1. Si vedeva tanto mondo!

Clé stava sognando d’essere vicino a una cascata; anzi troppo vicino, l’acqua gli bagnava sgradevolmente una spalla.

Come spesso succede, svegliandosi, s’accorse che il mondo onirico era in stretta relazione con alcuni particolari del mondo reale: infatti un leggero strato di neve in polvere sottile, penetrato da una chiusura difettosa della finestra vicina al letto, gli si andava accumulando sul lembo della coperta e del lenzuolo che s’era tirato sopra una spalla. Clé si alzò, chiuse meglio la finestra, ripulì il lenzuolo ormai semplicemente bagnato, e andò di là per vedere se Malachite e Dafni dormivano bene. La stanza di Malachite era protetta molto meglio da una doppia finestra efficiente: per di più era situata a ridosso della pietchka, la stufa russa a carbone che si sviluppava in verticale al centro della casa dal pianterreno alla soffitta e al tetto, dal quale fuoriusciva con un tozzo comignolo. Malachite e la bimba dormivano tranquille, Clé pensò bene di non svegliarle, sapendo per esperienza che erano tutt’e due dormiglione di mattina. Chiuse delicatamente la porta e tornò nella sua stanza.

Guardò fuori. Nevicava a vento, con un turbinio muto e furibondo di candido pulviscolo. Gli alberi secolari nel parco dell’università dell’Hokkaido s’intravedevano appena ora sì ora no, a seconda di quanta farina nevosa riuscivano a sollevare le ondate successive della bufera. “Magari tra due ore viene fuori il sole” pensò Clé. Il tempo invernale dell’Hokkaido ormai lo conosceva; era un clima mutevole all’estremo, a seconda dei capricci che avevano le correnti d’aria gelida in arrivo dalla Siberia. E pensare che Sàpporo si trova alla latitudine di Perugia, di Siena! Ma Estremo Oriente e Mediterraneo non si possono paragonare in termini astratti, bisogna riflettere su quanto sia favorita l’Europa in genere dalla corrente del Golfo, poi l’Italia in particolare dallo sbarramento est-ovest delle Alpi, e sul fatto che viceversa l’Asia orientale è penalizzata dalla mancanza di barriere montuose che la proteggano dalla relativa vicinanza del polo settentrionale del freddo, nella zona siberiana di Verhojansk, a soli duemilatrecento chilometri dall’Hokkaido.

Questo “svantaggio” dell’Asia orientale in inverno era per Clé figura puramente retorica; in realtà il giovane Raimondi era incantato, estasiato dal clima subartico dell’isola in cui era venuto a vivere per almeno due anni. Per fortuna Malachite, anche lei, si stava adattando benissimo e Dafni sembrava del tutto felice di crescere in un mondo straordinariamente diverso da quello originario dei propri genitori. Ma com’era cominciata quest’avventura, questa fuga verso una delle autentiche periferie del pianeta? Esattamente quattro o cinque mesi prima, quando Clé ebbe in mano una lettera dell’ambasciata giapponese di Roma, in cui gli si comunicava che la sua domanda per l’assegnazione di una borsa di studio per giovani laureati italiani era stata accolta favorevolmente, e che si preparasse a partire da Firenze in modo da giungere a Tokyo con i primi di dicembre del 1938.

A quei tempi ci volevano dai trentaquattro ai quaranta giorni di navigazione per recarsi dall’Italia in Giappone. Certo erano ritmi del tutto diversi da oggi, però, bisogna dirlo, si vedeva tanto mondo, s’imparava vivendola tanta geografia!

In un mese si compiva un vero “corso d’Asiologia”. Dopo un ultimo saluto al Mediterraneo (Alessandria d’Egitto), si percorreva il canale di Suez, al quale seguivano il mar Rosso (Massaua) e la punta dell’Arabia (Aden). Traversato un bel tratto d’oceano Indiano, ecco Bombay (India), seguita da Colombo (Sri Lanka, allora Ceylon). Altra traversata dell’oceano Indiano, alla quale seguiva una breve visita a Singapore, poi avanti per Manila nelle Filippine, e via per Hong Kong. Ormai, con Shanghai ci si sentiva vicini alla meta. Pochi giorni dopo, finalmente, si raggiungeva Kobe o Yokohama, a seconda dei casi, ponendo piede sulle isole del Giappone.

