2. Spazi infiniti, colori folli, musica di silenzi e vento
Un paio di giorni più tardi la carovana raggiungeva il passo Natu (4328 metri). Imponenti mucchi di pietre d’ogni grandezza immaginabile segnavano il culmine del varco. Tra i sassi stavano infilati dei rami secchi, delle frasche, dei bastoncini decorati da centinaia di bandierine colorate che portavano impresse a xilografia lunghe preghiere e benedizioni varie. Arrivandovi vicini i mulattieri, il cuoco Norbhu, il monaco Sönam, e anche il professore (ma non Khalil), raccolsero da terra delle pietre e le gettarono sui mucchi gridando: “So yala sò!”
“Ora siamo davvero in Tibet!” esclamò Tucci stropicciandosi energicamente le mani, con un gesto tipico di quando era felice e voleva comunicare a tutti il suo stato d’animo. “Secondo la fede,” continuò, “le bandierine spandono benedizioni su tutta la zona circostante... E proteggono dal male, dalle cattiverie dei rii-gompò, dei diavoli delle montagne. Hai contribuito anche tu con la tua pietra?”
Clé non l’aveva fatto. Allora raccolse subito una grossa lastra sbilenca lì vicino scaricandola sul mucchio meno lontano, e gridando il suo: “So yala sò!” I mulattieri sorrisero e dettero segni d’approvazione. Clé si sentì davvero, e finalmente, “battezzato tibetano”.
La carovana discese lungo il ripido versante Est del passo, su terreni nudi e sassosi. Ma ben presto la mulattiera si rituffò nei boschi fitti e ombrosi. Questa volta la vegetazione era più familiare, meno esotica ed eccessiva che nelle vicinanze di Gangtok. Erano boschi asciutti e segaligni che ricordavano quelli delle Alpi o dell’Appennino; si notavano abeti, larici, betulle. Dopo una sosta per la notte nell’ottimo rifugio di Chubitang, la carovana riprese la discesa verso il fondovalle. Sembrava un tuffo senza fine, duemila metri di dislivello in poche ore.
Ormai la carovana era giunta al punto di quota più basso, sui duemilacinquecento metri; ora non restava che risalire lentamente l’ampia Valle di Chumbi, o del Trommò (del grano saraceno), traversando vari paesi, di cui Yatung (oggi Yadong) era il più vistoso. Fu qui che il gruppo prese in carico un nuovo membro, un giovanotto di nome Thondup, che parlava solo tibetano, e che venne addetto a portare l’equipaggiamento fotografico di Clé.
I paesaggi erano splendidi, schiettamente alpestri. Torrenti fragorosi precipitavano a valle con le loro acque cristalline, tra dossi imponenti, talvolta rocciosi, ricoperti di conifere varie e, in alto, di rododendri. Per il momento non si vedevano più cime rivestite di ghiacci e di nevi: da qualche parte sicuramente c’erano, ma restavano occultate dai contrafforti di base del sistema montuoso.
Lungo la carovaniera si trovavano anche due monasteri famosi, quello Kaju, della setta Kagyur-pa, e quello Dung-kar della setta Gelug-pa. Furono visitati, molto brevemente, entrambi.
Francamente Clé restò impressionato, non dalla stranezza esotica dei luoghi, ma dalla loro familiarità! Forse sulla base delle sue letture, il ragazzo s’immaginava che i gompa fossero degli austeri conventi, un po’ misteriosi, sepolti nel silenzio e in mistiche penombre, dove dei pensosi cenobiti si dedicavano a cerimonie esotiche, dove si meditava sui segreti della vita e della morte. Invece i viaggiatori venivano accolti da gruppi oltremodo allegri e rumorosi di seminaristi, fanciulli o tinegisti, e poi condotti a esplorare cucinone fumose, degne del castello di Fratta, con smisurati pentoloni e gigantesche teiere. E c’erano anche fontane dove i ragazzi, pur nelle loro toghe color amaranto, si spruzzavano ilarmente a vicenda, ridendo come pazzi, se qualche schizzo sbarazzino finiva addosso ai chilimpa, ai forestieri.
Unico particolare allarmante e decisamente esotico era questo: che in entrambi i monasteri viveva un bambino benedetto, un tulku. Erano due fanciulli sui dieci-dodici anni nei cui corpi s’immaginava fosse andato a reincarnarsi lo spirito, la persona, d’un santissimo o dottissimo predecessore. Durante la loro minore età il convento era governato da un monaco adulto, o vecchio, il quale però doveva cedere il posto al tulku, appena questi avesse raggiunto i diciotto anni.
