4. Dèi pesanti e dèi leggeri
Ekashmatok comparve nel vano della porta della sua capanna.
“Benvenuti!” esclamò sorridendo. “Ho ricevuto stamattina la telefonata del professor Kodama che annunciava la vostra visita. Avete fatto buon viaggio? Spero di sì.”
Clé, insieme a Sada Iwanami, il giovane laureando in Medicina, allievo del professor Kodama, aveva raggiunto in treno il villaggio di Shiraoi, a circa ottanta chilometri a sud-est di Sàpporo, sulla costa meridionale dell’isola. Era ormai venuto il momento di lasciare i libri e le ricerche in biblioteca per passare alle indagini, alle esperienze vive, diciamo “sul campo”, di quanto restava ancora della società semitribale degli Ainu. Shiraoi era un brutto villaggio di case sciatte e di botteghe giapponesi. Qua e là però si vedevano le capanne degli Ainu, con i tetti di paglia (in realtà di erbe palustri) dai caratteristici gradoni. Quella di Ekashmatok era più grande e molto meglio tenuta delle altre. Si capiva subito che Ekashmatok era il capo della comunità, un uomo di notevole riguardo.
A poca distanza si apriva lo smisurato oceano Pacifico, e le sue onde lente, ma cospicue, si abbattevano sulla spiaggia con ritmico fragore, spandendo nell’aria un forte e gradito odore di salmastro. Sàpporo era ancora sepolta dalla neve, ma quaggiù, a una distanza dopotutto modesta, il clima era molto più mite: neve se ne vedeva ben poca e il sole splendeva con una luminosità già quasi primaverile.
Ekashmatok era un vigoroso cinquantenne con una magnifica capigliatura d’argento, degna d’un direttore d’orchestra di grido, e una gran barba di fulgido candore. Indossava un kimono in tessuto color bruno chiaro di fibre d’olmo, con i caratteristici ornamenti azzurri e bianchi della sua gente. Parlava in un fluido giapponese, con qualche curiosa inflessione.
“Venite avanti!” esclamò con un cordiale sorriso. Sada e Clé si tolsero le scarpe e passarono dallo shem (il piccolo vano d’ingresso) al chise, la capanna vera e propria. Questa racchiudeva un solo vano, ampio ma tutto sommato poco luminoso: due sole piccole finestre si aprivano nelle pareti costituite da grossi pilastri di legno, bruniti dagli anni e dal fumo, e da fasci di erbe palustri strettamente compresse. Sui pilastri poggiava il tetto, composto da travicelli più leggeri e da erbe palustri pressate.
“Ma venite avanti, salite pure! Siete miei graditissimi ospiti.” Dicendo “salite”, Ekashmatok impiegava un termine addirittura tecnico, perché l’interno della capanna ainu ha una sua topografia speciale, e ogni decimetro quadro della sua superficie è viva di magnetismi sociali, rituali, religiosi. Ekashmatok si accovacciò al suo posto di padrone di casa e iniziò il saluto degli uomini ainu, che consiste nello strofinare lentamente, e in dignitoso silenzio, le dita di una mano contro quelle dell’altra. Clé e Sada imitarono l’ekashi (l’anziano).
“Benvenuti, molto benvenuti!” ripeté Ekashmatok in giapponese. “So tutto di voi! Sono molto felice di ricevervi nella mia misera capanna. Vicino al fuoco si sta bene, ma l’aria fredda penetra da mille fessure. Noi ci siamo abituati, ma il signor Ramon (Raimondi semplificato) chissà... Meno male che siete giovani. E lei viene dall’Italia, vero? Ho guardato sull’atlante di scuola di mia figlia. Sembra un gambale, e dice che ci fa caldo, allora l’Hokkaido le sembrerà un postaccio, temo!”
