2. La casa all’Undicesimo Viale
A metà dicembre venne finalmente il momento di partire per l’Hokkaido, l’isola più settentrionale dell’arcipelago, dove Clé s’apprestava a fare delle ricerche su di una piccola popolazione, quella degli Ainu (dai venti ai trentamila individui), interessantissima per i numerosi problemi antropologici e storici che poneva e che, del resto, pone ancora adesso.
Ormai sui registri dell’organizzazione parastatale giapponese che gli doveva passare l’assegno mensile della borsa, Clé figurava come minzoku-gakusha (etnologo), classificazione accademica che lo soddisfaceva in pieno. Dopotutto cos’è un etnologo? Uno che “loga” sugli “etni”, uno la cui “logia” si concentra sull’“etnia”, esattamente quello che si sentiva meglio portato a compiere, fin da bambino, con i suoi salti continui tra mondo contadino toscano e mondo inglese, con sconfinamenti allora superficiali, ma passibili d’illimitati sviluppi, tra cattolici e protestanti, per non menzionare altre svariate escursioni endocosmiche fatte apposta per spingere una persona verso questo vasto e affascinante mare di ricerche e di studi.
Sàpporo, la capitale dell’Hokkaido (isola grande tre volte la Sicilia), si trova ottocento chilometri a nord di Tokyo. Oggi tale distanza viene percorsa in sessantacinque minuti da numerosi comodi voli, in funzione a ogni ora del giorno e, parzialmente, della notte. Ma in quegli anni lontani d’anteguerra il viaggio richiedeva ben ventisei ore, parte in treno, sino ad Aomori (Bosco verde) sulla punta dell’isola principale dell’arcipelago, poi in piroscafo per traversare lo stretto di Tsugaru, infine di nuovo in treno da Hakodate (Forte-Scatola, il Forte a forma di scatola) fino a Sàpporo; intanto la distanza, dati i percorsi girovaghi della ferrovia per evitare vari ostacoli naturali, si allungava da ottocento a quasi milleduecento chilometri. Insomma era un po’ come viaggiare da Trapani a Trieste con uno stretto di Messina, largo dieci volte tanto, lungo il tragitto.
Clé e i suoi si recarono nel tardo pomeriggio di una giornata grigia e gelida alla stazione di Ueno, quella che smista il traffico da Tokyo per il Nord. Si vedeva pochissima gente in giro: chi mai avrebbe voluto recarsi al Nord in quella stagione tanto sfavorevole? Un caro amico italiano, il dottor Vanzetti, venne a salutare Clé e i suoi, accompagnandoli fino al vagone letto. Poi il convoglio si mosse, tra il fragore degli stantuffi di due locomotive a vapore.
Le carrozze-letto giapponesi del tempo erano costituite da un unico vano fiancheggiato da alte file di letti a castello su tre piani, che davano su di un corridoio nel centro. Una scarsissima intimità era garantita da una tendina verde che si faceva scorrere su tanti anellini d’ottone lungo un filo di metallo. Clé trovò qui un primo indizio di quello spiccato senso giapponese del gruppo, del loro gusto per la vita in comune (dantai konjō) di cui aveva spesso sentito parlare nelle conversazioni di amici esperti del Paese, e di cui aveva letto in vari libri.
Un premuroso ferroviere aveva distribuito del tè caldo poco dopo la partenza, e ne avrebbe distribuito ancora di lì a non molto, e all’alba. Clé notò che ogni viaggiatore aveva con sé un grosso thermos pieno di tè. I giapponesi raramente bevono acqua, specie in inverno, finendo con il trangugiare a varie riprese oltre un litro di tè al giorno, una bevanda leggerissima, a un primo assaggio insipida, una tisana di foglie non fermentate. Ve ne sono centinaia di varietà, dalle più comuni ed economiche (bancha), alle rare, pregiate e carissime (sencha e simili).
All’alba Clé tirò da parte, non la tendina verde interna (tutti dormivano ancora), ma un’altra cerata esterna; desiderava molto vedere qualcosa di quel famigerato Tohoku (il Nord-Est) di cui aveva sentito tante grame descrizioni. In Giappone il Sud è ubertoso, prospero e ricco, il Nord (salvo eccezioni) abbandonato dagli dèi, gelido, misero e arretrato.
Se Carlo Levi avesse scritto il suo famoso libro in Giappone, non l’avrebbe chiamato Cristo si è fermato a Eboli, ma forse Budda s’è arrestato a Sendai! Gli occhi di Clé spaziavano infatti su paesaggi che insinuavano brividi di repulsione lungo la schiena. C’era della neve sul terreno, ma non un bel manto pulito, bensì dei banchi, delle chiazze, dei canaloni di poltiglia biancastra, su cui per di più delle nubi grigie e basse riversavano di tanto in tanto della pioggia. Si vedevano alcune risaie, ma per gran parte il paesaggio era costituito da colline ricoperte da boscaglie di scarso pregio. Ogni tanto un paesino misero di casupole in legno, con i tetti di paglia poco curati. Di quando in quando una stazioncina, alcune con nomi misteriosi ed evocativi, per esempio Ishidoriya (la Valle dell’Uccello di Pietra, a cosa alludeva? Mah, mistero).
Ad Aomori si trasbordava dal treno alla nave traghetto per quattro ore di traversata. Come avviene sempre in casi di navigazione, fu d’uopo riempire dei moduli. Malachite e Clé restarono colpiti dal fatto che le domande riguardanti nomi, età, nazionalità e tutto il resto, erano scritte in giapponese (si capisce), in inglese (si capisce), ma anche in russo (in caratteri cirillici). Di colpo parve circolare per l’aria una misteriosa presenza siberiana. “Vedi, andiamo tra i tartari, te lo dicevo,” fece scherzando Clé; e in realtà quel minuscolo particolare dava una sensazione di allontanamento definitivo dal mondo noto e familiare, di tuffo in un gran Nord vagamente allarmante e insicuro (ricordare, allora l’Unione Sovietica era una potenza che risvegliava nella maggior parte delle persone o cieca adorazione, o timore).
Intanto guardando fuori, che mondo inospitale! Basse nuvole scure riversavano sul mare una nevicata fittissima; per uno strano effetto ottico, le onde sembravano verdi, ma in modo sfacciato, come un pascolo senza confini. Malachite e la bimba si riposavano in una comoda cabina all’occidentale; Clé andò in giro per la nave a curiosare. Scendendo di un ponte sotto quello delle prime due classi, trovò delle vastissime sale la cui plancia era ricoperta da stuoie tatami, come quelle viste nel ristorante di Shanghai. Al centro delle sale correva un passaggio più basso, dove si circolava con le scarpe, ma chi voleva accomodarsi sul piano dei tatami doveva togliersi le calzature, che comparivano infatti allineate con ordine lungo i bordi del passaggio stesso. Sulla “pianura dei tatami” numerose famiglie stavano comodamente riunite. Si vedevano uomini e donne (queste quasi tutte in kimono), decorosamente accucciati, che sorbivano del tè, o mangiavano con le bacchette, servendosi da un beato, una scatolina di legno contenente cibi vari, un “cestino da viaggio” ma molto più ordinato, compatto e razionale di quelli nostrani; altre persone sdraiate dormivano, o leggevano giornali, riviste, libri.