Ma le vere sorprese furono destate in Clé dalla scoperta di alcune tra le pitture e le sculture di quei santi luoghi. Meno male che il giovane aveva vissuto delle esperienze, diciamo, propedeutiche in materia! Gli tornò così alla mente la visita al villone fiesolano di James Cavendish, la visione degli stendardi tibetani da lui raccolti, e le spiegazioni di Vieri Mancinelli. Però un conto era stata quell’esposizione di oggetti d’arte, allora del tutto esotici, in un’aura (Clé lo ricordava bene) di calcolato scandalo e di stranezza esibita, più che altro per servire d’aureola all’impredicibile James e alla sua gigantessa brasiliana; e un conto fu ritrovare qui i medesimi temi mostruosi o erotici, quei faccioni orrendi coronati di crani, quei corpi decorati da collane di teste recise, sanguinanti, rivestiti da pelli di animali scuoiati, con serpi per cinture, figure demoniache le quali brandivano nelle molteplici mani tridenti, spade, lacci, frecce, scheletri, coltellacci ricurvi da macellai, che calpestavano corpi ignudi e osceni contorti negli spasimi, non capivi se d’orgasmi o di morte. Qui non esprimevano più un mondo esotico lontano, erano bensì parte vivente del panorama religioso vero, erano icone integranti d’un paesaggio umano quotidiano. Faceva un certo effetto vedere con un occhio tante orride stranezze, e contemporaneamente con l’altro individuare case coloniche, contadini al lavoro, campi d’orzo, ragazzi che pascolavano capre, bambini che giocavano a palla, e dirsi “loro ci credono, per loro sono i santini della domenica”.
Il professor Tucci, vedendo Clé un po’ incerto e come stordito, gli spiegò alcuni elementi iconografici che il ragazzo teoricamente già conosceva.
“Non sono diavoli! Non sono mostri! Non si pratica alcun satanismo da queste parti! Si tratta di oneste forze del bene che prendono simili aspetti per incutere terrore alle invisibili forze del male! È proprio l’opposto di quanto si potrebbe pensare a prima vista... E i lascivi accoppiamenti? Ah, lì devi superare del tutto le apparenze, caro mio! Il maschio rappresenta la karuna, la compassione, la femmina incarna la prajna, la suprema gnosi mistica... Come i corpi degli amanti si fondono in una sola realtà, così le due supreme virtù devono saldarsi in unico mistico complesso. Fermarsi al messaggio letterale è da profani ottenebrati, il mistico illuminato vede oltre, legge il messaggio simbolico e segreto!”
In quanto alla carovaniera, aveva ripreso a salire: e in maniera molto decisa. Alla vista si presentavano delle pettate che non sembravano aver mai fine.
Poi di colpo, oltre una svolta, la regia geografica del mondo subì un trapasso. La carovana sbucò su un altopiano sconfinato, assolutamente privo di alberi, per quanto ancora verde di erbe. Qua e là si notavano delle macchie scure: erano le tende, tessute con il pelo di yak, dei drokpa, dei pastori nomadi. E, vicini e lontani, numerosi yak pascolavano pacificamente. Dalle carte topografiche fu chiaro che si era arrivati ai quattromila metri di quota. Tucci era raggiante di gioia.
“Ehi Raimondi, che ne dici? Stiamo avvicinandoci al vero, autentico Tibet!”
Dinanzi agli occhi dei viaggiatori andava profilandosi, non era chiaro se vicino o lontano, il centro abitato di Phari Dzong. Lo spazio lassù sembrava retto da una geometria diversa dal solito. Cammina, cammina, le case di Phari non sembravano mai avvicinarsi più di tanto. Era un po’ la geometria del mare. E il mare era d’erba. Le barche potevano dirsi le tende dei nomadi, protette dai loro ferocissimi cani, i quali, anche da lontano e anche incatenati, abbaiavano con violenza inaudita.