Ekashmatok si rivelava loquacissimo, spigliato, quasi uomo di mondo. Ci voleva poco a intuire che era abituato a recitare la parte del “capo tribù”; da uomo furbissimo (bastava osservare i suoi occhi mobili, intelligenti, un po’ briganteschi), aveva addirittura commercializzato le tradizioni ainu, e godeva di mostrarsi depositario di massima fiducia d’ogni particolare del folclore dei suoi antenati. Per di più era indubbiamente bellissimo. Clé non capiva ancora se restarne incantato, quasi soggiogato, oppure se rifiutarlo come troppo teatrale, troppo sicuro di sé, troppo bravo.
La moglie, che mostrava il vistoso e stranissimo tatuaggio blu scuro intorno alla bocca, allora in uso tra le donne ainu, entrò da fuori, da una capanna attigua, e portò un vassoio con delle tazze di tè giapponese e dei biscottini sembei: poi, con inchini e segni di grande rispetto per gli ospiti, silenziosamente si ritirò.
Clé era stato a lungo incerto se porsi a imparare la lingua ainu o no. Ainu e giapponese sono due lingue molto diverse l’una dall’altra, nonostante certi prestiti importanti dovuti ai contatti millenari tra i due popoli. Gli dèi, per esempio, si chiamano Kamui in ainu e Kami in giapponese, chiaramente si tratta del medesimo vocabolo pronunciato in due modi diversi; ma in quale direzione s’è svolto il prestito? Le ipotesi non mancano, anche se il mistero resta ancora aperto. In quanto al problema pratico di Clé, tutti gli avevano detto: “Ma lascia perdere! E molto meglio se ti concentri sul giapponese... L’ainu sta ormai morendo, non lo insegnano in nessuna scuola. Gli anziani sono spesso ancora bilingui, ma i giovani hanno dimenticato, o non hanno mai imparato la parlata degli avi.” Clé non si pentì d’aver seguito il consiglio di conoscenti e amici. Dopotutto, già il giapponese costituiva un’impresa del massimo rispetto. Clé ripensava alle parole del vicino di casa, Hecker: “Il giapponese è come il monte Fuji... Da principio è una salita facilissima, molto meno ostico dell’italiano o del tedesco con i loro generi, i loro verbi complicati e le relative concordanze... Ma poi la salita si fa gradualmente più ripida, il giapponese si fa, passo passo, più difficile, più impegnativo.” E questo vale soprattutto se uno ha l’intenzione, come aveva Clé, di affrontare il mondo incantevole ma diabolico degli ideogrammi.
Clé si guardava in giro con curiosità, osservava i particolari molteplici dell’abitazione in cui si trovava, così diversa dalle ormai note case giapponesi.
“Ekashmatok, la vostra casa mi sembra solidissima. Come l’avete costruita?” chiese Clé.
“Be’ è facile, nishpa (signore)! Prima viene approntato il tetto, poi si chiamano in aiuto tutti gli uomini del villaggio e lo si issa su sei, otto pilastri. Guardate quei tronchi piantati in terra e forcuti in alto. Su quelli il tetto viene prima appoggiato, poi legato solidamente. Si dimostra un sistema ottimo quando batte terremoto. Tanti anni fa quando ero bambino, ci fu un terremoto violento, la terra ballava come le onde del mare, tutti urlavano, io piangevo, ma alla fine io, la mamma, e i miei fratelli, ci trovammo sotto il tetto, che era crollato dai pilastri di sostegno, ma che ci ricopriva tutti come uno smisurato cappello...”
“È vero,” chiese Clé, “che la vostra casa è anche tempio, santuario?”
“Certo!” esclamò Ekashmatok con aria orgogliosa. “Noi non abbiamo né templi né santuari distinti, ogni casa è quindi tempio, luogo dove si abita, ma anche luogo sacro. Guardate alle mie spalle, cosa c’è? Una finestra! Be’ quella è il rorun puyara (la sacra finestra di levante). Da li passano tutte le offerte da deporsi sul nusa, quella fila di pali a levante della casa, l’altare di famiglia diciamo... Quando ha luogo il grande rituale dell’orso (lo Iyomande), la belva viene condotta da due uomini forzuti fin sotto la finestra, da fuori, poi sollevata di peso, perché renda omaggio attraverso il rorun puyara alla santissima dea madre della casa che risiede nel focolare, Fuchi Kamui. Infine, dopo il rituale, le carni macellate dell’orso vengono introdotte in casa su tanti vassoi laccati in rosso, proprio passando non dalla porta, ma dalla finestra divina. E vi dirò un’altra cosa, se non la conoscete già, cioè che è considerato il più grave spregio, per noi Ainu, se un passante sconosciuto s’affaccia da fuori verso l’interno della casa guardando dal rorun puyara... Non fatelo mai, il padrone diverrà furioso... E poi porta male, malissimo!”