Alcuni bambini giocavano, scorrazzando rumorosamente di qua e di là. Ancora una volta Clé restò colpito dalla straordinaria facilità con cui nasceva una “comunità giapponese”. Tutti avevano imparato durante secoli di vita comunitaria, spesso addirittura comunista, a contenere entro limiti d’invisibile disciplina le posizioni del corpo, i gesti, la voce, le parole, perfino gli sguardi. Qualcosa di simile sarebbe stato possibile in Italia? Forse, ma Clé dubitava che la scena si sarebbe svolta con tanto ordine, in modo così fluido ed educato.
Allo sbarco nel porto di Hakodate il tempo s’era già rimesso, il mare era tornato ai consueti colori, azzurro o celeste, le montagne d’intorno apparivano ammantate da una candida coltre di neve. Faceva molto freddo. Il treno, appena partito, prese a salire verso l’altopiano di Onuma (la Grande Palude).
Le locomotive a vapore di quei giorni lontani erano certo molto meno efficienti dei loro successori moderni, ma quanto è andato perduto in bellezza! Specie in salita, e specie nei climi freddi, i locomotori dell’epoca manifestavano aspetti d’una titanica potenza, che era facilissimo leggere in termini di sforzi muscolari animali o umani. Dagli stantuffi, dalla ciminiera, da ogni parte dei loro corpacci di metallo nero, andavano sprigionandosi, tra sibili, soffi e urli, dei getti furibondi di vapore; il ritmo dell’intero motore somigliava in modo impressionante al fiato grosso d’un mostro che ce la sta mettendo tutta. Poi, all’ingresso delle gallerie, ecco gli urlacci disperati, penosamente interpretabili come segni di sofferenza e di fatica.
Oggi i locomotori sono certo molto più potenti, trainano treni più pesanti e più lunghi a velocità maggiori e su per salite una volta impossibili; mancano però lo spettacolo, il senso del dramma. Una volta scendendo alla stazione d’arrivo, un matto poteva anche provare improvviso l’impulso di abbracciare la locomotiva che lo aveva portato a destinazione, di gridargli un “brava!”, un “grazie!” commosso. Oggi tutto ciò farebbe semplicemente ridere.
Da Onuma il treno discese di nuovo verso il Pacifico e la baia del Vulcano, di cui si parla in tanti vecchi libri di viaggi. Oltrepassato Mori (Foresta) fu raggiunta la stazione di Oshamambe. Da qui in poi i nomi di luogo erano quasi tutti di origine ainu, trascritti dai giapponesi con ideogrammi usati per il loro valore fonetico, con risultati spesso grotteschi. Oshamambe, che in lingua ainu significa “il villaggio delle sogliole”, appare sulle carte e sull’orario ferroviario come “Lo Sceriffo di Diecimila Famiglie”!
Quell’anno la neve era particolarmente abbondante. Malachite e Clé ammiravano incantati le foreste caratteristiche dell’Hokkaido meridionale, miste di latifoglie e conifere; sui rami degli alberi la neve, umidissima per la vicinanza del mare, si raccoglieva in batuffoli prodigiosi, producendo di continuo capolavori della più sfrenata fantasia barocca. Un treno che procede in neve profonda, mette per così dire “le pantofole”; il convoglio avanzava in rispettoso silenzio di valle in valle, tuffandosi spesso in brevi gallerie. A Otaru (il Barilotto), trascrizione balorda d’un nome ainu di tutt’altro significato (La baia sabbiosa), fu visto di nuovo il mare; non l’oceano Pacifico, ma il mare siberiano, una distesa turbolenta color verde marcio, che s’avventava contro scogliere nere incrostate di ghiacci. Finalmente, a notte fonda, fu raggiunta la stazione di Sàpporo.
Un taxi traballante condusse Clé con i suoi, sempre con il baulone atavico e feudale al seguito, fino al Sàpporo Hotel, nuovo, comodissimo, caldo, accogliente (però maledettamente caro).
Quando Clé ripensava a quei primi giorni della nuova destinazione, gli veniva sempre da ripetere “che fortuna abbiamo avuto!” Soltanto a cose fatte si rese conto di quanto fosse stato imprudente ad avventurarsi in Hokkaido nel cuore d’un inverno particolarmente pesante e nevoso. Da solo sarebbe stato uno scherzo, ma con la moglie incinta e una bambina di due anni al seguito, le cose cambiavano in modo cospicuo. Clé si mise a cercare casa, ma s’accorse subito quanto fosse difficile trovare un luogo adatto, soprattutto per quanto riguardava il riscaldamento. Sembrava incredibile, eppure con un clima del tutto simile per geli a quello di Helsinki, il riscaldamento era ancora affidato a bracieri, o a stufe primordiali a carbone – tipici i cosiddetti rumpen-stobu, dei bussolotti di metallo che bruciavano carbone, dall’alto verso il basso, con molto puzzo e scarso risultato calorico.
* * *
Per fortuna arrivarono i Lane! Un’impiegata del Sàpporo Hotel, che parlava un ottimo inglese e si occupava degli ospiti stranieri, li conosceva. “Qui ci vogliono i Lane!” esclamò, appena si rese conto dei veri problemi. “Loro ve li risolveranno! Sono bravissimi, nulla li spaventa... Poi conoscono tutti!”
Puntualissimi Harold e Pauline Lane si presentarono all’albergo. Ambedue sulla quarantina, americani di nazionalità e di cultura, erano di quelle rare persone che ispirano immediata simpatia e fiducia.
Fisicamente lei era una prospera biondona, sorridente, positiva, pragmatica. Era nata in Giappone da genitori missionari protestanti e parlava un giapponese, forse non molto dotto, ma fluido e casereccio, ricco di riferimenti a parole dialettali, a proverbi, che piaceva moltissimo agli ascoltatori locali. Lui era un uomo alto e ben fatto, con i tratti regolari e la capigliatura assai corta, brizzolata: un sorriso fin troppo facile, quasi imbonitore, tradiva un certo imbarazzo nei rapporti con la gente, un segreto desiderio di ripararsi in un proprio giardino interiore. In questo caso non c’era dubbio: pilota della nave era Pauline. Ambedue insegnavano da anni lingua inglese in varie scuole, in particolare nel liceo che preparava gli studenti all’ingresso nella locale, e assai famosa, Imperiale Università dell’Hokkaido (Teikoku Hokkaido Daigaku).
“Vediamo un po’,” fece Pauline, afferrando i braccioli della poltrona su cui stava seduta come un ammiraglio che sta meditando un piano di battaglia. “S’è liberata da pochissimo tempo una delle quattro Daigaku-kansha (residenze ufficiali dell’università), quella sarebbe proprio ideale per voi! Siete borsisti del governo, vero? Non ci dovrebbero assolutamente essere delle difficoltà. Ma bisogna far presto, ho sentito qualche cosa per aria... Un professore tedesco... Che ne so... Bisogna andare subito da chi dico io.” Pauline si alzò, sorbendo in piedi l’ultimo sorso della tazza di tè occidentale che Clé aveva offerto alla coppia e sgranellando, sempre in piedi, l’ultimo dei biscotti che si trovavano sul piatto postole dinanzi. “Allora, Harold, vieni! Non bisogna assolutamente perdere tempo... Vi telefonerò al più presto. State in albergo. Arrivederci, arrivederci...”
Qualche ora più tardi Clé venne chiamato al telefono. Era Pauline la quale, senza tanti giri di parole, ma con fare veramente mogio, annunciava che la Daigaku-kansha purtroppo non era disponibile... Ma proponeva un’altra soluzione. “Si tratta della bella casa d’una vedova di nostra conoscenza. Sua figlia è in Francia, con una borsa di studio di due anni... Ha dunque diverse stanze libere. Dice che le affitterebbe volentieri. L’unico drawback, l’unico “tira-indietro” è il fatto che la casa è situata lontanino, ai piedi del monte Maruyama, a sud di Sàpporo, dunque ci vorrà una mezz’ora per venire all’università...” Pauline, Clé e Malachite si accordarono per recarsi l’indomani a Maruyama a vedere la casa.
