandese, erano tirati al massimo del liscio sul capo e raccolti in una crocchietta minuscola dietro la nuca: il contrasto con la pelle fortemente olivastra era drammatico, al di fuori d’ogni normalità. E Clé notò subito che le braccia, d’un bruno etiope, erano cosparse da miriadi di peluzzi biondi, particolare stranissimo, allarmante e attraente insieme... Clé si sorprese a immaginare le ultime intimità di Juana, un ventre vasto da regina bantù, allietato da cespugli d’oro! Fin lì non era dato ovviamente vedere; del resto anche le spalle e il torso erano pudicamente celati da una maglietta candida, tanto aderente però da lasciare indovinare un petto di gran lusso.
L’orgoglio della propria bellezza doveva concentrarsi per Juana nelle cosce gigantesche, continentali. Indossava infatti una gonna a strisce multicolori verticali, con un paio di spacchi assassini, i quali garantivano la visione dei suoi vasti tesori nascosti a ogni mossa irregolare. Ora, accucciata com’era sulla poltrona, un piede, una gamba, una coscia s’offrivano completamente nudi alla vista, fin quasi all’anca. Si ripeteva forse anche sugli arti inferiori il miracolo dei peluzzi d’oro sulla pelle di mogano?
Clé avrebbe voluto sbirciare, ma restò inchiodato dalle buone maniere al suo posto e nella sua posizione d’osservatore di stendardi.
“Kumar Singh,” chiamò James, “facci vedere la thanka rovente, the hot thanka...”
“You mean the beastly one, Sir?” corresse l’agile famulo di casa, esprimendo almeno a parole la sua disapprovazione per l’icona tanto spavalda e sconveniente. La thanka proibita venne issata con cura sul trespolo di legno. Era una pittura del tipo chiamato in tibetano yab-yum, cioè “padre-madre”.
Clé non aveva mai visto nulla di simile. Per un attimo restò addirittura sconvolto dall’apparizione. L’immagine colpiva inizialmente il livello arcaico del suo animo, quello del bambino di Ricòrboli di molti anni prima, integrato nel mondo contadino toscano, gratta gratta estremamente bigotto e tradizionale. Solo dopo essersi stropicciato più volte gli occhi, l’immagine riuscì a inserirsi nei piani ecumenici e universalmente comprensivi dei livelli più recenti del suo animo. Ma cosa rappresentava in sostanza l’incriminato stendardo?
Circondati dalla solita aureola di fiamme e ricciolini cremisi, dipinti uno per uno con attenzione di miniaturista, al centro campeggiavano due numi stupendi, ignudi, il maschio d’un azzurro pastoso, la femmina d’un rosso fiamma, perdutamente abbracciati in una danza-coito, quasi stessero eseguendo un’elegante figura di tango mistico.
L’apparenza del maschio dava sul fantastico, sull’ultraterrestre, per la presenza d’una diecina di braccia che sorgevano dal suo bel torso stretto di vita e largo di spalle; in ciascuna mano teneva un oggetto, evidentemente simbolico: un cranio, un coltellaccio, lo scettro sacro, un tamburo, un laccio, dei fiori e altro.
Ma il vero elemento erotico dell’insieme era dato dall’abbandono amoroso della femmina, nuda e ingioiellata, nel suo estremo, quasi teatrale orgasmo a ridosso del compagno. Con le cosce aggambava la vita del suo dio amoroso, mettendo in mostra, o proponendo alla meditazione, un culo di sublimi lussuria e bellezza. Che il maschio la possedesse in pieno lo si capiva dalla presenza, puntualmente registrata, dei testicoli dominicali pendenti al punto giusto, unica porzione del sesso divino non coinvolta nell’orgiastico rito.
“Well, well” esclamò James, “che ardire quei maestri tibetani. Evidentemente siamo di fronte a una grande opera d’arte, sia sul piano realistico, immediato, sia su quello simbolico... Ah, mio caro Vaiery, non ci tradire, come si legge l’ideogramma?” Clé osservò Vieri, i suoi occhi vivi, buoni, nuotavano nella disperazione, e la sua fronte era tutta rughe.
“Forse, non so, vediamo se ricordo una conferenza udita a Friburgo proprio su questo tema... Lasciatemi pensare... Il maschio dovrebbe rappresentare la karuna, la compassione attiva, la femmina invece la prajna, il sapere mistico, supremo... L’accoppiamento suggerisce all’istinto quanto profondamente, quasi fisicamente, le due entità debbono unirsi sul piano della perfezione spirituale...”
“Ah, ah,” esclamò James molto soddisfatto, “bravo Vaiery, sei un asso, un great scholar...” Poi, con pessimo gusto, si rivolse a Juana: “Che ne diresti, cara, di fare all’amore come quei due splendidi dèi?”