“E la santa madre del focolare e della casa dove risiede?” chiese Clé incuriosito.
“Eccola lì!” esclamò vivacemente Ekashmatok. E qui puntò il dito verso un gruppo di due o tre piccoli inau, quei tipici bastoncini da cui si sono piallati dei trucioli a riccio, senza staccarli dal tronchetto, e che poi sono stati infilati in piedi nella cenere all’angolo nord-est del focolare interrato...
“Quello è il suo posto normale, diciamo ‘il suo corpo’, ma trattandosi in realtà di uno spirito, vaga dove vuole, per tutta la casa, o anche fuori. Non per nulla è Kamui... E là nell’angolo nord-est della casa, vedete quel grosso inau, un ramo d’albero ripulito e grosso come un braccio, tutto avvolto di trucioli ornamentali? Quello è il simbolo, o addirittura la presenza, il corpo del gran dio Chise-Koro-Kamui (il Possessore della Casa). E il nostro protettore maschile, molti dicono sia lo sposo di Fuchi Kamui. Sono cose sante, quindi misteriose. Tutta la casa è abitata da dèi. Per questo ci sentiamo sicuri qua dentro.”
* * *
Durante il periodo in cui Clé frequentava l’Hokkaido, per qualche strana ragione, pareva fosse di gran moda occuparsi degli Ainu. Abbiamo già visto il professor Kodama con le centinaia di crani che aveva fatto scavare da antiche tombe abbandonate, e con i suoi studi di antropologia fisica. Poi dai corpi era passato alle anime, dagli ossi alla cultura. Raccoglieva perfino vesti ainu (gli attush), collane delle donne ainu (i tamasai), e altri oggetti del loro artigianato; si occupava anche della loro storia (traduzione in giapponese degli scritti del beato Yeronimo De Angelis, come si è già detto) nonché delle loro manifestazioni religiose.
Già nel decennio precedente il professor Kyosuke Kindai-chi si era accorto che il popolo ainu vantava una prodigiosa letteratura orale, e ne aveva trascritto fedelmente in caratteri romani le opere maggiori, dettate da anziani e anziane che le conoscevano a memoria. Si può dire che, per fortunato caso, uno dei maggiori patrimoni letterari d’una civiltà priva di scrittura sia andato salvato quasi nel momento della sparizione fisica di chi lo portava in mente e nel cuore. Altre importantissime ricerche letterarie ed etnografiche erano state compiute dal professar Itsuhiko Kubodera.
Non tutti gli studiosi di questa materia erano giapponesi. Due personaggi importantissimi, uno inglese, uno scozzese, erano presenti allora in Hokkaido: si trattava in primo luogo del dottor John Batchelor, ultra ottantenne, il vero patriarca degli studi ainu, e del dottor Neil Gordon Munro, di una quindicina d’anni più giovane.
Un pomeriggio Pauline Lane venne di corsa a casa di Clé annunciando: “Domani l’altro sera siamo invitati in casa Batchelor, volete venire anche voi? Ho avvertito the Reverend Doctor, il quale ha detto che sarà felicissimo di conoscervi...” Naturalmente Malachite e Clé risposero di sì. Il reverendo Batchelor, della Chiesa anglicana, era venuto in Asia orientale nientemeno che nel 1870, appena ventenne, come missionario. Inizialmente era stato destinato a Hong Kong, ma poi li s’ammalò di sospetta tubercolosi, e i medici gli consigliarono di farsi trasferire in un clima meno umido e più freddo. Il caso volle che lo spedissero in Hokkaido.