Intanto all’altro estremo dell’immensa pianura andava gradualmente ingrandendosi la mole altissima e glaciale del monte Chomolhari, con i suoi 7314 metri di quota. La stupenda montagna segnava il confine tra Tibet e Bhutan. Clé venne a sapere che “Chomolhari” significava “la montagna della Dea”; e che probabilmente si riferiva a Paldenlhamo, generalmente rappresentata in aspetto terrificante, unica divinità femminile tra gli Otto Grandi Protettori della Fede...
Con il tardo pomeriggio le case di Phari apparvero finalmente davvero vicine, e poco dopo vennero raggiunte. La tappa era stata più lunga del solito e tutti erano contenti d’essere arrivati alla meta. Anche l’altezza cominciava a farsi sentire un tantino, con un vago mal di testa e un calo dell’appetito.
A Phari la carovana si prese un giorno di vacanza. A parte il meritato riposo, c’era il fatto che i carichi andavano riorganizzati, dovendo adesso passare dalle groppe dei muli a quelli degli yak. Mentre i muli (o i piccoli cavalli tibetani) procedono ordinatamente in fila, gli yak sono capricciosi e amano avanzare per lo più in gruppi; allora i carichi, se sporgono troppo, sbattono gli uni contro gli altri rischiando addirittura di sfasciarsi. Bisogna dunque sistemare le cose in modo speciale, cercando di poggiare i carichi al centro delle groppe. A parte questi particolari, era anche bene inserire un giorno di sosta nel calendario per acclimatarsi meglio alla quota di quattromila metri, che sarebbe stata la norma per alcuni mesi.
La mattina seguente, quando Clé, prestissimo, si svegliò e mise il muso fuori della casa dove lui, il professore e lo stato maggiore della spedizione avevano trovato ottimo alloggio, faceva un freddo veramente invernale. Il cielo era sereno, ma vitreo. La massa ciclopica del Chomolhari si ergeva contro il chiarore verdeviola di levante; la gelida magnificenza dei suoi ghiacci lividi penetrava fin nel midollo dell’animo, come una spada. Poco sopra la vetta brillava ancora una piccola stella, era l’unica nota di colore in quello spettacolo di spazi, di gelo, di purezza.
Più tardi, levatosi il sole, apparve in controluce la mole imponente dello dzong, il forte locale di pietra bigia; monumento architettonico a suo modo bellissimo, perfettamente intonato all’ambiente, una sorta di castello nato dai monti, generato dai monti per filiazione geologica. Le muraglie, leggermente pendenti verso l’interno dell’edificio, facevano pensare a un barbaro ben piantato in terra con le gambe divaricate. Il portico e le mostre delle finestre erano parimenti, secondo l’uso tibetano, più larghi in basso e rastremati verso l’alto, per di più erano dipinti a vivi colori, amaranto, arancione, rossiccio: il tutto era coronato da un padiglioncino d’oro che sfavillava nel sole. Oggi del forte resta solo la memoria; i cinesi non potevano davvero tollerare questo segno così visibile di forza e d’indipendenza dei tibetani. Anche il nome del paese è cambiato; non è più Phari Dzong (il Forte di Phari), ma semplicemente Pari.
Clé approfittò della sosta per fare un giro a Phari, per addentrarsi nelle stradine del paese. Ora che il sole mattutino illuminava il borgo, era facile rendersi conto come fosse uno dei luoghi più sozzi della terra. Le case, bassissime, avevano le fondamenta di pietra sistemate a secco, ma dal metro in su i muri erano formati da blocchi più o meno regolari di torba locale. Gli interni, più che stanze, potevano dirsi degli antri. Naturalmente non esistevano fogne, e le stradine erano percorse al centro da un canaletto che portava via i liquami domestici. Per fortuna faceva così freddo che i puzzi erano relativamente poco aggressivi. Il freddo forniva poi ottime scuse a giustificare la sporcizia mostruosa degli abitanti i quali, a detta di Paljor, di Norbhu, di Thondup, non si lavavano assolutamente mai.
I gabinetti pubblici erano uno spettacolo degno di nota. Qua e là si vedevano delle rozze impalcature di legno sulle quali, chi doveva sgravarsi, saliva e s’accucciava a culo spoglio, in piena vista dei quattro venti e degli eventuali passanti che, del resto, non sembravano farvi alcun caso. I lasciti s’accumulavano alla base del trespolo, ed essendo l’aria secca, gelida e sterile, finivano con il formare un gran cumulo bruno-rossiccio, che terminava in alto con il vezzo d’una punta, stereometria elegante della più recente cacata.
