3. Sapporiti e otarioti
A una trentina di chilometri da Sàpporo verso ovest, sul mare, si trova una cittadina che oggi conta quasi duecentomila abitanti, ma che allora ne vantava sì e no quarantamila, nota con il nome di Otaru. Rispetto a Sàpporo, capitale dell’isola, era decisamente una nullità provinciale. D’altra parte, essendo munita di un buon porto, riparato e abbastanza bene organizzato, dimostrava una certa aura internazionale. Era insomma per Sàpporo, in forma ridotta, quello che Yokohama è sempre stata per Tokyo, oppure Kobe per Osaka.
A Otaru vivevano parecchi stranieri, con i quali – per il fortissimo magnetismo d’aggregazione culturale che ha luogo tra gli occidentali sperduti in Asia – i Raimondi avevano frequenti contatti. Clé e Malachite, nel loro spesso stravagante gergo famigliare, parlavano correntemente di amici sapporiti e di amici otarioti.
Il loro migliore amico otariota era Richard Storry, Dick per gli intimi, coetaneo di Clé e insegnante d’inglese presso la Scuola Superiore d’Economia e Commercio di Otaru. Dick poteva facilmente definirsi un ben delineato archetipo del giovane britanno di classe media, di origine provinciale, formatosi però a Oxford e precisamente al Merton College, uno dei più antichi e prestigiosi istituti della celebre città universitaria. Dick era di media statura, aveva dei capelli d’un biondo flavo e le guance vistosamente rosee. Dalla nascita soffriva d’una forte miopia, dunque era sempre schiavo degli occhiali. La miopia condizionava il suo modo d’incedere, i suoi gesti, le sue movenze nel maneggiare libri, carte, giornali, posate, cappelli, rendendolo in qualche modo visibilmente vulnerabile, bisognoso di guida e d’aiuto, e perciò immediatamente simpatico. La miopia inoltre gli dava l’espressione d’un professore nato; e avanzando negli anni, incarnò sempre meglio, e in modo addirittura pittoresco, il sigillo professionale.
Dick vestiva di norma da country squire, da signorotto di campagna, scegliendo giacche di grossa lana fulva o a quadretti, portate su calzoni grigi, con ottime scarpe marrone scuro. Indossava quasi sempre la cravatta (con colori e strisce del suo college, anche se il magico segno non era leggibile da nessuno). Amava più le cappe a mantellina, che i cappotti, e spesso fu anche visto con l’anacronistico berretto a quadretti e a due spioventi, alla Sherlock Holmes: insomma un pochino si divertiva a fare l’inglese ottocentesco in giro per il mondo!
Il primo incontro con Clé, nella casa di Pauline Lane a Sàpporo, andò decisamente male. Dick si presentò dicendo d’essere nato a Doncaster, importante nodo ferroviario (an important railway junction), al che Clé rispose un po’ spavaldamente d’esser nato invece a Firenze, the most important junction of cultures, un centro d’incontri e smistamenti culturali. “Ma che sciocco superbioso! Quante vanterie fuori posto!” pensò Dick; e per sei mesi almeno, i due si evitarono. Poi, non si sa come, rieccoli, rieccoli insieme, sia a Sàpporo, sia a Otaru e piano piano divennero amici carissimi, per la vita. Clé sentiva sinceramente di poter aggiungere il nome di Dick a quelli di Rolando, Maurizio, Ulisse e degli altri suoi amatissimi compagni di tinegeria.
Dick era benedetto da una di quelle felici nature solari ed estroverse per cui si trovava bene dappertutto e con chiunque. In treno, per esempio tra Sàpporo e Otaru o viceversa, attaccava conversazioni con i pescatori, con i contadini, con gli operai pendolari, riuscendo a scovare in loro una comune base d’interessi umani. In un bar qualsiasi diventava subito amicone sia del giovane al banco, sia di qualche avventore, magari sollevandolo da un umor malinconico e facendolo ridere. Accadeva spesso che Clé invidiasse l’amico; Clé era più introverso, più portato al rimugino interiore, ai silenzi, alle riflessioni, meno facile a legare con i vicini. Dick, ancora scapolone, era frequentatore d’un bar vicino alla stazione di Otaru, e ne conosceva benissimo le tre o quattro hostess, allora dette Jokyu-san (signorine mescitrici). Quando entrava nella saletta veniva accolto con battimani e grida di gioia dalle ragazze. Una, Setsuko, piccola, la vera bambolina giapponese vivente dalle gote di porcellana e dalle manine di fata, veniva spesso chiamata (con più fantasia che altro) “la fidanzatina di Dikku-san”.