Il nuovo clima gli giovò moltissimo perché, quando Clé lo conobbe, era uno splendido archimandrita ultra ottantenne, alto, dritto, solido, vispo, sprizzante humour britannico, dall’appetito formidabile e dalla memoria di ferro.
“Now, please, come in!” disse la nipote del celebre reverendo, Miss Andrews, una cinquantenne sorridente con l’aria di fanciulla, ma con i capelli bianchi, rabbrividendo per il freddo. Pauline, Malachite, Harold e Clé salirono i gradini d’ingresso e vennero condotti nel salotto, tappezzato di libri, e ben riscaldato da una monumentale stufa a carbone in ghisa bigia. Il celebre dottore (ricordare che nei Paesi anglosassoni il titolo di “dottore” ha infinitamente più prestigio che da noi, venendo concesso solo dopo parecchi anni di ulteriori ricerche post-laurea) stava in piedi, occhialuto e sorridente, stendendo la mano ai nuovi arrivati. Batchelor aveva per di più una vistosa barba candida da patriarca, che lo faceva vagamente somigliare a un ekashi (anziano) ainu.
“Be’,” fece allegramente il reverendo rivolto a Clé, “mi dicono che è venuto per studiare gli Ainu, vero? Ottima cosa, ma doveva farsi vivo nel 1889, o nel 1909, o almeno nel 1919, ora nel 1939 è troppo tardi... Gli Ainu non ci sono più. Lo sapeva? Ah, ah, eh, eh... ” E giù una delle sue risate da sileno, che lo rendevano immediatamente simpatico, smontando tutte quelle cortine di reverendato e dottorato in cui si sarebbe potuto tenere prigioniero.
“L’ultimo degli Ainu è lei, reverendo!” azzardò Clé sorridendo.
“Forse, davvero... L’ultimo dei mohicani, L’ultimo degli Ainu, se ne potrebbe scrivere un romanzo! L’altro giorno sono andato a Piràtori per un saluto alla mia congregazione di fedeli. Ho avuto la faccia tosta di pronunciare un sermoncino in ainu. I vecchi mi seguivano, ma per i giovani era come se parlassi tunguso o ghiliaco! Si vede che è il volere di Dio... Tutto al suo posto nella storia umana. L’importante è vivere in giustizia e carità. Che poi si parli ostiaco, suahili, giapponese o latino poco importa, che ne dice?”
Il reverendo e gli ospiti si erano seduti sulle loro comode poltrone mentre Miss Andrews e la figlia adottiva di Batchelor, una benevola e sorridente donna ainu sulla quarantina con il tipico tatuaggio blu intorno alla bocca, correvano tra salotto e cucina preparando con cura l’occorrente per quella che nessun inglese (o italiano) chiamerebbe una “cerimonia del tè”, ma che in realtà, tra britanni che si rispettino, lo è, eccome!
Si sentì suonare il campanello della porta. Miss Andrews corse ad aprire. Era lo scozzese dottor medico (laureato all’università di Edimburgo, quanto ci teneva a farlo sapere!) Neil Gordon Munro, con la moglie giapponese.
La coppia entrò, togliendosi cappotti, berrettoni e sciarpe, poi passò in salotto dove si svolsero i consueti saluti e le presentazioni, in una atmosfera di conviviale letizia. Munro era più giovane di Batchelor, ma era invecchiato, diciamo, meno trionfalmente del reverendo. Di statura media, era magro e ben portante, però zoppicava leggermente e si aiutava con un bastone nel camminare. Il volto rivelava molti segni d’una vita più intensa, più sofferta, più complessa di quella del reverendo. Da giovane era stato medico su navi di linea britanniche, poi era vissuto per anni tra Yokohama e Tokyo, occupando un posto importante presso l’ospedale di San Luca.