Il mattino dopo, non erano ancora le otto, nuovo colpo di telefono: ancora Pauline, ma per dire che la sera prima, tramite una visita a un professore dell’università, una sua vecchissima e benevola conoscenza, era riuscita a far cambiare il primo verdetto dell’amministrazione... “Dunque la kansha è libera, è per voi... Hurrah!”
Un’ora più tardi Pauline, Harold, Malachite, Clé e la bambina, tutti stretti in un taxi, puntarono verso la parte nord della città, dove, allineate lungo un lato del parco universitario, stavano le quattro “residenze ufficiali”. La casa era proprio la prima della serie e dava da un lato sul lungo e largo “Undicesimo Viale”. Sàpporo, sorta dal nulla intorno al 1870, era stata costruita (come Kyoto nel 794) razionalmente a scacchiera: dal centro originario partivano tanti “viali” nord-sud, incrociati da molte “strade” est-ovest...
Malachite e Clé, guidati dalla coppia di nuovi amici e da un addetto dell’università, visitarono la casa e ne restarono subito entusiasti. Si trattava di un edificio a due piani, totalmente di legno, con cinque o sei stanze, più tutti i servizi, cucina, bagno alla giapponese, stanza per una donna di servizio, ripostiglio e via dicendo. All’insieme, d’aspetto vagamente americano o canadese, s’aggiungeva un prezioso particolare russo; la potente stufa a carbone, detta pietchka, che costituiva il cuore della casa.
Detto fatto, firmati alcuni fogli, pagato un certo deposito, Clé se ne tornò all’albergo a raccogliere i bagagli per l’immediato trasferimento. Il baulone di Malachite, con i segni di tutta la sua nobiltà siciliana, stemmi, corone, iniziali intrecciate, trovò un finale riposo tra le nevi dell’Undicesimo Viale di Sàpporo; riposo che si poté dire eterno perché, ormai sfibrato da tante avventure transcontinentali – lui che era fatto per le trasferte in carrozza Palermo-Bagheria, o al massimo in treno Palermo-Parigi –, finì per sfasciarsi del tutto, offrendo quindi materiale perfetto per avviare di mattina presto i fuochi della pietchka.
Pochi giorni dopo l’arrivo a Sàpporo (i Raimondi stavano ancora all’albergo), Clé si era recato, previo appuntamento, all’università dell’Hokkaido, per presentarsi al rettore. Fu ricevuto con la massima cordialità. Il rettore, un uomo abbastanza corpulento ma non grasso, sulla cinquantina, era medico e francofono. Purtroppo per lui portava un cognome dal significato offensivo in francese, le Docteur Kon, e offrendo a Cle come s’usa in Giappone il proprio biglietto da visita, rise nervosamente, certo conscio della situazione non poco imbarazzante di fronte a uno straniero, e per di più latino e francofono anche lui... Il rettore si disse felicissimo che Clé avesse scelto l’università dell’Hokkaido come centro dei suoi studi durante la fruizione della borsa di studio in Giappone. Spiegò anche che l’università mancava di corsi d’antropologia, ma che aveva parlato con il professor Kodama, non solo valentissimo insegnante di anatomia umana, ma appassionato ricercatore di tutto ciò che riguardava gli Ainu, e che questi si era dimostrato ben felice di aggregarsi Clé, come “assistente onorario”.
Poi il rettore passò a conversare affabilmente di cose più generali. Sapeva già dell’assegnazione della residenza ufficiale a Clé e ai suoi, e si disse molto soddisfatto della cosa. Accennò anche alle rare qualità della signora Lane, che “ci è sempre di validissimo aiuto nelle nostre relazioni con gli stranieri”.
Poi mostrò a Clé una stupenda antica spada giapponese leggermente ricurva, nella sua guaina con decorazioni laccate, poggiata su di un caratteristico sostegno sopra un tavolo. Disse che l’aveva preparata come dono per suo figlio il quale sarebbe presto partito per il fronte in Cina: “Osservi bene la decorazione. Che ci scorge? Una minuscola rana! È l’augurio appassionato del mio cuore di padre.” Ora bisogna sapere che “rana”, in giapponese, si dice kaeru e che kaeru significa anche “ritornare, rivedere la famiglia”. Era la prima volta che Clé incappava in questo uso amuletico della lingua, così caratteristico della cultura giapponese.
Restò commosso dalla storia nel suo insieme, ma segretamente divertito dalla mistura polisemantica di sensi e parole. Più avanti si sarebbe trovato dinanzi a moltissimi casi del genere. Dal dentice (tai), cibo e dono ritenuto supremamente augurale, perché ricorda l’espressione metedai, “felice, fortunato, di buon auspicio”, ai soba (vermicelli di grano saraceno) che traslocando, si portano in dono ai nuovi vicini, perché soba significa anche “vicino, accanto”, sottintendendo “desideriamo relazioni di buon vicinato”.
Clé restò malissimo, e gli vennero davvero le lacrime agli occhi, quando, un sei o sette mesi più tardi, seppe che il figlio del rettore era morto in guerra. La minuscola rana laccata in oro aveva dunque tradito la patetica fede del padre nella potenza cabalistica dei simboli e delle loro voci.
L’istituto d’Anatomia Umana, diretto dal professor Sakuzaemon Kodama, era situato in una serie di bassi padiglioni in legno, vecchiotti ma molto ben riscaldati, addirittura da un impianto di termosifoni.
A Clé venne assegnata una piccola anticamera, vicina allo studio del professore stesso, comoda, calda e silenziosa, tappezzata, quasi per l’intero perimetro delle sue pareti, da scaffalature in legno su cui stavano posati centinaia e centinaia di crani ainu, perfettamente puliti, anzi si sarebbe detto lucidati, ciascuno con il suo numero per ovvio riferimento a un catalogo. Il professor Kodama e i suoi tre assistenti giapponesi, ottimi giovani molto silenziosi, in perenne stato di “reverenza e trepidazione” dinanzi al famoso cattedratico, erano tutti teutofoni. Il tedesco di Clé non era dei più brillanti, ma a furia di praticarlo ogni giorno con il professore, spesso con gli assistenti, finì per renderlo più spedito e naturale. Inoltre prese lezioni di tedesco da un certo dottor Cohen della facoltà di Fisica, un altro ebreo transfuga dalla Germania hitleriana: purtroppo il dottor Cohen, un trentenne simpatico ma molto pignolo, che pare fosse un genio in fisica teorica, partì presto per Taiwan (allora colonia giapponese) dove aveva trovato un’occupazione più redditizia.
Il professor Kodama era basso di statura, forse era poco più alto di un metro e sessanta, ma come avviene ai piccoli molto intelligenti e volitivi, teneva il petto tanto in fuori, parlava con tanta sicurezza, che aggiungeva una buona spanna morale alla propria statura. Era un vulcano di attività e iniziative.
Se Clé chiudeva gli occhi e pensava al professore, lo vedeva immancabilmente avanzare a passetti rapidi per uno dei lunghi corridoi tra un padiglione e l’altro dell’istituto con la spolverina di cotone larga e candida, aperta sul davanti e navigante sulla brezza dell’andatura dietro la schiena, come due grandi ali, di angelo o di falco – non era chiaro.