Clé, insieme con sua madre, era sceso da Firenze a Brindisi in treno, pernottando nella città pugliese. Malachite con Dafni dovevano raggiungerli in giornata, percorrendo una linea ferroviaria pittoresca ma insolita: Palermo, Reggio Calabria, Crotone, Taranto e Brindisi. Per certi intoppi lungo la linea vi fu un cospicuo ritardo. Clé e la madre stavano ormai sulle spine, temendo di perdere il piroscafo, quando finalmente si vide comparire sulla linea di Taranto un minuscolo, patetico, ridicolo trenino costituito da un’unica locomotiva a vapore (con il suo pennacchio di fumo trascinatogli in avanti dal vento), e da un’unica carrozza vecchissima, traballante, pluriclasse: una scena grottesca e divertente, indimenticabile. Malachite e la bimba scesero seguite da un baulone mostruoso, principesco, con stemmi e corone, scovato in una delle cantine colme di cimeli della Villa Valginevra. Abbracci, baci, poi via immediatamente per il porto, giusto in tempo per afferrare il piroscafo (proveniente da Trieste) prima che si staccasse dal molo.

Il sole era ormai tramontato, sul mare soffiava un vento freddastro che trascinava lunghi stracci di nubi grigie contro pennellate rosa d’altissimi cirri. Dopo pochi minuti i passeggeri avevano abbandonato i ponti, i parenti a terra se n’erano tornati verso la città. La mammina di Clé, sempre più piccola, sempre più lontana, restava ferma al suo posto; ogni tanto tirava fuori un fazzoletto e alzava un braccio in segno di saluto, e Clé le rispondeva. I due si videro, si videro, fino a sparire del tutto in un nulla misterioso di mare, cielo, nubi e notte. Fu l’ultimo saluto. Non si sarebbero visti mai più.

Clé conosceva il percorso fino a Bombay, da lì in poi viaggiava sul nuovo. Malachite (ogni tanto le riprendevano gli entusiasmi da ex pittrice) era incantata dai colori. “Ma guarda quelle donne in sari!” esclamava. “Com’è possibile immaginare accostamenti simili, da noi ti prenderebbero a sassate! E invece qui tutto si scioglie in una sua straordinaria armonia...”

In ogni porto l’arrivo del piroscafo creava baraonda, pittoresco sconquasso, concerto di voci (venditori in barca, sui moli, sui ponti appena la nave s’era attraccata, grida d’archimandriti religiosi delle più varie osservanze, mendicanti d’ogni immaginabile storpiatura, bambini frenetici), mentre in alto uccellacci marini volavano in roteazioni perenni pronti a tuffarsi come saette in mare per riemergere con un pesce nel becco. Dafni compì due anni a Colombo e, saputa la cosa, il capocuoco (che era siciliano) le preparò una torta con due candeline rosse. Ma la bimba, più che dal dolce, pareva colpita dai ragazzini che si tuffavano come pesci, lungo i fianchi del piroscafo, a raccogliere quasi miracolosamente sott’acqua le monetine gettate dai passeggeri.

Malachite e Clé, nel lungo percorso, avevano fatto amicizia con parecchi compagni di viaggio. Particolarmente simpatiche erano la signora Eva Nirenstein, una vedova presumibilmente a metà dei suoi quarant’anni, e la figlia Mira non ancora ventenne. Come rivelava chiaramente il cognome, si trattava di due donne ebree in fuga dalla Germania e dalle vituperevoli leggi razziali di Hitler (che Mussolini, ormai suo succubo servo, stava vergognosamente imitando). Eva, per anni insegnante di violino ad Amburgo, era una straripante biondona d’emotività incendiaria; bastava un nonnulla nella conversazione e le venivano le lacrime agli occhi. Parlava con gran velocità un inglese fortemente teutonico, con improvvisi inciampi e sottolineature eccessive. “Ve had to leave a loooovely home in Hamburg, bought after yeeeeaaaars of hardest vork... Zey took everything from us, zose brutes...” Mira era tutto l’opposto della madre; un decennio più tardi, quando Clé vide per la prima volta una foto di Anna Frank, ebbe quasi un sussulto: “Ma sì, è proprio il ritratto di Mira!” Medesimo faccino innocente e patetico, medesima zazzerina nera, ovvia e trascurata. Chissà se in segreto nutriva gli stessi pensieri? Era difficile cavarle di bocca frasi che superassero le tre, quattro parole, anche perché si vergognava d’un inglese assai malsicuro. Clé parlava un po’ di tedesco, dunque aveva modo di scambiare qualche impressione, qualche pensiero con lei. Malachite però nutriva da sempre un’avversione viscerale per tutto ciò che fosse germanico, e non aveva alcuna intenzione, pareva, di voler cambiare. Eva si dilungava a raccontare agli amici italiani le vicende, per lo più tristi, sciagurate, dei numerosi altri ebrei che viaggiavano sul piroscafo; quasi tutti erano diretti, con documenti provvisori o falsi, a Shanghai, dove era ancora possibile (ma fino a quando?) immaginare di rifarsi una vita.