In parallelo alla professione di medico si interessava con passione all’archeologia giapponese, specialmente ai resti dell’era lunghissima detta di Jomon, che secondo alcuni ha inizio addirittura nel nono millennio a.C., terminando poi poco prima dell’era volgare. Chi furono i portatori della cultura Jomon? Ancora oggi se ne discute. Secondo i giapponesi, che tengono emotivamente in modo frenetico a non elencare intrusi stranieri nella storia delle loro isole, furono semplicemente “i primi dei nostri”, secondo altri, furono gli antenati degli Ainu, secondo altri ancora, un popolo indipendente dai due...
Nel 1910 Munro aveva pubblicato un importante studio dal titolo Prehistoric Japan, che sarebbe rimasto per decenni, almeno tra gli specialisti occidentali, il testo base sull’argomento. Lo studio dei resti ceramici Jomon, e il problema del popolo che produsse un tipo di ceramica che ha momenti (specie nel terzo millennio a.C.) di grande splendore artistico e dimostra caratteristiche di straordinaria originalità, portò il dottor Munro a interessarsi degli Ainu.
Nel 1930, disponendo di un piccolo capitale guadagnato con anni e anni di lavoro, aveva deciso di ritirarsi dalla professione e di stabilirsi in Hokkaido, tra gli Ainu stessi, contando di unire, a un’opera di ricerca scientifica su questo popolo dai tanti enigmi, quella d’una missione medica laica, diciamo alla Albert Schweitzer, in loro favore.
Dopo svariate indagini, aveva scelto il villaggio di Nibutani, una dozzina di chilometri a nord di Piràtori, come il luogo più adatto per realizzare il piano. E a Nibutani comprò un mezzo ettaro di terra facendovi costruire una solida casa in legno, in quello stile tra canadese e russo che ormai dominava nell’isola.
Pochi anni dopo, un incendio gli distrusse la dimora, tirata su con tanta fatica, ma con spirito indomito il dottore, “grattando il fondo del mio barile di riserva” (come era solito dire), ricostruì l’edificio. Probabilmente l’incendio ebbe origini accidentali, ma il dottore (forse in parte con quel timore di persecuzioni che affligge molti anziani) vi leggeva una mano dolosa; e in particolare quella di un tal bottegaio giapponese, istallatosi a Nibutani, il quale sembra vedesse di malocchio l’opera d’assistenza medica, di educazione generica laica, di testimonianza delle tristi condizioni in cui vivevano gli aborigeni, condotta in maniera del tutto incorruttibile da questo “antipatico straniero dagli occhi azzurri”. La moglie del dottore, che era stata una delle sue infermiere, si presentava come una donnina minuscola, magra e bruttissima. Ma esistono le brutte adorabili, vero? Lei era sicuramente una di quelle. Il modo con cui si era unita a Miss Andrews e a Kiyoko, la figlia adottiva di Batchelor, nei preparativi del gran tè, rivelavano immediatamente in lei efficienza e la più generosa delle buone volontà.
Intanto gli ospiti discutevano animatamente. Clé, forse con eccessivo entusiasmo giovanile, aveva posto ai due saggi alcune domande sulla religione degli Ainu. Ovviamente i due dottori, uno tale in teologia l’altro in medicina, partivano nelle loro ricerche da due punti di vista squisitamente opposti.
La questione essenziale riguardava i Pase Kamui (gli dèi pesanti), indiscutibilmente presenti nel pantheon ainu, ma interpretabili in luci molto diverse. Soprattutto tenendo presente che nessun san Tommaso yezese aveva mai elaborato un sistema cosmico consistente, una summa della teologia aborigena con tutte le categorie angeliche al loro posto.
“Ma reverendo,” osservava il dottor Munro, “come fa a dire che gli Ainu hanno la nozione, magari offuscata, del concetto di dio unico, supremo, padre e giudice, semplicemente perché parlano di Pase Kamui o di ‘dèi pesanti’, cioè di maggior significato, più alti nelle gerarchie celesti, degli altri loro numi? È la grammatica stessa a smentirla! Dove mancano singolare e plurale, come distinguere se Pase Kamui significa dio pesante, quindi possibilmente supremo, o dèi pesanti, quindi semplicemente numi di una classe superiore agli altri?”