Una mattina Clé notò che era stato portato un tavolo, con il piano di marmo, nel corridoio dinanzi alla stanza del professore. Poco dopo arrivò un tecnico e vi depose con grande cura e attenzione un preparato anatomico: si trattava della testa e del collo di un cadavere che erano stati lasciati nel parco a raggelarsi nella notte a dieci, dodici gradi sotto zero. La testa poi, dura come un’onice, era stata segata in tante fette verticali, dello spessore di circa un centimetro l’una. Effettivamente era, per uso didattico, una trovata ingegnosa: lo studente poteva seguire con la massima chiarezza ogni particolare del complesso di organi e spazi vuoti che si trovano all’interno di ogni cranio umano vivente. “Vede cosa possiamo fare con il clima dell’Hokkaido!” esclamò soddisfattissimo il professore. “Ist es nicht wunderbar?”
Il professore era anche attivo in altri campi molto diversi. Aveva, per esempio, scoperto che per ben due volte, nel 1618 e nel 1621, un gesuita italiano, Yeronimo De Angelis originario di Enna, in Sicilia, era riuscito a compiere il difficile e periglioso viaggio da Tokyo (allora Edo) all’Hokkaido (allora Ezo), scrivendo poi una Relazione del Regno di Ezo ricchissima di preziose informazioni. Visto che adesso aveva a disposizione nientemeno che un italiano come assistente onorario, perché non approfittare dell’occasione per tradurre in giapponese il documento? Avveniva spesso, perciò, che il professore e Clé si trovassero insieme per delle sedute, ora brevi, ora lunghe, a seconda delle circostanze, nelle quali si chiarivano punti del testo seicentesco.
* * *
Verso la fine dell’inverno il professor Kodama invitò Clé con Malachite e Dafni per un pranzo domenicale a casa sua (alle diciassette, secondo il costume locale). Parlando, ad esempio, di un viaggio di studio in Norvegia, negli Stati Uniti, o in Nuova Zelanda, un invito del genere sarebbe talmente normale da non meritare neppure un cenno.
Ma in Giappone costituiva un evento piuttosto eccezionale. Gli amici, i colleghi, i conoscenti, le famiglie s’invitavano e reinvitavano di continuo, ma quasi sempre presso i ristoranti. Il professor Kodama, ospitando i giovani amici stranieri a casa sua, voleva sottolineare (in Giappone si sa tutto di tutti, sempre, ovunque) che lui era fortemente occidentalizzato (cosa peraltro vera), e che planava al di sopra delle convenzioni, o meglio si sentiva creatore di nuove convenzioni.
Il professore aveva trascorso alcuni anni in Germania, borsista presso la facoltà di Medicina dell’università di Monaco, dove si era trovato, lo ricordava spesso, assai bene. Si dice sovente che i giapponesi siano i tedeschi dell’Asia orientale, e qualche elemento di verità emerge dall’asserzione; si tratta però in gran parte di una questione di percentuali. Una buona parte dei giapponesi si trova bene con i tedeschi, ma esistono anche numerosi giapponesi che s’identificano in piena felicità con i francesi (cultura, arte, raffinatezza – il pittore Foujita fu un esempio classico), altri s’innestano entusiasti sul tronco della quercia inglese (mondo del suggerito e del non detto, società sottilmente gerarchica, regno, cerimonie, tradizione; vedi lo scrittore Ishiguro), e molti si riscontrano beati in Italia, per gli spontanei rapporti sociali e d’amicizia, rapporti disinteressati, privi dei consueti doveri e terrori confuciani.
Il professore abitava in una villetta d’aspetto piacevole circondata da un giardino, non lontano dall’Undicesimo Viale. È rarissimo che una casa giapponese abbia veri pregi architettonici, e questo vale anche per le dimore dei ricchi, come per le famiglie della più esaltabile aristocrazia. Per millenni la casa in Giappone è stata poco più d’una veste famigliare che dura due, tre generazioni, ma poi va disfatta e ricostruita – sempre che, nel frattempo, la distruzione non sia stata opera d’un terremoto, d’un incendio, d’un tifone, della piena improvvisa d’un fiume, o dell’onda tsunami d’un maremoto. Mentre in Occidente, soprattutto nell’area mediterranea, si è costruito per secoli con la pietra, dunque almeno potenzialmente per l’eternità, in Giappone si è sempre costruito con il legno, dunque con il sentimento più squisito dell’effimero. Per questo in Giappone esistono pochissimi palazzi storici. Perfino le dimore degli imperatori, o degli shōgun, erano costituite da un insieme, più o meno vasto, più o meno ricco, di padiglioni in legno riuniti da corridoi e circondati da giardini.
Arrivati all’ingresso, al genkan (il portale oscuro, detto così un po’ perché in genere è davvero uno spazio buio, un po’ forse perché, provenendo dalla vigorosa luce di fuori, “appare” scuro), gli ospiti si tolsero le scarpe incrostate di neve e di ghiaccio, superarono il gradino che porta al livello del pianterreno di casa e infilarono le pantofole ordinatamente disposte loro dinanzi.
Intanto si udivano i primi festosi saluti da parte del professore e di sua moglie, mentre due bambini, all’incirca dell’età di Dafni, guardavano stralunati la loro coetanea dai “capelli d’oro” (kinpatsu) e con gli “occhi da cane”.
Ospitanti e ospitati risalirono una scala ripidissima di legno lucidato con tanta cura da rappresentare un vero e proprio pericolo. Al primo piano italiano (secondo piano, nikai, nella nomenclatura giapponese) la compagnia si trovò riunita in un ampio salotto all’occidentale, cioè senza tatami, con impiantito di legno ricoperto da spessi tappeti, comodi divani e poltrone e numerosi mobili disposti lungo le pareti. Qui si svolsero i riti cerimoniosi di presentazione degli ospiti alla madre del professore e alla moglie; ambedue erano abbigliate in modo tradizionale: la prima indossava un kimono dai colori malinconici e uniti, adatti all’età e ai capelli bianchi, la seconda era agghindata in un kimono d’un celeste abbastanza festoso, dal quale un occhio esperto avrebbe potuto, entro un margine d’errore di cinque o sei anni, dire l’età di chi lo portava.
Il salotto evocava in modo commovente (o grottesco?) un’atmosfera di Mitteleuropa: sopra un comò a due piani, con lista orizzontale di specchio a metà, con colonnine d’un legno pregiato nerissimo, stava una lunga serie di boccali da birra bavaresi, decrescenti per altezza e capacità. A una parete era appeso uno stendardo ricamato con l’immagine, nei colori più deplorevoli, del celebre castello di Neuschwanstein. Il kitsch austro-tedesco imperava. Con ricordi evidenti d’escursioni in Svizzera: modellini di chalet, nani dalle pipe giganti, una brocca color crema su cui stava dipinta la testa di una fanciulla bionda e una grande scritta JUNGFRAU.
“Ma professore, lei è proprio come Mori Ogai,” fece Clé, cosciente, anzi in segreto vergognoso, di lusingare tanto sfacciatamente il sensei (il maestro). “Si sente che ha vissuto a fondo la sua esperienza tedesca!” (Mori Ogai fu figura straordinaria della fine dell’Ottocento; un alto ufficiale della medicina militare giapponese e forte scrittore allo stesso tempo, che visse a lungo in Germania e ne subì profondamente gli influssi.)