Tra Singapore e Manila il piroscafo incappò in uno degli ultimi tifoni della stagione e, a causa del mare rabbioso, quasi tutti i passeggeri sparirono dai ponti e dalle sale da pranzo. Malachite (che pareva essere di nuovo incinta) cercava sollievo dormendo in cabina. Il piroscafo, per seguire la propria rotta, era costretto a traversare in diagonale delle onde altissime e ripide; in altre parole, il beccheggio si combinava con il rollio dello scafo in un continuo infernale scuotimento. Clé, che di norma sopportava il mare tempestoso assai bene, si sentiva orrendamente male. Pallido, anzi bluastro in faccia, non gli restava che accompagnare Dafni in sala da pranzo per i pasti. I sobbalzi continui della nave non sembravano darle il minimo fastidio, anzi mangiava con più appetito del solito. Clé notò il fatto curioso che nella sua sala erano rimasti pochissimi adulti, ma che cinque o sei bambini erano gli unici occupanti di varie tavole normalmente affollate. Era un caso, o i bambini sono davvero pressoché insensibili al mal di mare?

Ogni tanto Clé si affacciava su uno dei ponti, nonostante gli spruzzi d’acqua salmastra schiaffatagli addosso dal vento furibondo. Lo spettacolo del mare scatenato lo affascinava in modo inspiegabile. E non si poteva certo dire fosse “bello”. Del sole nessuna traccia, nembi bassi e grigiastri traversavano veloci il cielo, il mare stesso non era azzurro, ma giallastro, quasi schifoso; eppure ogni altissima ripida onda, che spesso s’arricciava al culmine in fastigi di spuma, aveva una sua personalità, e l’insieme esprimeva una forza indomita della natura di fronte alla quale l’uomo diveniva un mero bacillo.

Il giorno dopo quasi improvvisamente il mare si calmò, e poco più tardi venne raggiunto il porto di Manila. Lì numerose persone salirono a bordo; tra gli altri una coppia di sposini, evidentemente di famiglia molto facoltosa, accompagnata da una coda di parenti che non finiva mai, nonché da un paio d’alti prelati cattolici. La nave doveva stare ferma tutto il giorno nel porto e gli sposini, con i loro accompagnatori, fecero colazione a bordo, occupando una buona metà della sala da pranzo di prima classe. Clé con Dafni sedeva poco lontano dalla comitiva festosa (Malachite aveva preferito restare ancora in cabina). Udiva i vicini parlare, scherzare, ogni tanto proporre dei brindisi in spagnolo, per quanto tutti avessero innegabilmente l’aspetto fisico dei filippini; di quando in quando infatti discorrevano in una lingua sconosciuta, probabilmente tagalog, oppure in quel pidgin english che fa da parlata franca in tutta l’Asia orientale.

La sposina, minuta, caruccia, dai capelli neri e lucidi raccolti in una crocchia sulla nuca, leggermente olivastra di colore, indossava una candida veste, tutta trine e pizzi, che portava subito alla mente la Spagna dell’Ottocento; lui magro, un tantino più alto, un tantino più scuro, aveva indosso una camicia bianca lussuosamente ricamata, che faceva quasi scomparire il normale completo nero di taglio cerimoniale. Ovviamente la pietà cattolica della comitiva era delle più fervide: i due monsignori sorridevano e benedicevano, al centro continuo dell’attenzione più accesa, più rispettosa, da parte di tutti.

Clé osservava la scena con il vivo interesse di un giovane etnologo. Allora non aveva ancora riflettuto appieno, né letto molto, sui problemi d’acculturazione; la frase che gli venne spontanea per caratterizzare il banchetto fu: “Guarda come sono profondamente occidentalizzati.” E aveva del tutto ragione: degli occidentali erano state adottate non solo lingua, vesti, usi, gusti, atteggiamenti, ma perfino quel nucleo ultimo e supremo d’ogni civiltà che è la sua religione. Molto più tardi Clé avrebbe imparato a tenere ben distinti i due concetti di “modernizzazione” e “occidentalizzazione”, e allora l’esempio dei filippini gli sarebbe spesso tornato a mente. Di fronte ai giapponesi, furiosamente modernizzati ma poco occidentalizzati, avrebbe spesso citato i filippini, profondamente occidentalizzati (almeno in alcuni territori del vasto arcipelago e in alcune classi), ma tutto sommato scarsamente modernizzati.

La breve sosta a Hong Kong (dove scesero gli sposi filippini) fece molta impressione, tanto a Clé quanto a Malachite. Prima di tutto la bellezza della rada, un braccio di mare, quasi un lago riflettente a ogni ora le luci e i colori del cielo, stretto tra Kowloon (i Nove Draghi) e le colline dell’isola di Victoria, con tutte le sue ville, la quale faceva subito pensare a una Fiesole affacciatasi sull’oceano Pacifico.