Tra gli altri otarioti più notevoli Clé ricordava volentieri la coppia dei Wundt. Il loro cognome era tedesco, ma ambedue erano dei cosiddetti ainoko, cioè “figli d’un incontro”, in altre parole degli eurasians, lui di padre tedesco (e madre giapponese), lei figlia d’un canadese (e di madre parimenti nipponica). I Wundt erano giovani, ricchi e bellissimi. Il seme nordico si sposa infatti spesso all’eredità giapponese con strepitoso successo estetico. Lui, Gusti Wundt, avrà avuto trent’anni, era alto, atletico, elegante di mosse e di vesti; Lydia, la sua compagna, poteva avere al massimo venticinque anni; era una esuberante giovialona, alta e formosa, che portava i capelli neri lisci e abbondanti sciolti sulle spalle; gli occhi erano grandi, profondi e sognanti, la bocca provocante e sensuale. Fin dalle primissime frequentazioni, si era stabilita, tra Lydia e Clé, una reciproca silenziosa simpatia, fatta più che altro di sguardi.
I Wundt erano ospitalissimi, un po’ mondani, ma in modo spiritoso e leggero. Lydia era una cuoca formidabile, specie per certe sue specialità cinesi. Malachite, Clé e Dick si recavano spesso a Villa Wundt per dei gioviali fine settimana. La villa dei Wundt sorgeva un po’ fuori Otaru, sulle prime pendici del monte Tengu, che si leva ripido e liscio a sud della città. Clé si alzava prestissimo e saliva con le pelli di foca fin sulla cima del monte. La discesa al ritorno aveva inizio con uno scivolo ripido e libero che offriva un paradisiaco tuffo virtuale in mare, lì disteso alcune centinaia di metri più in basso. Peccato che la salita richiedeva un’ora e mezzo, e la discesa si consumava in pochi minuti d’una volata da pazzi!
Ma allora, anche sulle Alpi erano condizioni normali, e accettate come parte della vita.
Clé, tornato a casa Wundt, trovava gli amici (pigroni!) alzati. Verso le undici aveva luogo un brunch luculliano nel quale si serviva di tutto: caffè, tè, latte, panna, fette biscottate, burro, marmellata, miele, pesci di vario genere, carni rosolate alla cinese, formaggi, torte, nonché alcolici occidentali e orientali... Nel pomeriggio gli amici uscivano per una tranquilla sciatina tra le luci dorate del tramonto.
Dick, come si può facilmente immaginare, era beneamato animatore della compagnia. La sua conversazione era sempre allegra e informatissima: talvolta sorprendente.
Ogni tanto i Wundt ricevevano altri illustri otarioti, e la compagnia s’allargava. Il più eminente forse era il generale Gourdiaeff, transfuga dalle armate dello Tsar, e insegnante di russo presso la Scuola d’Economia e Commercio.
Gourdiaeff era personaggio otariota del massimo spicco. Sessantenne, alto, forte, marziale, passabilmente anglofono, indossava sempre abiti dal taglio militaresco con camicie a collo apertissimo, fulgidamente pulite e stirate. Clé, incontrandolo la prima volta, pensò a un famoso ritratto di Ugo Foscolo. Il generale non faceva mistero dei propri gusti sessuali e viveva con un giovane manciuriano di raro fascino carnale. Con le signore era di una squisitezza da manuale; scatti di tacchi che parevano fucilate e baciamani di vistosa teatralità.
Malachite, Clé e gli altri del gruppo furono una volta invitati a casa del generale. Dick veramente aveva dei dubbi sul generalato. “Mi hanno riferito in segreto che è soltanto colonnello,” aveva sussurrato divertito agli orecchi di Clé, in un momento in cui gli effluvi soavi del sakè dominavano tutti i fiati. A ogni modo il salotto (e sala da pranzo) di Gourdiaeff era tappezzato di sciabole di molti modelli e di grandezze diverse; c’erano anche degli scudi (kazakhi?), delle pistole da banditi, dei fucili tibetani... Inoltre si vedevano molte fotografie dello Tsar e della sua famiglia, nonché del padrone di casa in candide uniformi con varie scintillanti medaglie sul petto.
“Quella sciabola,” fece il generale, mostrando uno dei cimeli agli ospiti, “mi fu donata da Nicola II stesso, nel 1913...”
Se si riusciva a portarlo sull’argomento, aveva dei ricordi fascinosi sulle sue avventure siberiane nei momenti più disastrati della storia russa, dal 1918 ai primi anni venti: ma per qualche ragione, bisognava che avesse bevuto molto perché si sbottonasse.
“Il periodo più duro,” raccontò una volta, “fu quello, per fortuna breve, trascorso in Kamčatka. Una penisola più grande dell’Italia e pressoché disabitata. Una volta eravamo andati a caccia d’orsi. Eravamo in due... Venne la notte e ci rifugiammo in una capanna abbandonata. Verso mezzanotte si sentono dei rumori, degli ululati... Arrivano dieci, venti lupi affamati e stringono un vero assedio intorno alla capanna. Ohilà, ce la siamo vista davvero brutta! Bruttissima! Per fortuna verso l’alba la terra trema, si odono boati immensi poi un vulcano vicino esplode... Fiamme! Fontane di pietre infocate. Le bestiacce si spaventano e scappano. E noi con i fucili spianati, tra piogge di pomici ardenti, riusciamo a salvarci!”
“Peccato,” commentava Dick, “con Gourdiaeff non sai mai quanto ci sia di vero, e quanto di romantica decorazione!”