Il sensei si schermiva ridendo. “Ho molto gustato anche l’Italia!” precisò, indicando in un angolo del salotto il modellino d’una gondola, con minuscolo gondoliere al remo, il tutto entro uno scrigno vitreo di deprimente bruttezza. Malachite intanto parlava con le due signore di casa, in inglese, esprimendo la sua felicità per aver potuto sistemarsi tanto bene nella kansha dell’università; seguì uno scambio di notizie preziose riguardanti compere, negozi, mercati e simili. I bambini, dopo alcuni momenti di moine e d’impacci, con la straordinaria e agglutinante facilità di scoprirsi compagni al di là d’ogni differenza razziale, linguistica, culturale e quant’altro, erano spariti nella camera accanto, donde provenivano le loro voci vivaci e confuse. Avevano già scoperto qualche gioco in comune.
Una donna venne ad annunciare che “gohan dekimashita”, il pranzo era pronto, e tutti passarono di là nel salotto giapponese, una stanza che non solo era più ampia del vicino “salotto occidentale”, ma che ne sembrava smisuratamente più vasta, per la semplice ragione che era quasi totalmente priva di mobili. Sui dodici tatami, nuovissimi e ancora odorosi di fresche erbe palustri, stava praticamente soltanto un basso tavolo laccato, già colmo d’ogni ben d’Iddio, intorno al quale erano disposti i cuscini (zabuton) per i commensali. I bambini, salvo Dafni che era stata elevata come ospite al rango d’adulta, non avevano un posto loro, ma sedevano in grembo un poco alla mamma, un poco alla nonna, oppure correvano di qua e di là, magari per tornarsene nel seyo no kyakuma, nel salotto occidentale. A quei tempi i piccoli, fino all’età di sei o sette anni, godevano d’illimitata libertà.
Sul tavolo si vedevano disposti, letteralmente a dozzine, piattini quadrati, rotondi, rettangolari, a forma di conchiglia o di ventaglio, ovali, esagonali, nonché coppette di porcellana o di legno laccato, ciascun recipiente con i suoi bocconcini di cibo già pronto per essere delicatamente afferrato tra le due punte delle bacchette in legno nuovo e profumato di pino, tenute tra le dita dei commensali. Clé avrebbe voluto dire con sintesi estrema e magari impertinente: “Da noi poco piatto e molto cibo, qui poco cibo e molto piatto,” ma in realtà era con senso d’ammirazione che notava come l’elemento estetico del pasto fosse importantissimo, trionfante. I bocconcini (squisiti!) di pesce, verdure, tuberi, radici, alghe, uova giacevano al fondo del loro contenitore in porcellana o in terraglia, come stami e pistilli stanno al fondo della loro corona di petali in un fiore. Le coppette di legno preziosamente laccato contenevano pochi sorsi di minestrine angeliche dai sapori squisitamente marini. E c’erano minuscoli crisantemi da pasto, radici di loto che si scioglievano in bocca, e altri poetici connubi tra campi e cucina.
Il professore versò del sakè caldo da una pisside elegante di porcellana nelle coppette da bambole degli ospiti e dei suoi, poi tutti, dicendo “kampai!”, ne bevvero il contenuto. L’espressione dei brindisi, che fa rima con “samurai”, può far pensare a significati eroici, poetici, o magari soltanto storici, in realtà significa semplicemente “vuotiamo la coppa!”. Non è come lo skol degli scandinavi che alcuni fanno risalire a un antico termine che sta per “cranio”, sottinteso “del nemico ucciso”. Solo alla fine del pasto venne servito il riso bianco, raffinata conclusione con alcuni bocconi di cereale dal sapore neutro – ed eventuale riempimento finale d’uno stomaco esigente, che desse ancora segni impertinenti d’appetito.
“Hai notato,” commentava Malachite al marito, appena tornati alla loro casa sull’Undicesimo Viale, “il contrasto fortissimo, incredibile, tra il gusto perfetto con cui era arredata la sala da pranzo del professore, e quel salotto occidentale, con il suo kitsch svizzero? Nella sala da pranzo non c’era nulla che stonava... Va bene che c’era poco, ma quel poco, che armonia! Nel tokoma un kakemono (rotolo dipinto, stendardo) con l’appropriata scena di primavera, i primi fiorellini gialli di... come si chiamano? tu che sai tutto delle erbe...”
“Ah, ah, i petasites, li ho notati anch’io, tra chiazze di neve, tra bosco e cascata! Poi quel piccolo ikebana con pochi ramoscelli di pruno fiorito... la terraglia arcaica di stile Okhotsk... Una scelta squisita, da intenditore. Il fatto è che fin che si resta nella propria civiltà si è guidati dalla mano invisibile e preziosa della tradizione; saltando oltre le “muraglie d’idee” in un’altra civiltà si resta persi, rintontiti... Chissà come parranno mostruosi ai sino-giapponesi i nostri usi sconsiderati di pezzi orientali, statue buddiste, immagini ukiyoe e simili, quali aggiunte decorative all’arredamento delle nostre case! Meglio non pensarci.”
L’Undicesimo Viale era rischiarato da una gran luna quasi piena. Gruppi di studenti nelle loro lugubri uniformi nere a bottoni d’oro, nelle loro cappe oscure da maghi o da stregoni, tornavano numerosi cantando verso i dormitori del vicinato. Parecchi calzavano i tipici sandali di legno (gheta) sui piedi nudi: nella neve e nel gelo, segno vistoso di virilità, di durezza. Sandali e scarpe facevano krik-krak sulla poca neve ormai rimasta in giro, ma gelatissima e granulosa dopo il tramonto del sole. Le quattro kansha allineate lungo una stradina pedonale, ancora colma di neve gelata, erano inondate di chiarore lunare; da qualche finestra traluceva il giallo-arancione – per contrasto con il cilestro argenteo della notte – di lampadine elettriche accese all’interno.
Ma chi abitava nelle quattro case?
* * *
Nella seconda, a pochi metri dalla prima ormai occupata da Malachite e Clé, stava da anni un professore tedesco che insegnava, come i Lane, presso il liceo preparatorio all’università. Hermann Hecker, ecco il suo nome, aveva lasciato la Germania, non perché fosse ebreo, ma perché provava un disgusto feroce per Hitler e le bande dei suoi seguaci. Hermann, renano d’origine (e questo spiegava molto delle sue scelte politiche), era un uomo prestante sulla quarantina, di faccia somigliava vagamente a Beethoven, caratteristica che sottolineava lui stesso ridendo. Parlava un francese quasi perfetto, un ottimo inglese e un discreto italiano. “Io mi sento fondamentalmente europeo,” disse a Clé, dopo che si furono incontrati. “Anche per lei è lo stesso? Allora andremo magnificamente d’accordo!”
Hermann aveva adottato un giovane giapponese come figlio; si chiamava Yoshiro e si era iscritto da poco alla facoltà di Agricoltura. Hermann amava molto la musica, suonava discretamente il violino, ma soprattutto possedeva una nutrita discoteca di musica classica e un grammofono americano di classe (“Ma guarda,” esclamò Clé dentro di sé vedendolo, “è preciso a quello romano dello zio Miscia!”). Il suo salotto era tappezzato di libri in molte lingue (diceva anche di conoscere il russo, ma lì s’avanzava sull’ipotetico...); evidentemente leggeva molto ed era una persona seriamente colta.