Poi, come non restar colpiti dalla potenza allora planetaria dell’impero britannico? Nei decenni tra le due guerre questo straordinario e raccogliticcio organismo, ricco di casi particolari e d’eccezioni curiose, aveva raggiunto il massimo storico della sua estensione. La vittoria del 1918 gli aveva portato in eredità, sotto diverse forme amministrative, i territori d’oltremare un tempo tedeschi e turchi. Clé si ricordava sempre degli atlanti inglesi su cui aveva studiato geografia da ragazzino, sui quali i domini dell’impero britannico erano segnati con un tipico color rosa: se uno ne esaminava con attenzione le tavole, trovava rosa dappertutto, in ogni continente, oltre al seminio di puntini rosa (isole e arcipelaghi) dispersi attraverso gli oceani. Ma una cosa erano la teoria, la lettura, la scuola, e una cosa ben diversa era il riscontro sul terreno. Dopo la partenza da Brindisi, a ponente era stata lasciata Malta, poi, tra Port Said e Suez ecco un’Inghilterra occulta nella vita stessa del canale. Con Aden tornavi sul rosa; e rosa acceso lo ritrovavi nell’impero indiano, a Bombay e Colombo. Rosa ancora a Singapore, e infine rosa vivissimo a Hong Kong (“la Rada de’ Profumi”, “il Porto Profumato”).

Un ultimo particolare del più curioso e conturbante interesse era questo: che già fin da Singapore, e qui a Hong Kong più che mai, stavi penetrando nel mondo degli ideogrammi. Gli occhi si erano abituati ai caratteri arabi, a quelli devanagari delle Indie, e se la nave avesse per ipotesi attraccato a Bangkok si sarebbero abituati ai pittoreschi segni riccioluti della scrittura thai, ma si trattava sempre di variazioni del principio fondamentale alfabetico o sillabico, insomma d’un meccanismo di scrittura che variava nelle sue forme da quello natio delle lettere romane, ma non nella sua sostanza. La presenza magica, sibillina, alchemica, bellissima degli ideogrammi ricordava invece che si stava davvero saltando oltre i valli del mondo indoeuropeo e penetrando nella porzione dell’orbe terracqueo definibile come in partibus infidelium.

Ormai era novembre avanzato, e per di più la nave procedeva verso nord. Una certa mattina, che ci voleva già un maglione, e magari un cappotto sulle spalle per stare sul ponte, dopo aver risalito per molte miglia un largo fiume grigio sempre più robustamente rinserrato tra case, capannoni, fabbriche, cantieri, villaggi di catapecchie, casermoni fitti di finestre, ciminiere, ponti, la nave andò rallentando la sua andatura, sino ad arrestarsi del tutto. “Siamo a Shanghai,” dicevano molti dei passeggeri. Ma si trattava solo d’un primo approccio, ci vollero ancora delle ore, con lente avanzate, con soste e riprese di movimento, per arrivare davvero in porto. Sul gran fiume grigio pesava un cielo grigio, e in varie tinte di grigio, più o meno cupo, sostanzioso o evanescente, si presentava la città cinese e internazionale. Non sembrava più d’essere in Asia orientale, veniva da pensare a un porto ferrigno dell’Europa nordica. Ma la confusione sulla banchina rinsaviva subito chi avesse voluto tentare paragoni troppo arditi. Centinaia, migliaia di cinesi, quasi tutti vestiti in stoffe dalle tinte che andavano dal celeste, al grigio ferro, al blu scuro, al cobalto, roteavano in un continuo moto, quasi una danza, offrendosi come portatori, facchini, interpreti, come chissà cosa; e molti tenevano nelle mani le stanghe dei loro risciò (carrozzelle per clienti, per i viaggiatori).

La signora Eva, con la figlia Mira, insieme a molti altri ebrei in condizioni simili alla sua, stavano preparandosi per scendere a terra. Com’era prevedibile la signora piangeva. “Ve really hope you vill have a good time in Japan... As for us, ve do not know vat vill happen... Ve can only hope, hope, hope...” Mira poverina aveva l’aria distrutta dal freddo, dalla paura, dall’angoscia. Qualcuno degli ebrei maschi più giovani, ancora in buona forma fisica, cercava di tener su il morale degli altri, degli anziani, delle donne, forse raccontando in yiddish delle barzellette, forse scoprendo anche in quella congiuntura da lacrime qualcosa di buffo.