Sulle miserabili e luride case di Phari stavano piantati frasche e rami secchi, che sostenevano migliaia di bandierine multicolori con le solite preghiere e invocazioni. Molte erano preghiere vecchie e sbiadite che riguardavano fatti e fattacci ormai dimenticati, altre erano nuove, vive ancora di ansie e trepidazioni, per cose che potevano ancora cambiare, volgere al meglio. Il vento passava indifferente, sbatteva, sciupava, stracciava quei brandelli d’anima appesi sulle case, correva, correva verso misteriosi orizzonti affamati.
Qualche casa più solida delle altre, in vera muratura, era stata costruita di recente. Sul tetto piatto di un edificio non ancora finito, delle donne stavano battendo ritmicamente il fango-cemento (come usa da quelle parti) per indurirlo. La cadenza veniva data da un canto corale il cui ritornello, sempre lo stesso, era incantevole, tutto mezzi toni strani. Il vento lo portava ogni tanto vicino, poi cambiava e la musica quasi quasi spariva – per tornare infine di nuovo vicinissima e gagliarda. Clé, deliziato, ascoltava. Il canto gli dava una percezione fisica dell’infinito. Canto, carovane, deserti, cielo.
Clé del resto aveva notato, fin dall’ingresso nel Tibet, come la gente, a differenza di quanto avveniva in India, cantava spessissimo lavorando. Cantavano i boscaioli al taglio della legna, cantavano i contadini all’aratro, cantavano i carpentieri rifacendo un tetto – e ora cantavano le donne battendo per indurirla la creta che fa da cemento. Questi canti, che poi si perdevano nel vento e nei grandi spazi, davano un’impressione di felice serenità, di gioia diffusa, d’una spensieratezza di base, che predisponevano subito positivamente l’animo del viaggiatore in terra tibetana.
* * *
Il giorno dopo quello di riposo e di ricognizioni, la partenza fu all’alba. Con alcune ore di leggera salita venne raggiunto il passo Tang (il passo Piano, il passo Largo) con i suoi 4650 metri di quota.
“Eccoci nel vero, verissimo Tibet!” esclamò con gusto il professore, fermandosi al colmo del varco. Momentaneamente il colle era sepolto nella nebbia, ma un vigoroso tramontano ripulì ben presto il cielo. Clé si sentiva, confessiamolo, profondamente emozionato. “State attenti ai vostri sogni di gioventù,” pare abbia affermato una volta Goethe, “perché poi da adulti ve li troverete realizzati!” Clé ripensò allora alle parole del Gran Teutone, e si sentì felice della propria scelta. Sì, era stato un ottimo sogno!
Del resto la realtà batteva di molte lunghezze le immagini oniriche più ardite. Il primo movimento della gagliarda sinfonia Tibet erano state le impreviste meraviglie delle selve sikkimesi, con lo squarcio rivelatore di montagne mirabili tra una nuvola e l’altra. Adesso il secondo movimento stava prendendo l’avvio. Che splendore! Ma simili luoghi potevano davvero esistere sul nostro pianeta? E come dubitarne? Eccoli, o fatate presenze!
Sulla destra, il Chomolhari s’era fantasticamente ingigantito e trasformato. Appariva adesso come un Cervino di rupi spasmodicamente erette, e per di più rosse, violacee, color amaranto, rivestite di ghiacci verdeazzurri, e questi ammantati dello splendore di nevi della notte. Che montagna! L’immagine stessa dell’inaccessibilità assoluta! Il Chomolhari è stato scalato tre volte, ma sempre dal versante bhutanese più acclive e benigno: nessuno ha ancora ardito affrontarne i precipizi di ponente... La vetta principale è poi seguita, verso nord, da cime satelliti minori con poderosi scivoli di neve, che mettevano addosso a Clé le vertigini solo a guardarle. Piume sublimi di nubecole elegantissime coronavano, tremila metri più su, il capo del gigante.
Era insomma una bellezza forte, elementare, sublime. Due degli spettacoli più grandiosi della natura, ghiacciai e deserti, stavano qui a contatto. Infatti il Chomolhari e i suoi satelliti s’ergevano, come la mitica muraglia del regno di Gog e Magog, di cui si favoleggiava nel Medioevo, sui margini d’una sconfinata pianura di sabbie e pietrisco, con qualche raro e misero filo d’erba.