Quando parlava in tedesco si esprimeva con delle caratteristiche enfasi, che sarebbe stato facilissimo, per qualcuno appena un tantino maligno, parodiare... “Er war ein rieeeesiger Mensch!”... “Seine Gedichte sind unnnglaublich schön!” Del resto la parola schön (bello) pronunciata da lui, in qualsiasi circostanza, era come una sciarpa multicolore di seta tra fiori e delizie. L’italiano “bello” (che poi è un benulo, un “piccolo bene”, sconfinato dai suoi limiti d’origine) ha una certa nobiltà sonora, non c’è dubbio, ma punta dritto a una dorica luminosità; schön ha tutte le venustà suggestive, leggermente equivoche, del corinzio.
Procedendo lungo la stradina oltre la casa di Hecker, si trovava la casa dei Lane. I quattro edifici erano stati costruiti alcuni decenni prima ripetendo un unico progetto, ma con il tempo i vari occupanti avevano apportato qualche modifica qua e là, per cui vi si notavano delle differenze. I Lane, una famiglia numerosa, dovevano avere aggiunto alla casa una nuova stanza e forse un deposito, rendendola perciò più grande e complessa delle altre. Le tre figlie maggiori dei Lane, tra i diciassette e i diciannove anni, erano state inviate negli Stati Uniti presso dei parenti per ragioni di studio; a Sàpporo restavano con i genitori due gemelline sui sei-sette anni, talmente simili l’una all’altra che era molto difficile per un estraneo distinguerle, tanto più che vestivano sempre in modo identico, quasi fosse un’uniforme, sorridevano in modo uguale, piangevano in modo uguale.
Purtroppo l’italiano non ha la distinzione tra house e home, tra casa come edificio e casa come focolare (come manca d’una distinzione tra time e weather, tempo cronologico e tempo meteorologico, tra meat e flesh, carne come cibo e carne in quanto elemento del corpo umano...), a ogni modo la home dei Lane era molto diversa da quella di Hermann: niente segni di una matura, raffinata, liberale cultura europea, bensì quelli di una semplice, pragmatica, solida America dei pionieri.
Di libri si notavano solo varie edizioni della Bibbia, qualche romanzo (Via col vento), alcuni numeri del Reader’s Digest e vari volumi tipo fai-da-te: giardinaggio, falegnameria, riparazioni in casa e simili. Le credenze erano colme di marmellate in vasi (mirtilli, lamponi, pere), fatte in casa da Pauline, ciascun recipiente con la sua brava etichetta su cui stava scritto a penna contenuto e anno di produzione.
In quel periodo i Lane facevano parte di un’organizzazione che riuniva protestanti di varie denominazioni, giapponesi e stranieri, “But the spiritual roots of our ancestors and parents were Quakers...” disse Pauline, en passant, durante una conversazione con Clé e Malachite. I quaccheri, cioè “i Tremolanti”, nome derisorio d’antichi avversari, ma come spesso succede, ripreso con orgoglio dagli interessati stessi, nacquero dal predicatore George Fox (1624-1691).
La vera denominazione del gruppo di amici fu, e rimane, Société du Coeur; sodali che rifiutarono fin dall’inizio qualsiasi forma di sacerdozio, qualsiasi discriminazione sociale, razziale e simili, lasciando a ciascun membro di vivificare in sé “lo spirito divino”, come più si sentiva ispirato di farlo. “Nessun quacchero, che si sappia,” raccontava con orgoglio Harold, “fu mai proprietario di schiavi... I quaccheri furono tra i primi e più risoluti nemici del sistema schiavistico americano.” Qualcosa di questa benevolenza radicale, entusiasta, squisitamente democratica, aleggiava silenziosamente ancora intorno alla coppia dei Lane, e nell’intimo della loro home.
Nell’ultima casa della serie viveva un altro tedesco, il professor Willy Kremp, un omone alto e scuro di capelli, anche lui insegnante di lingue presso il liceo locale. Che fosse un uomo colto e uno studioso serio, nessun dubbio, però legava poco con gli altri. Gli studenti raccontavano, tra risatine improvvise, che talvolta veniva a visitare il misterioso professore una non meno misteriosa e bellissima geisha. Pare arrivasse la sera in un risciò chiuso, e ripartisse all’alba; ma né Clé, né gli altri stranieri potevano dire d’aver mai visto il leggendario veicolo.
* * *
Il piccolissimo mondo degli stranieri di Sàpporo, gravitanti intorno all’università locale, era completato dalla presenza di una signora francese, Mathilde (detta dai giapponesi “Machirudo”), anch’essa insegnante della propria lingua agli studenti locali. La sua vita sembrava non fosse stata delle più felici, ma lei non pareva davvero né vinta, né schiacciata dagli eventi. Avrà avuto quarant’anni e li portava benissimo; non era bella, era però alta, magra, svelta e faceva la sua bella figura ovunque. Sapeva anche essere elegante, in occasione di feste o altro. Parlava un giapponese fluente, ed era sempre pronta a rispondere ai polentoni del Nord con la frase giusta, il giusto motto di spirito, che spesso disarmava completamente l’interlocutore.
La sua storia ebbe inizio negli anni venti. I genitori di Mathilde tenevano una piccola pensione a Parigi, in quella strada caratteristica del Sesto Arrondissement che si chiama Rue du Cherche Midi, perché scorre da nord verso sud, con varie curve, senza imboccare mai il tanto sospirato e preciso sud.
Un giorno capita come ospite della pensione un giovane medico giapponese, venuto a perfezionarsi in Occidente. “Oh, tu sais, il était beau! Et charmant! Absolument irrésistible,” diceva Mathilde raccontando a Malachite le sue peripezie.
Insomma, dopo un anno di fidanzamento, non poco contro la volontà dei genitori, i due si sposano.
Il giovane medico resta ancora alcuni anni in Europa, con puntate a Cambridge e in Germania. La coppia è felicissima, tutto scorre liscio come l’olio.
Una sera però arrivano brutte notizie dal Giappone: il suocero (mai conosciuto) sta morendo, e Iwao Murata, che n’è figlio primogenito, deve precipitarsi a casa per prender parte ai riti funebri, e per regolare con i fratelli la successione. A quei tempi la famiglia giapponese seguiva ancora un ordinamento legale all’antica, e il primogenito aveva molti diritti e molti doveri speciali.
Qui val la pena di seguire la storia raccontata da Mathilde stessa.
“Alla partenza da Marsiglia, Iwao era ancora, com’era sempre stato, affettuoso, premuroso, pieno di piccole attenzioni addirittura commoventi... Poi, via via che ci avvicinavamo alla meta, sembrava si producesse in lui una lenta e fatale trasformazione. Niente più baci o tenerezze, di fronte agli altri. Tra di noi si andava stabilendo una strana freddezza progressiva che tendeva, non tanto ad allontanarmi, quanto a sottomettermi. La nave era francese e gli altri viaggiatori erano tutti stranieri. Quando però a Shanghai salirono a bordo numerosi giapponesi, il freddo che s’era istituito tra di noi divenne gelo, gelo terribile. Gli occhi dei connazionali lo paralizzavano. Capii che si vergognava d’essere accompagnato da una moglie gaijin, straniera.
“Iwao parlava solo per spiegarmi, come se fossi una bambina, ciò che dovevo fare. A tavola dovevo parlare solo se interrogata, non dovevo guardare di qua e di là, ed erano osservazioni continue sul mio modo di vestire... Erano finiti naturalmente i giorni in cui Iwao mi dava la precedenza dinanzi alle porte! Andava avanti lui e io dovevo seguirlo in silenzio, magari con i pacchi, se avevamo fatto spese, esattamente a tre passi di distanza.