Intanto erano usciti all’aperto, dai ventri oscuri della nave, molti altri ebrei, per lo più giovani uomini. Dovevano aver fatto il viaggio in condizioni dure e penose. Clé li vide per la prima volta e provò un’onda d’acuta vergogna al pensiero della sua comoda cabina, della spaziosa sala da pranzo dove aveva mangiato, delle passeggiate sui ponti, o delle gradevoli letture steso sopra una sedia a sdraio. Erano vestiti male, con capi spaiati d’un vestiario miserrimo, erano pallidi, magri, stavano scendendo intruppati verso chissà cosa, chissà dove. Parecchi di loro dovevano appartenere a gruppi di tradizionalisti estremi, avevano infatti alle tempie i tipici ricciolini, e sul cranio una coppolina rotonda, oppure un cappellone nero a larghe falde.

Commovente in modo particolare era la storia della signora Elena Blumenthal la quale, pur essendo (secondo la balorda definizione nazista) “di schietto sangue ariano” e trovandosi quindi libera da qualsiasi forma di persecuzione razziale da parte del governo tedesco, aveva preferito seguire per amore il marito nel suo difficile, pericoloso, malcerto destino, accompagnandolo nel suo esodo dalla Germania verso l’ipotetica salvezza cinese. La signora Eva presentò un giorno Clé e Malachite ai due Blumenthal, una coppia seria, quasi musona, di quarantenni per nulla cospicui, ma la conversazione restò sulle generali. In seguito non si presentarono altre occasioni per una conoscenza più ravvicinata. La scelta della signora Blumenthal era indubbiamente eroica e si avvertiva che tutti la ammiravano per la sua decisione. Per sua fortuna il marito era medico, apparteneva quindi a una categoria di professionisti che quasi sempre riesce a trovare qualche forma d’impiego, data l’utilità delle conoscenze specifiche.

Anche Clé con i suoi doveva lasciare la nave, la quale aveva raggiunto con Shanghai il termine del suo percorso di linea; la famigliola aspettava soltanto che la calca diminuisse e che fosse possibile muoversi liberamente. A ogni modo Clé sapeva che si sarebbe recato in taxi presso un grande albergo, con stanze già prenotate, dove sarebbe rimasto per una settimana, in attesa di prendere un altro piroscafo per il salto finale da Shanghai (Cina) a Kobe (Giappone). Ancora una volta il fatto di poter godere di tanti privilegi, sia rispetto agli ebrei fuggiaschi, sia rispetto alle turbe di cinesi che popolavano banchine e strade, lo riempì di tristezza, d’un senso doloroso di colpa.

D’altra parte tutti quei binari di vite varie parevano inesorabilmente tracciati. Che poteva mai fare un labile individuo il cui unico potere era quello di distribuire, quando capitava, qualche mancia in più o qualche elemosina? Il baulone prodigioso di Malachite, con stemmi e corone d’altri tempi, emerse finalmente dalla nave; ci vollero quattro o cinque cinesi per caricarlo sopra un taxi-furgoncino, che un ignoto volenteroso era riuscito a scovare. Meno male che l’albergo era vicino. In poco tempo Clé, con famiglia, si trovò sistemato benissimo: gli era stata perfino predisposta una tata cinese, anziana ma premurosa e con il volto atteggiato a un perenne sorriso. Dafni la prese subito a benvolere.

Shanghai, in quel periodo, si trovava forse in uno dei momenti più brutti della sua storia recente. Aerei giapponesi avevano bombardato la città poco tempo prima e le tracce del disastro erano ancora visibilissime. Ovunque andavi c’era qualcuno che ti offriva, per pochi soldi, delle buste di foto terribili, scattate appena dopo le incursioni aeree: morti sventrati, o tagliati di netto a metà. Uno sciagurato, che si doveva esser trovato vicinissimo al punto d’esplosione di una bomba, era stato scaraventato con tale violenza contro il selciato, che la testa gli s’era ridotta come quella di una sogliola o di una razza – le fattezze erano tutte al loro posto, ma lo spessore era ridotto quasi a zero. Con tutto ciò la città smisurata viveva, straviveva. Lussi sfrenati e sfacciati di ristoranti e negozi si alternavano a miserie e sudiciumi indescrivibili. Per di più faceva un freddo aggressivo, ciò che rendeva la sorte di tanti miserabili doppiamente dolorosa, a viversi, si capisce, e addirittura a vedersi.

Clé e Malachite avevano fatto amicizia, durante il viaggio, con un giovane italiano, Eugenio Foà, che lavorava già da due anni a Shanghai presso una ditta francese. Sul piroscafo lo avevano frequentato poco, perché lui aveva delle bozze d’un suo libro da correggere (un testo d’economia?), ma ora il lavoro pareva fosse terminato ed Eugenio, che si trovava a disporre d’alcune ore di tempo libero, venne diverse volte all’albergo a prelevare i nuovi amici, conducendoli in giro per la città che lui conosceva molto bene.