La carovana avanzava lungo il Tang Pun Sum (la Piana dei Tre Fratelli), uno spazio sterminato che s’indovinava contenuto sulla sinistra, come un mare sassoso, da lontanissime violacee montagne. Il sole urlava luce in un cielo di cobalto, tremendo e stupendo, risvegliando in ogni direzione colori folli: il rosso e l’arancione di certe rupi disperate, cotte dai geli e dai bollori, le tinte infinite dell’ocra e dell’arancione che sfumavano nei paonazzi delle grandi distanze. Si notavano perfino delle spennellate di verde virginale, dove i ghiacci si scioglievano sulla terra, nutrendo qualche fascia caduca di erbe. E su tutto passava il respiro continentale d’un vento teso e perenne. Il silenzio assoluto era solo incrinato, a farci molta attenzione, dai canti d’invisibili allodole, che giocavano nei turbini d’aria, chissà dove.
Di tanto in tanto le tracce della carovaniera, qui pressoché invisibili, erano segnate dagli scheletri o dalle carcasse mummificate di qualche yak: la povera bestia non ce l’aveva fatta più; era caduta e i suoi resti segnavano il luogo d’uno spasimo finale.
Più o meno insieme alla carovana, ora sopravanzandola, ora restandole indietro, procedevano due sorridenti e festosi mercanti. Uno di loro portava vistosamente a tracolla un ombrello. Sissignori, un autentico ombrello londinese di seta nera, bene avvolto attorno alla propria asta con il manico ricurvo! A che poteva mai servire un simile oggetto cittadino, da gentleman in giro per lo Strand, nel bel mezzo della Piana dei Tre Fratelli? Clé trovava la cosa un giocondo mistero. O forse si trattava d’un oggetto di lusso da rivendere a ottimo prezzo ai signori di Lhasa?
Tappa della lunghissima ed entusiasmante giornata fu Tuna; sei o sette case lunghe e piatte all’orlo del cielo. I rumori dei muli e degli yak che battevano gli zoccoli contro le pietre, le voci degli uomini, tutto si perdeva senza echi nell’immensità degli spazi. Parlare sembrava quasi un sacrilegio in tanto paesaggio.
Il giorno dopo, procedendo verso Dochen, la carovana si trovò a costeggiare per miglia e miglia uno dei molti vasti laghi salati del Tibet, il Bham (o Rham)-tso: vero cielo liquido raccolto tra le pietre riarse del deserto. Stranamente il vento era cessato e le montagne ai confini con il Bhutan, che contenevano dal lato opposto le acque, vi si riflettevano con straordinaria limpidezza. Sembrava di camminare sull’orlo di un abisso di luce.
Dochen, luogo desolato e freddissimo anche in quelle giornate estive, portava alla mente di Clé alcune sue letture recenti sul Tibet. Fu infatti vicino a Dochen che, nel marzo del 1904, aveva avuto luogo la più sanguinosa, e decisiva, battaglia tra le forze anglo-indiane, guidate dal generale McDonald e dal colonnello Younghusband, e i tibetani. In quell’anno infatti, dopo ripetuti tentativi d’aprire delle relazioni diplomatiche e commerciali tra India britannica e Tibet, sepolto dal silenzio più assoluto del governo dell’allora XIII Dalai Lama, il viceré dell’India, Lord Curzon, aveva deciso di presentare le sue richieste direttamente con la forza a Lhasa.
La spedizione militare incontrò resistenze notevoli in vari punti della sua avanzata, per esempio a Gyangtsé, al passo Karo e altrove, ma lo scontro di Dochen fu quello decisivo. Poveri tibetani! Che potevano fare, armati d’archibugi settecenteschi, o addirittura di archi e di frecce, contro le disciplinate forze anglo-indiane, munite non solo di ottimi fucili, ma delle proto-mitragliatrici Maxim? Dochen fu una strage. I morti si contarono a parecchie centinaia. I sopravvissuti fuggirono come un gregge spaventato. La spedizione raggiunse Lhasa, trattò finalmente con i tibetani, e poche settimane dopo rientrò in India.
Dochen fu, in certo qual modo, il preannuncio di ben altro attacco, quello cinese del 1950-51. Ma i cinesi non rientrarono nelle loro legittime basi: restarono in Tibet da padroni imperialisti. E ci sono ancora adesso, mezzo secolo più tardi.