“All’arrivo a Kobe ero come un cane che ha ricevuto tante di quelle frustate che ormai è reso completamente schiavo...
“La famiglia, figuratevi, viveva in un piccolo centro fuori mano dell’isola di Shikoku. Iwao, come primogenito, aveva pressoché diritto di vita e di morte su tutti i numerosi componenti. Anche la madre era malatissima, e si vedeva poco; la maggiore delle sorelle, che fortuna!, era simpatica, affettuosa e buona e capiva tante cose; tra l’altro m’insegnava il giapponese. E fin qui le cose sarebbero andate abbastanza bene; ma la famiglia era abbiente, localmente importante, quindi ciò che ne pensavano i vicini, i compaesani, aveva un potere che da noi non s’immagina neppure... Del resto anche il Giappone quant’è cambiato da allora! Ma in quegli anni remoti, in una remota provincia giapponese, si viveva ancora come nell’epoca degli shōgun Tokugawa.
“Dall’alba al tramonto ogni mio atto, gesto, parola, espressione del viso doveva seguire un copione rigidissimo e preciso. Qualche volta Iwao pareva tornare in sé, e mi parlava, ma solo per spiegarmi la difficile situazione: ‘Capisci,’ diceva, ‘un Murata ha sposato una gaijin, cosa quasi incomprensibile da queste parti. Tutti ti osservano. Purtroppo hanno idee antiquate, sciocche, assurde sulle donne gaijin, dicono che sono egoiste, che non si occupano del marito, della casa, allora ti spiano per vedere se è vero ciò che pensano, o magari se è il caso di ricredersi. Ma sai com’è difficile superare i pregiudizi! Allora noi ti diciamo esattamente come devi comportarti per debellare questi pregiudizi, o almeno per tenerli sotto controllo...’
“Io soffrivo, mi sentivo umiliata, d’altra parte avevamo ormai due figli, un maschio e una femmina, ero legata al carro, non potevo fuggire. E piano piano stavo imparando il difficile copione. Ogni giorno ricevevamo visite... Per fortuna quelle mediche erano dirottate alla casa accanto, Iwao era ormai famoso come internista! Ma era anche un notabile locale, allora io dovevo intrattenere gli ‘onorevoli kyaku-san’, i venerati ospiti. Avevo imparato le frasi giuste da dirsi, tutta la liturgia degli inchini, come servire il tè. Ero arrivata al punto che quasi quasi provavo soddisfazione nel fare la mia parte così bene! Inoltre va detta una cosa, che i giapponesi di provincia (oggi nelle città c’è tutt’altra atmosfera...) erano duri, esigenti, magari anche feroci nei loro giudizi, ma se riuscivi a passare l’esame, finivano per accettarti, e magari scoprivi tesori celati d’affetto e d’amicizia.
“Una mattina successe una cosa terribile: l’infermiera di turno trovò morta la madre d’Iwao nel suo letto, o meglio tra i suoi coltroni, futon, distesi sui tatami della camera in cui era vissuta a lungo durante la penosa malattia. Povera vecchia, io andavo ogni giorno a salutarla, a riverirla, ma tutto sommato avevo scambiato solo poche parole con lei. Sapevo che disapprovava fieramente la scelta matrimoniale del figlio, ma non mi aveva mai fatto pesare i suoi sentimenti.
“E adesso c’era da pensare alle esequie della signora Murata senior... Voi non avete un’idea di quale terremoto sia un evento del genere quando ha luogo in una famiglia eminente di provincia profonda. I parenti arrivano a legioni da tutte le parti, bisogna riceverli, nutrirli, dire le cose giuste. Ci sono i bonzi con i loro incensi e le loro recitazioni di lunghissime preghiere. I Murata appartengono, almeno nominalmente, alla confessione shingon, una delle più liturgiche e ritualizzate che ci siano...
“Se il triste evento fosse avvenuto poco dopo il mio arrivo in casa, è chiaro che mi avrebbero tenuta del tutto fuori dalle esequie, mi avrebbero nascosta in una stanza come afflitta da una diplomatica malattia! Se fossero trascorsi ancora un paio d’anni sarei ormai divenuta una perfetta oku-san (Signora del Recesso, degli appartamenti nascosti, segreti) e non avrei avuto problemi. Invece mi trovavo proprio nel bel mezzo del guado. Meno male che Setsuko, la maggiore tra le quattro sorelle d’Iwao, quella che m’aveva presa a proteggere e benvolere fin dall’inizio, la mia paziente maestra di giapponese, mi diresse in ogni particolare dei riti, da come dovevo vestirmi (kimono funebre nero e bianco) a quello che dovevo fare e non fare, dire e non dire.
“Che brutto frangente! Ho un ricordo confuso di quelle giornate, una girandola impazzita di gente, di facce, di occhi che mi guardavano come fari nella notte, di voci, di profumi d’incenso, di litanie, canti, stole, pianete, rosari, candele, campanelli, di cucine affollate di donne e ragazze, di pasti distribuiti a folle di parenti e visitatori, àgapi in cui le tensioni represse lievitavano in rumorosa allegria. Del resto, consegna primaria: sorridere (per non affliggere gli altri). Salvo alcuni momenti, l’evento nel suo insieme era molto meno lugubre di quello che sarebbe stato da noi. Sarà il Buddismo (idea di rinascita, di reincarnazione?), ma la morte viene accettata con maggior equanimità, come anello naturale in un grande ciclo...
“Certo, restai impressionata da una sorta di pragmatismo brutale quando andammo ad accompagnare la salma della signora al kasoba, al crematorio. La colonna di automobili si diresse verso una valletta nascosta, abbastanza lontana dal paese, ai piedi di una montagna severa e disabitata. Lì, quasi celato tra gli alberi, stava un edificio in muratura, assolutamente essenziale, in cui si aprivano sei, otto forni, (il numero esatto non lo ricordo). Al momento nessuno era in funzione, ma lingue nere di fuliggine tracciate dalle fiamme sulle pareti suggerivano tante cose all’occhio. Numerose lastre di metallo rugginoso stavano appoggiate qua e là contro i muri: erano forse alte due metri e larghe uno. ‘Tatami di ferro’ pensai tra me e me, e ciascuna aveva al centro un’ombra più scura di grasso che ricordava vagamente un corpo umano...
“Bene, la cassa di legno bianco, più piccola delle nostre perché la salma v’è contenuta raggomitolata, in posizione fetale, venne posta sopra una lastra, infilata in uno dei forni e in pochi minuti un violento fuoco di legna l’avvolse con le sue fiamme purificatrici.
“Qualche mese dopo Iwao mi comunicò una notizia felice. La penosa divisione dei beni di famiglia era ormai compiuta. Iwao diceva di sentirsi soffocato nell’ambiente tanto conservatore della natia isola di Shikoku, e aveva deciso di trasferirsi in Hokkaido, dove aveva avuto ottime assicurazioni di successo. ‘Vedrai,’ diceva, ‘è la regione più aperta e internazionale dell’intero Paese... Sotto certi aspetti meglio perfino di Kobe o di Yokohama... E poi c’è meno concorrenza, ci sono maggiori possibilità di sviluppo in tutti i sensi.’