Una sera i tre, insieme a una giovane coppia americana, si riunirono presso un ristorante giapponese. A differenza dei ristoranti cinesi, i quali tutto sommato, salvo i cibi caratteristici presentati su numerose coppette e ciotoline, non differivano molto da quelli occidentali, qui si penetrava in un mondo del tutto nuovo. Innanzitutto all’ingresso bisognava togliersi le scarpe e infilare delle pantofoline leggere, poi si doveva salire una scaletta di legno lucidissimo, armoniosamente cigolante, che menava a un lungo corridoio, sempre di legno strenuamente lucidato, sul quale si aprivano delle salette, una per ogni avventore o gruppo d’avventori. Una cameriera in kimono, che aveva accolto la compagnia all’ingresso e l’aveva guidata al primo piano, s’inginocchiò e aprì la porta scorrevole di legno e carta indicando agli stranieri la loro stanza. Entrando era obbligatorio togliersi anche le pantofole, da lasciare nel corridoio; doverono avanzare scalzi (data la stagione, con calze ai piedi) sui tatami, le caratteristiche stuoie imbottite soffici e resistenti allo stesso tempo, e poi accoccolarsi a gambe incrociate sopra un cuscino quadrato di seta (lo zabuton) dinanzi a un tavolo bassissimo e pesante di legno laccato con gran cura.

“Soltanto entrare e prender posto qui è un rito!” esclamò Malachite. “È tutto come una grande alcova,” aggiunse osservando le pareti e il soffitto di legno, le porte e le finestre in reticolato di legni sottili e carta.

Eugenio spiegò che il recesso a un estremo della stanza, leggermente rialzato, incorniciato da tronchi d’albero al naturale come forma, ma laccati o lucidati in superficie con cura maniacale, era il tokonoma (l’angolo della bellezza), dove infatti si trovava uno stendardo dipinto con scena di fogliame rosso autunnale, un vaso di fiori disposti ad arte (ikebana), e un antico frammento di marmo cinese scolpito. In quella la porta scorrevole si aprì di nuovo, con un lieve struscio, e comparve la padrona, una piccola dama dall’aria gentile ma decisa, ovviamente prontissima a qualsiasi sorpresa, vestita in un kimono dai colori sobri. Salutò gli ospiti e prese gli ordini per il pasto. Dopo un breve dibattito, Eugenio, che conosceva meglio degli altri le varie possibilità, suggerì che venisse ordinato un sukiyaki, un guazzetto saporito di carne e verdura “molto accessibile ai gusti occidentali, ottima introduzione alla cucina giapponese...”.

Clé fin dall’ingresso al ristorante, che si chiamava Mikkazuki (la luna di tre giorni, la luna nuova), continuava a guardarsi intorno, esaminando con vorace curiosità cose, persone, costumi. Ogni particolare rivelava una civiltà raffinatissima, totalmente diversa dalle altre a lui note, ma d’un livello molto elevato. In un certo senso se ne sentì felice, andava dunque verso un mondo che valeva davvero la dedizione d’una vita di ricerche, di studi, di scoperte: d’altra parte come trovare degli accostamenti plausibili tra tanta luce ed eleganza di vita, dietro cui stavano concezioni profonde e memorabili, sensibilità squisite e delicatissime, e le brutalità inumane della guerra di cui, durante gli ultimi giorni, aveva potuto udire tante orride testimonianze?

L’argomento emerse due o tre volte durante la lunga serata intorno al pentolone del sukiyaki, accompagnato da bevute di sakè (birra di riso) caldo, servito in minuscole coppette di legno o di porcellana. Eugenio era del parere che, sì, i giapponesi si spingevano un po’ più in là del solito nella schizofrenia raffinatezza-barbarie, ma visti dal di fuori (questo punto era importante) tutti i popoli possono comportarsi da belve. Eugenio, trentenne circa, si presentava magro, piccolo, agile; era scuro di capelli, ma gliene restavano ben pochi a corona d’un cranio liscio e lucido, aveva un naso aquilino che avrebbe dominato il volto, se due occhi vivacissimi, penetranti, non avessero catturato tutte le attenzioni di chi lo guardava. Poteva dirsi pressoché trilingue (italiano, inglese, francese), in più conosceva benino il cinese, e riusciva a farsi capire anche in giapponese.

“Sai, vivendo a Shanghai, in questa piscina popolata di squali e di murene,” diceva, “non è possibile farsi un’idea troppo brillante dell’umanità. Anche i famosi italiani, che si credono immuni da tante pecche!” La censura del tempo, almeno in patria, teneva ben nascoste le notizie sgradevoli... “Vai a chiedere notizie su di essi in Etiopia, specie tra coloro che affrontarono le forze di Badoglio nello stadio finale della guerra, oppure a quelli che si trovavano ad Addis Abeba dopo che esplose la bomba mirata a Graziavi... Andatevene dunque tranquillamente in Giappone... Apparteniamo tutti a tribù consimili del genere umano. Sei credente? No... Peccato, perché la dottrina della caduta originale, per assurda che sia, dà un punto fermo a chi naviga in questi mari.”