“Most uncomfortable: not for me!” fu la risposta lapidaria della bronzea gigantessa.
* * *
“Scusami sai, Clé,” esclamò Vieri al ritorno verso casa, dopo la visita a Wuthering Heights. “Quel James Cavendish ha delle cose rare e interessanti, però, ne convengo, è troppo mondano, esibizionista, volgarotto... E per di più ostenta il suo Kumar Singh, o quella Juana, come fosse un piccolo maharaja nel suo castello! Spero che non ti sia disgustato, eh, dovevo forse avvertirti...”
“Ma via, Vieri, non ti angustiare!” rispose ridendo Clé. “È stata un’esperienza gustosa, interessante e anche divertente, con le sue scene accessorie che sfumavano nel grottesco... Ma dimmi, cosa pensano dell’insieme i contadini del vicinato, scommetto che tu ne sei al corrente...”
“Ah, ah,” commentò Vieri, “la chiamano ‘la villona delle orge...’ Chissà, qualcosa magari c’è... Ma ora, appena possibile, vorrei farti conoscere un altro personaggio fiesolano, il barone olandese Willem Derksen. Tutt’altra personalità te l’assicuro! Più anziano, avrà settant’anni, penso, una splendida figura di vero mistico... Alto, i capelli candidi e finissimi, estremamente colto, parla italiano molto bene!
“È stato per non so quanti anni in Indonesia. Ricorda, è colonia olandese... E là s’è fatto una cultura buddista, nonché una collezione di opere d’arte da mettere invidia a chiunque... Vive poco lontano, vicino a San Domenico, sulla via Vecchia Fiesolana, in una villa lunga e bassa, quasi sepolta da un parco-boscaglia che mi sembra ami lasciare allo stato selvaggio. Naturalmente l’ho conosciuto in Comune, poi abbiamo simpatizzato parlando di Barabodur, e m’ha invitato a casa sua... Vogliamo chiedere anche a lui se ci mostra la sua collezione? Sono sicuro che dirà di sì. Ho sentito che è vedovo e che vive, o viveva, con una figlia, la quale ha però recentemente sposato un artista italiano, e s’è quindi trasferita altrove.”
Poche settimane più tardi Clé, Vieri e Malachite (felice di unirsi al gruppo) suonavano il campanello della villa “Il Riposo dei Vescovi”, lungo la ripida via Vecchia Fiesolana. Clé notò subito che il campanello non era elettrico, ma rispondeva a un filo a molla. Tiravi la maniglia e sentivi lontano un tintinnio argentino gradevolissimo. Ad aprire la porta venne una sorridente donna anziana, con un grembiule da cuoca.
“Oh, signor Vieri, che piacere!” esclamò la donna, con forte accento veneto. “Venga, venga con i suoi amici, il barone xe di là che vi spetta...”
I tre giovani seguirono una lunga veranda che dava sul giardino. A differenza della villona di James, smisurata e posata in modo pacchiano sul colle a dominio della campagna, qui tutto era piccolo, modesto, ombroso, e le varie parti dell’edificio si modellavano sulle curve e sul pendio del terreno con gusto raffinato. La veranda dava adito a una fila imprevista di sale, collegate l’una all’altra da porte amplissime, e aperte. Dappertutto opere d’arte orientale, come in un museo.
Il barone Derksen venne incontro agli ospiti sorridendo e dando loro il benvenuto in buonissimo italiano: li invitò poi a sedersi in un ospitale circoletto di sofà e poltrone, al centro del quale si trovava un basso tavolo di mogano, a ridosso di un’ampia finestra che portava in casa sole, fronde e fiori del giardino lì dinanzi.
“Che meraviglia di residenza!” esclamò Malachite, guardandosi in giro e prendendo posto su di una poltrona.
“Eh, ma signora, so che la sua famiglia dispone di una delle più belle ville di Sicilia, a Bagheria. Non è vero?” rispose il barone sedendosi anche lui. “Ci sono stato una volta qualche anno fa... Che luce in quel Barocco siciliano! Che sposalizio felice tra l’arte dell’uomo e la fantasia della natura! Grovigli di rocce rosse e gialle, con popoli di fichi d’india dappertutto, e in primavera gli asfodèli che coprono di scintille bianche le vecchie ossa dei monti, ricordando antiche parentele con la Grecia! Come si fa ad abbandonare un tale paradiso per una mera Firenze?”
“Ah, ah,” rise Malachite, “l’amore! Amor omnia vincit... Del resto Fiesole ha i suoi splendori inattesi, li stiamo scoprendo poco a poco...”
La conversazione si polarizzò presto sull’Indonesia, dove Derksen era vissuto per più di vent’anni, perdendosi però poco dopo in particolari turistici...