* * *
Fin dal tempo del tragitto in piroscafo Brindisi-Shanghai si era capito che Malachite era di nuovo incinta. A parte le circostanze inopportune (viaggio, mal di mare, inverno, disagi e incertezze), tanto Malachite quanto Clé ne furono felicissimi. Innanzitutto si rinnovava la speranza del maschietto in casa, poi ambedue gli sposi erano dell’avviso che fosse meglio portare a compimento la “fase figli” della vita mentre si è ancora giovani, tanto più che (altra idea comune) la meta finale era concordemente quella di tre bambini.
Malachite sopportò benissimo i disagi del mare prima, dei tragitti in ferrovia dopo e del gran freddo dell’Hokkaido: stava anzi così bene (a ripensarci, quanta imprudenza!) che, incinta di quattro-cinque mesi, volle anche provare a sciare. I dintorni di Sàpporo, con le loro stradine in pianura o in leggero pendio, erano adattissimi a questi azzardati esercizi sportivi.
Con il mese di luglio venne finalmente l’ora di pensare al parto. Varie visite ginecologiche erano state pienamente rassicuranti. Il medico giapponese che aveva Malachite in cura consigliò a lei e a Clé il nome di una clinica, tra l’altro vicinissima a casa, rinomata come la migliore della città. Quando giunse il momento del temporaneo trasloco, gli sposi scoprirono, non senza sorpresa, che i servizi erano diretti da un piccolo ed energico gruppo di suore tedesche. Malachite era stata sistemata in una stanza bene aerata e luminosa a un angolo dell’edificio, e veniva personalmente curata da una giovanissima suora biancovestita di nome Baltrada.
Il parto andò benissimo, fu più facile di quello che riguardò a suo tempo la nascita di Dafni. La neonata era una vigorosa bimbetta d’oltre tre chili, rosea e strillante, alla quale venne messo il nome giapponese di Yuri, “Giglio”, fiore popolarissimo nell’Hokkaido.
Il giorno dopo vari amici vennero a visitare Malachite e Yuri portando loro tanti di quei mazzi di fiori da trasformare la stanza in una sorta di serra. Tra i visitatori ci fu anche, si capisce, Dick, il quale restò colpitissimo dalle grazie della suora Baltrada.
“Oh, ma Clé,” esclamava Dick, “non te ne sei accorto perché hai la tua bellissima Malachite da curare, ma quella Baltrada è un sogno! Sai a chi mi fa pensare? A Uta di Naumburg, la più affascinante statua gotica di tutta la cristianità!”
Tale fu il colpo portato a segno involontariamente da suor Baltrada su Dick, che lo si rivide in visita alla casa di cura, mattina e pomeriggio, per ciascuno dei quattro o cinque giorni di degenza e riposo della puerpera. Insieme ai fiori per Malachite, Dick portò anche dei cioccolatini svizzeri, per suor Baltrada, la quale arrossì visibilmente nell’accettarli. Ringraziò per il dono, ma in giapponese, quasi a non voler concedere neppure una familiarità linguistica con lo strano ospite che la guardava con i suoi occhioni da miope in modo così sfacciatamente ammirato.
“But, Malachite,” continuava Dick, “ci ‘deve’ essere una qualche commovente e romantica storia d’amore nascosta da qualche parte in questa incredibile vicenda. Una terribile rinuncia, un amore troncato... Non ti pare? Come fa una fanciulla dell’avvenenza di Baltrada a seppellirsi in un convento, in Hokkaido? Puro fervore religioso? Ah, no, io non ci credo!”
L’entusiasmo di Dick per suor Baltrada finì per influenzare anche Clé, il quale, preso dalle vicende per fortuna benigne di Malachite, e dal benvenuto da darsi alla nuova figlioletta appena apparsa nel mondo, forse non ci avrebbe fatto caso. In realtà Dick aveva ragione. Quel faccino giovane – quanti anni poteva avere la fanciulla? Ventidue o ventitré al massimo... – era d’una regolarità incantevole. Quando poi ti guardava, sorridendo, brillava d’una luce spirituale che aveva fuoco di magia. La tela candida che le fasciava il volto e il collo le dava un’aria squisitamente medievale. E, come Uta di Naumburg, suor Baltrada si presentava con una sicurezza interiore misteriosamente regale. Aveva anche lei, come Uta, una boccuccia che si atteggiava più a principesca condiscendenza che a umiltà monastica.
Infine la venustà della suora finì per accalappiare anche Clé. Ma poi, ripensandoci, era solo venustà di volto, incanto d’espressioni? Forse v’erano altri e più personali ingredienti nella breve e segreta infatuazione. Ah, che nome brutale e stupendo quel barbarico Baltrada! Per un cacciatore di nomi, toponimi, vocaboli in qualsiasi lingua, da gustarsi come fragole fonetiche per le loro musiche e per le impensate associazioni che potevano derivarne, sbocciarne, fiorirne, Baltrada era un gioiello d’assoluta eccezione!