Clé non aveva né le conoscenze, né l’esperienza, per farsi ancora qualche convinzione su questi aspetti particolari dei giapponesi. Affidarsi al mito per spiegare i fatti della storia umana ormai gli ripugnava, quindi presentiva che i problemi della schizofrenia raffinatezza-barbarie in Asia orientale lo avrebbero accompagnato a lungo.

Una settimana più tardi Clé, e i suoi, presero il piroscafo per la tappa finale del loro viaggio. Si trattava di una nave della P&O (Peninsular and Oriental), la linea britannica di bandiera. Simpatica accoglienza a bordo, ottimo trattamento, ma quante sottili differenze d’atmosfera in confronto alle navi del Lloyd Triestino! Se qualcuno avesse preso a parlare di navi cattoliche e navi protestanti, Clé lo avrebbe ascoltato con grande interesse. Navigando su scafi, per esempio del Lloyd Triestino, il viaggiatore, soprattutto in prima classe, si sentiva continuamente cullato dai più dolci e insinuanti inviti a peccare (vino, cibi squisiti, pranzi, riposi comodi, occhi socchiusi su legami amorosi...), tanto poi la confessione riporta tutto a zero, e rattoppa ogni strappo nei veli dell’anima. Sulla nave britannica regnava una luminosità senza misteri, ma fredda e perentoria. Chi voleva peccare, per esempio bevendo alcolici, era padronissimo di farlo, ma in un locale apposito (il bar) e a ore ben stabilite. E quanto al cibo, Clé continuava a ripetere ridendo a Malachite la frase ormai storica proferita illo tempore da zia Violet: “But, my dear boy, food must not taste good!” Perfino la piccola Dafni, con il suo appetito vorace e la sua vitalità, toccava di malavoglia quelle patate, quelle carote e quei fagiolini lessati a tal punto da ridursi a bioccoli sformati di materia vegetale, privi di qualsiasi colore, sapore e profumo. Anche i trifles (dolcetti) erano miserabili e insipidi.

La mattina dell’arrivo a Kobe tutto si svolse in modo inconsueto. Clé e i suoi avevano ormai toccato ben nove porti, quindi potevano dire d’avere accumulato una certa esperienza. I porti “normali”, da Port Said a Shanghai, si annunciavano con molto anticipo per mezzo di voci, suoni meccanici, rumori di motori, grida umane e d’uccellacci marini, fischi di vaporetti e rimorchiatori, con la presenza, talvolta importuna, di barchette a remi o con motorini fuoribordo che si accostavano alla nave, ancora in moto, per offrire rumorosamente in vendita borse di cuoio, oggetti di vero o finto avorio, collanine, coltellacci da vendette, borchie in similoro... A Kobe nulla di tutto questo. Clé si trovò sorpreso ancora in cabina, quando vide dall’oblò un paio di pantaloni da poliziotto passeggiare a un metro dal naso. “Ohé, stiamo già attraccando!” gridò a Malachite che si dava ancora da fare per vestire la bambina.

Clé salì subito su uno dei ponti per rendersi conto della situazione. Fu allora che restò colpito da una delle scene più singolari di tutto il viaggio e che gli doveva rimanere impressa negli occhi per lunghissimo tempo, se non per sempre. Sulla banchina, invece della solita folla, c’era pochissima gente mista a parecchi poliziotti. Ma, quadro davvero strabiliante, su di un piano parallelo alla banchina, e un poco più alto, sostavano in ordinatissime file trenta o quaranta, forse di più, corridori di risciò tutti giovani, aitanti, solidi, e tutti rivestiti in modo uguale da un’uniforme color blu scurissimo, tutti muniti di caschetto a visiera, e – incredibile culmine di perfezione – tutti con le mani ricoperte da guanti di filo bianco! Ma dov’era la baraonda frenetica, però colorita e gustosa, di tutti gli altri porti? Dov’erano i venditori rumorosi di camicette, sciarpe, tappetini, borse, frutta, conchiglie, collane vistose di materie false? Clé aveva voglia di esclamare: “Qui siamo non solo in un’isola, ma in un nuovo continente, e perché no, in un nuovo pianeta!”

Pochi giorni dopo, raggiunta Tokyo in treno, Clé e i suoi trovarono un’ottima sistemazione (per il vero piuttosto cara) all’Imperia! Hotel della capitale, allora ancora l’edificio originario dell’eminente architetto americano Frank Lloyd Wright. L’albergo, originalissimo, faceva pensare stranamente a un arcaico tempio mesoamericano, Chichen Itzà o Palenque, invitando l’immaginazione a percorrere misteriose compenetrazioni di epoche, spazi e culture. Trent’anni più tardi, nel 1967, in tempi di maggiore ricchezza e di minor gusto, il celeberrimo monumento, vera tappa dell’architettura ai primi del secolo, sarebbe stato smantellato e rimpiazzato da un gigantesco e anonimo scatolone d’acciaio, cemento e vetro.