“Che cosa rappresenta quella stupenda statua, lì, a metà della parete?” chiese allora Malachite, con il suo fare (talvolta) d’eccessivo impeto e indipendenza.
“Ahimè, è solo una copia!” rispose il barone. “Ottima, ma una copia... Mi fa proprio piacere che l’abbia subito individuata e ammirata, cara signora, e le dirò anche perché... Ecco, siamo dinanzi a un ritratto, si dice, della regina Dedès, della dinastia Singhasari, che fiorì nella parte orientale di Giava nel Duecento. L’originale si trova nel reale museo etnologico di Leida... La regina Dedès era evidentemente giovane, formosa ed emanava un fascino speciale... l’artista le ha fatto un ritratto, ma ha anche voluto impersonare in lei la Prajnaparamita, una Sacra Scrittura di sapienza trascendentale del primo o secondo secolo dopo Cristo. Sono felice che le piaccia...
“Sa, sto lentamente preparando una breve storia illustrata dell’arte orientale, fondandomi su di un concetto molto poco scientifico... Come il nostro caro Vieri sa benissimo, nel Buddismo si parla spesso di upaya, un termine tecnico che significa in parole povere ‘utili mezzi’, diciamo tutto ciò che serve a persuadere la gente nei riguardi delle verità della fede.
“Ora la mia storia dell’arte orientale vuole muoversi francamente sull’orizzonte della upaya, vorrei cioè captare l’occhio, l’attenzione degli occidentali, il loro favore, illustrando e spiegando una serie limitata, ma sceltissima, di opere d’arte che possano (e qui sta il meretricio!) piacere agli occhi, venire accettate dal gusto degli occidentali. Vedo con soddisfazione che la mia regina Dedès fa centro, colpisce, invita...”
“Certo,” commentò Clé, “ha un fascino singolare... Aspettiamo a gloria il suo studio. Quando uscirà?”
Il barone disse che non lo sapeva, che si trattava di un lavoro molto lungo e impegnativo. E intanto aprì una cartella posata sul tavolo nella quale erano custodite delle grandi e splendide fotografie di opere d’arte orientali, scelte per il suo futuro volume.
“Ecco, secondo il mio modo personale di vedere, queste sono due sculture buddiste giapponesi di massimo fascino... La prima, in legno brunitissimo, quasi nero, si trova a Nara, è del settimo secolo, ma non si è sicuri se rappresenta il Bodhisattva Kanon, Avalokitesvara in sanscrito, oppure Maitreya, il Budda del futuro, colui che attende nel suo paradiso l’inizio del quinto kalpa, la quinta età del mondo, per incarnarsi tra gli esseri umani...”
“Oh, ma è favolosa!” esclamò con slancio Malachite. “Capisco quello che lei vuol dire... Vedo dove mira! Lei vuol sedurre l’Occidente, abituato a Prassitele, Donatello, Michelangelo, Cellini, offrendogli visioni che siano all’altezza dei modelli ammirati fin dall’infanzia, aggiungendovi soltanto un’aureola sottile d’esotismo, che non diminuisca l’effetto totale, ma lo esalti... Vero?”
“Esattamente, signora,” riprese il barone. “Vede, io odio quelli che in Oriente vengono chiamati curios, cioè statue, quadri, rotoli dipinti, stendardi, maschere, lacche, stoffe che puzzano d’esotico lontano un miglio... Si stabiliscono, cioè, due categorie mentali: una dell’arte vera e propria, che corrisponde poi con i lavori dell’Occidente, l’altra invece che forma la classe divertente, un po’ scandalosa, un poco allarmante dei curios. Io vorrei far capire al pubblico che, nella grande arte, esiste una sola categoria universale, con degli esempi di primo piano, ora occidentali, ora orientali... Ma rompere con i pregiudizi secolari è difficilissimo. Non m’illudo troppo di riuscirci!”
“Lei ha in mente una sorta di museo immaginario in cui possa essere raccolta e disposta per la gioia del pubblico la crema del pianeta, vero?” suggerì Clé un po’ scherzando, ma con un fondo di sincerità assoluta.
“Eh, sì, forse ha ragione...”
Intanto il barone andava rimescolando le sue fotografie, alla ricerca di una che voleva mostrare agli ospiti. “Ah, eccola!” esclamò. “Questa è un’altra statua che infilerei nella collezione... Siamo sempre in Giappone, arte buddista, è un’immagine di legno, quasi a grandezza naturale, attribuita allo scultore Joei II, pare datata nel 1224, e rappresenta il Bodhisattva Avalokitesvara (in giapponese Kanon) con il fiore di loto in mano, simbolo dell’immortalità... Kanon è un po’ la Madonna orientale, la personificazione della carità, dell’amore benefico per tutte le creature che soffrono, uomini e animali compresi... Vieri caro, tu che sei professionista in questi campi, correggimi se sbaglio...”