“Un anno più tardi traslocammo davvero – e intanto ci era nata un’altra figlia. In Hokkaido il clima era duro, da principio mi sembrò d’essere migrata in Norvegia, ma per il resto Iwao aveva avuto completamente ragione. La gente, i vicini, i colleghi, accettavano una moglie gaijin senza alcuno di quegli sciocchi pregiudizi ancora così vivi e intolleranti nello Shikoku. D’altra parte c’erano parecchie coppie internazionali tra i medici di Sàpporo; il dottor Ariga per esempio aveva una moglie tedesca, il dottor Homma s’era sposato con una russa. Per un paio d’anni fummo veramente felici. Iwao aveva aperto una clinica privata con una dozzina di stanze e si era fatto rapidamente una clientela numerosa e di classe. Venivano a cercarlo, non solo dalle altre città dell’Hokkaido, ma perfino da Aomori e da Sendai.
“Purtroppo la felicità umana è destinata a essere breve. Che sia diventata un poco buddista anch’io? ‘Tutto ciò che nasce deve perire, ciò che s’unisce deve separarsi.’
“Un giorno, mettendo sotto piega un paio di calzoni d’Iwao, che succede? Da una tasca cade un fogliettino di carta profumata. Ahi, non avrei voluto leggerlo, d’altra parte dovevo leggerlo! ‘Telefonami più tardi,’ diceva, ‘ho tanta voglia di vederti...’ La firma, Mamechiyo (Fagiolina delle Mille Stagioni), ricordava uno dei tipici nomi da geisha come se ne leggono nei romanzi. Naturalmente rizzai le orecchie. E le conferme vennero più tardi. La mia donna di casa, Nobe-san, che mi era molto affezionata, cominciò a farmi dei veri rapporti segreti: ‘Eh sì, il danna-san (il padrone) c’è caduto davvero... Vuole riscattarla dalla professione... Chissà che somma... Vuole metterle su casa.’
“Purtroppo non solo le leggi, ma anche il costume lo appoggiavano in pieno. Anzi, un professionista affermato, ancora abbastanza giovane, piacente, con cospicui conti in banca, sarebbe stato considerato quasi uno strullo, se fosse rimasto privo di concubina. Trascurava la famiglia? Finanziariamente, per allora, no. Dunque c’era poco da fare. Tacere e sorridere, cari miei, tacere e sorridere!
“Per fortuna (almeno in un certo senso) la famosa Fagiolina era ambiziosa e insaziabile. Voleva sempre di più. Non solo una casa, ma pellicce e gioielli, poi una macchina per sé. Iwao guadagnava molto, però a un certo momento cominciammo noi a risentirne, voglio dire i ragazzi e io. I figli erano suoi, ma erano anche miei, volevo potessero godere di tutti i vantaggi di una posizione indubbiamente diversa da quella di molti loro compagni. Poi ormai erano abituati a una certa larghezza di vita... Restringersi è sempre penoso, no?
“Insomma, un giorno che Iwao cercava di evitare certe spese necessarie avanzando scuse del tutto campate in aria, non ne potei più e scattai. Scena madre, eh? Sì, scena madre! In qualche parte recondita dell’animo ebbi terrore di quello che stavo facendo e dicendo. Mi ricordavo l’Iwao del piroscafo allo sbarco in Giappone, un padrone duro, inflessibile. Invece questa volta crollò. Non rispondeva, chinava la testa, sembrava disfatto. Mi fece addirittura pena. Però i ponti erano tagliati. Da quel momento, che ormai risale a cinque anni fa, viviamo ciascuno per conto proprio, io con i ragazzi in una casa dirimpetto all’ospedale, lui... Be’ non mi concerne quasi più come individuo; come padre dei ragazzi fa il suo dovere. Io mi sono resa indipendente con la scuola.”
* * *
Gli stranieri di Sàpporo, appartenenti a questo piccolo gruppo, a differenza degli stranieri dediti agli affari dei grandi centri internazionali, come Yokohama e Kobe, i quali tendevano a vivere del tutto appartati dai giapponesi, erano invece, tramite i loro numerosissimi studenti, in contatto continuo con i giapponesi. In più tutti parlavano giapponese, alcuni, come s’è visto per Pauline Lane e Machirudo, benissimo. Clé si trovò dunque fin dai primi giorni di questa nuova vita circondato da giovani compagni del luogo, alcuni dei quali divennero ben presto amici, cari amici. Il professor Kodama aveva indicato a Clé un suo laureando, Sada Iwanami, come maestro di giapponese. La combinazione andò benissimo, perché Sada era da lungo tempo in cerca di qualcuno che gli insegnasse l’italiano; a un’ora di pratica nella lingua altaica, seguiva un’ora di esercizi nella lingua neolatina.
Più o meno durante lo stesso periodo in cui Clé e i suoi arrivarono a Sàpporo, i numerosi studenti giapponesi che frequentavano i corsi dei maestri stranieri avevano deciso di riunirsi in una sorta di gruppo informale, per il quale essi stessi scelsero il nome (patetico, incantevole e assurdo) di Societé du Coeur, come si è già visto.
Già da lungo tempo i vari stranieri invitavano nelle loro case, secondo un diffuso uso germanico, i propri studenti per delle serate di conversazione e di musica; ma tali incontri erano irregolari, e potevano anche sovrapporsi. La Société du Coeur organizzò un poco le cose, stabilendo che gli incontri si sarebbero fatti di venerdì sera, e a turno in una delle quattro case a disposizione, quella dei Lane, di Hecker, di Machirudo, e infine quella dei Raimondi, che furono ben felici di aggregarsi al giro.
L’unico che restò fuori fu l’arcigno Kremp; nessuno lo interpellò, ma sicuramente avrebbe trovato una scusa per non impegnarsi. Gli studenti che gravitavano intorno alla Société du Coeur erano almeno una ventina, ma l’organizzazione restava intenzionalmente lasca, informale, inesistente, a causa (e di questo parleremo più avanti) della polizia, che era estremamente sospettosa riguardo alle attività degli stranieri, e dei giapponesi che li frequentavano.
Le serate, che ebbero subito molto successo, cominciavano di solito verso le sei (in Giappone allora, ma anche adesso, gli orari erano molto anticipati rispetto ai nostri). Dopo un salutino del padrone di casa, uno del gruppo – a volte uno studente, talvolta uno dei professori – leggeva, o esponeva delle idee, delle informazioni, riguardo a un argomento di cui si supponeva avesse particolare competenza. Seguivano discussioni, se possibile nella lingua “di casa”, altrimenti in una delle tre maggiori conosciute più o meno da tutti (inglese, francese, tedesco). Infine si servivano fette di torta (famose quelle di Pauline Lane fatte in casa), dolcetti, tè rosso (cioè all’occidentale) con o senza zucchero, limone o latte; se lo spuntino era alla giapponese (per esempio sushi, involtini di riso con pesce crudo, caviale di salmone, alghe e simili), lo accompagnava il tè verde, alla giapponese. Dai Lane, dove l’alcol “serviva solo per disinfettare”, vini, birre, liquori, sakè ovviamente non si vedevano mai, ma dagli altri qualche bicchierino spesso circolava, sempre nei limiti più morigerati immaginabili. Hermann Hecker amava molto un sorso di Porto (e ne aveva sempre di eccellente).
Una sera, aiutandosi con il grammofono, dette una spiegazione così approfondita ed esauriente della Nona Sinfonia di Beethoven, che accaddero due cose: una, sorso dopo sorso venne scolata un’intera bottiglia di Porto; due, eccezionalmente, non avendo potuto esaurire l’argomento all’ora risicata delle ventidue, si rimandò al tardo pomeriggio del giorno successivo, sabato, il completamento della conferenza musicale, nella quale il maestro aveva dimostrato altissima competenza e straordinaria bravura divulgativa.