L’interno, anche in quei tempi lontani, era un prezioso teatro di vita giapponese d’altissimo livello. Clé e Malachite sedevano per ore nell’atrio osservando – e imparando. Arrivavano gruppetti di imprenditori, importanti banchieri, ministri, tutti goffamente vestiti in abiti occidentali maltagliati, o di colonnelli e generali in uniformi volutamente sciatte, e avevano inizio i lenti balletti confuciani dei saluti, con inchini ripetuti e profondi, delle presentazioni che richiedevano altri e più accentuati salamelecchi, con scambi elaborati di biglietti da visita, tra aspirazioni rumorose di fiato, quelle che Pierre Loti chiamava des sifflements de vipère.

Comparivano spesso intere famiglie della massima distinzione, le madri quasi sempre in kimono dai colori sobri, le figlie in kimono dai colori brillanti, anziane e giovani tutte però nervosamente agitate in una danza di inchini e inchinetti continui, anche se variamente graduati, di fronte al regio maschio, al maschio sovrano. Solo i bambini al di sotto dei sei o sette anni si permettevano assoluta naturalezza scorrazzando di qua e di là con palloncini o bambole, gridando, ridendo senza imbarazzo.

Era facile, dallo spettacolo, dedurre i lineamenti di una società polarmente diversa dalla nostra. In quella struttura sociale non esistevano uguali, bensì soltanto inferiori o superiori; per di più era ferocemente maschilista e i militari la facevano da padroni. Ogni contatto veniva però sapientemente addolcito da un cerimoniale raffinatissimo, consacrato da secoli. A Clé venne subito in mente di definirlo “olio confuciano”, un lubrificante invisibile che rendeva scorrevoli i complicati ingranaggi delle relazioni interpersonali, che manteneva in moto armonioso l’immensa macchina nazionale. Riti e musica proclamavano gli antichi classici confuciani, riti e sifflements de vipère proclamavano nei loro balletti i distinti clienti del Teikoku Hoteru (dell’Imperiale Ostello).

Durante quei giorni Clé visse un’altra forte e significativa esperienza. Stava recandosi alla stazione per recuperare alcuni dei bagagli, quando, avvicinandosi all’edificio, si trovò stretto in una calca agitatissima di giovani, quasi tutti maschi, tra i quindici e i venticinque anni di età, moltissimi scamiciati nonostante il freddo invernale, parecchi con banderuole del Sol Levante in mano, con stendardi, o addirittura con grandi bandiere fissate a lunghe canne di bambù. Quasi tutti portavano un fazzoletto bianco (hachiniaki, “cingi-cranio”) stretto intorno alla testa, segno tradizionale che indica: “Siamo in azione, facciamo sul serio.”

Ma cosa stava succedendo? Un manipolo di cinque o sei ventenni era sul punto di partire per il servizio militare e parecchie centinaia di coetanei erano venuti a salutarli. L’agitazione era portentosa, scatenata, folle. La parola “invasamento” non sarebbe stata fuori posto. Si erano formati vari gruppi, ciascuno dei quali urlava a squarciagola inni militari, canti universitari, marce popolari per conto proprio; senza badare agli altri. Su tutti pareva predominare il Roei no Uta (il canto del bivacco), che Clé avrebbe imparato a conoscere molto bene in seguito. Ogni tanto, al segno di qualche maggiorente irriconoscibile da fuori, il bailamme cessava per alcuni attimi, e dalla folla prorompeva un tonante: “Tennō-Heika banzaaaai (Diecimila anni [di vita] all’Imperatore!)”, prolungatissimo, accompagnato dal sollevamento d’ambedue le braccia.

Clé avrebbe mentito dicendo di non avere provato paura.

Quei giapponesi che aveva osservato per tanti giorni in perenne e rigorosissimo dominio di loro stessi, qui erano in totale dominio di forze incontrollate, difficili a definirsi, ma orridamente possenti. Nei mesi antecedenti Clé aveva letto riviste americane, inglesi, francesi contenenti racconti dettagliati degli orrori seguiti alla presa di Nanchino; a suo tempo li aveva ritenuti scritti esagerati, di propaganda. Adesso di colpo capì che era il caso di ricredersi. Il sangue si sarebbe davvero raggelato nel trovarsi dinanzi a una turba come questa, in stato di frenetica esaltazione e per di più armata e nemica, come doveva essere stato a Nanchino.