Il barone si alzò e condusse i suoi ospiti attraverso le tre o quattro salette che si succedevano l’una all’altra e che formavano come un piccolo museo d’arte orientale luminosamente sospeso sul pendio fiesolano cosparso d’ulivi.
“Ah, ah,” esclamò ridendo l’anziano signore, “voi direte subito: il signor Derksen predica molto bene, ma poi razzola molto male!
“Infatti quasi tutto ciò che vedete qui, salvo quella testa d’un Budda del Gandhara, rientra nella spregevole categoria dei curios... Cosette magari simpatiche e graziose, come quei personaggi di legno traforato e colorato che servivano per il teatro giavanese delle ombre, quelle teiere tibetane monumentali, quelle tazze coreane, quelle maschere balinesi, quelle tabacchiere cinesi, quelle else di spade giapponesi... I pezzi veramente favolosi, quelli che io chiamo ‘i miei ambasciatori’, sono pochissimi e ormai quasi tutti racchiusi nelle sale dei grandi musei occidentali, il Guimet a Parigi, il British a Londra, la Freer Gallery a Washington, il Metropolitan a New York e via dicendo... Qualche rara volta un pezzo di gran classe può capitare a un’asta... Ma allora ci vorrebbero sostanze di gran lunga superiori alle mie per l’acquisto. Fortuna che io punto su di un semplice libro, quindi in ultima analisi su delle fotografie... Eppure non avete un’idea di quante difficoltà ci siano anche in questo campo!”
Vieri s’era soffermato un momento dinanzi alla testa del Budda del Gandhara, quasi a grandezza naturale, in una pietra grigia bluastra bellissima, vagamente somigliante alla “pietra serena” di monte Cèceri, come dire Fiesole...
“Questo sì che è un ‘magnifico ambasciatore’ per il suo messaggio, come ha fatto a scovarlo? Chissà se ha voglia di raccontarcelo?”
“Già!” Il volto del vecchio s’illuminò improvvisamente. “Fu proprio nel Gandhara, oggi Pakistan, in quell’angolo del Nord-Ovest chiamato Swat, pensate un po’, durante un viaggio... Transitavo a cavallo, lassù non c’erano ancora né strade né veicoli al principio del secolo...
“Vidi dei contadini, con grandi turbanti bianchi e grandi barbe nere, che stavano trafficando con dei picconi intorno a un muro... Uno ci venne incontro, io e i miei portatori eravamo appena un minuscolo gruppo. Ebbi quasi paura. ‘Che ci vogliano attaccare?’
“Invece uno dei contadini aprì un involto che teneva ben nascosto sotto la sua ampia gabbana e mi mostrò questa testa del Budda, forse appena rinvenuta, chi lo sa? Avrei dovuto, credo, rifiutare l’incauto acquisto, no? Ma la tentazione fu troppo forte... Una manciata di rupie e la testa sparì nel sacco affidato a uno dei miei portatori. E ora eccola qui!
“Ogni volta che la guardo resto colpito da quella bellissima e misteriosa testimonianza di un momento magico della storia umana, quando i discendenti dei generali e dei soldati di Alessandro Magno, fermatisi ai piedi dell’Himalaya, in quello che è oggi il Pakistan settentrionale, fondarono uno Stato, diciamo coloniale, che durò più secoli, e si convertirono al Buddismo.
“I loro artisti avevano negli occhi la perfezione dei lineamenti d’Apollo, le toghe ellenistiche, e nel cuore il messaggio del Budda... Ecco uno dei risultati di questo stranissimo e quasi miracoloso incontro... Soltanto debbo dirvi che, per un vero esperto, la mia testa è bella, sì, ma solo a livello artigianale!
“Guardatela bene, manca di quella scossa spirituale che trasmettono altri reperti consimili del museo Guimet, o degli stessi musei di Peshawar o di New Delhi. Dunque purtroppo non la pubblicherò nel mio libro... Sarebbe un peccato di vanità che non potrei mai, in futuro, perdonarmi.”
* * *
Fiesole millenaria, Fiesole straordinaria, Fiesole leggendaria, i suoi arricchimenti non si limitavano a britanni bislacchi e stendardi tibetani allarmanti, né a saggi della terra di Spinoza, a ritratti amorosi di regine indonesiane trasformate in simboli di Sacre Scritture buddiste! Sembrava che in quei borghi assolati e ventosi, in quelle ville incantevoli e sibilline si celassero enciclopedie intere d’esistenze e d’esperienze umane, per Clé inedite o ancora da viversi.