Il reverendo, leggermente scosso da critiche tanto aperte a una delle sue pet theories (teorie beniamine), rispondeva citando casi di preghiere ainu nelle quali il termine Pase Kamui può intendersi, “va inteso”, come riferentesi a un nume unico e supremo. Dunque come nozione, offuscata da successivi sviluppi, da riallacciarsi alle fondamentali concezioni del monoteismo giudaico-cristiano-islamico.
I due saggi, i due maestri, partivano da punti di vista talmente lontani, così polarmente opposti, che sarebbe stato impossibile trovare un vero accordo tra di loro. A ogni modo, Clé li ascoltava incantato, perché in un certo senso incarnavano, tardi e in un’isola sperduta ai confini del Pacifico settentrionale, freddo e nebbioso, un grande dibattito europeo, e particolarmente britannico, del diciannovesimo secolo.
Il reverendo John Batchelor rappresentava, anche nella sua persona fisica, anche nella sua casa e in tutto ciò che lo circondava, l’Inghilterra di Gladstone, Disraeli, Cecil Rhodes, del generale Gordon, e di tanti altri Eminent Victorians (per usare la terminologia di Giles Lytton Strachey), insomma i costruttori dell’impero, gli assertori della Chiesa anglicana, i conservatori aperti alle più straordinarie novità, ma sempre fermamente ancorati alla loro isola e impegnati nel volerla ognora più potente, più ricca, dominatrice d’ogni angolo del mondo, quasi ciò rappresentasse l’esercizio d’un destino supremo voluto da un “pesantissimo” Iddio.
Il dottor Neil Gordon Munro incarnava un’Inghilterra (o meglio una Gran Bretagna) meno corrusca e superba, ma molto più universale, quella di Charles Darwin e Thomas Henry Huxley, quella di Lord Kevlin e quella di Herbert Spencer, di Robert Owen, una cultura che ha nutrito l’evoluzionismo e il socialismo, da cui sono discesi, in tempi più vicini a noi, George Bernard Shaw, Herbert George Wells e Bertrand Russell, nonché tanti altri esponenti della più alta cultura europea.
La discussione sugli dèi pesanti e leggeri, sull’uso del singolare e del plurale nelle lingue dell’Asia orientale, venne interrotta dall’ingresso in salotto di due carrelli spinti dalle donne di casa e provenienti dalla cucina; su di essi stavano una gigantesca teiera di porcellana a fiori rosaviola, rivestita da un “giubbotto” in lana verdastra (intessuta da Miss Andrews con le sue mani), molte tazze, piattini, cucchiaini eccetera, due o tre piatti con torte fatte in casa dall’aria squisita, più varie coppette per zuccheri, marmellate, latte, crema, per non citare una scatolina in argento e vetro per il burro, e un piattino con fette di limone disposte a ventaglio.
La grande cerimonia britannica del tè poteva dirsi iniziata.
“Do you prefer your tea with milk or with lemon?” chiese Miss Andrews a Pauline Lane... La padrona di casa versava e miscelava il tè, secondo i gusti espressi da ciascuno degli ospiti. Intanto Kiyoko porgeva in giro dolci, spicchi di torta, sottili fettine di vari pani (nero, marrone, bianco), e altri complementi del festoso rinfresco. Ciascun ospite scoprì d’avere a propria disposizione un minuscolo tavolino sul quale poggiare tazze e manicaretti. La conversazione si fece generale, e discese dalle altezze sublimi riguardanti il peso degli Enti Celesti, ai capricci sempre imprevedibili della meteorologia hokkaidiana.
“Vedrete,” diceva Pauline a Malachite, ma rivolta anche a Clé, “qui si conoscono due sole stagioni: agosto e inverno! Per dieci, undici mesi dell’anno fa freddo e spesso si gela, perché in teoria è primavera o autunno e le stufe non sono più, o non sono ancora accese, mentre fuori c’è ancora o c’è già la neve... Poi scoppia agosto, e fa caldo davvero, gli unici preparati sono i giapponesi, che vivono qui, e magari a Sakhalin, come si trovassero vicini ai tropici. Fino a poco tempo fa vedevamo appesi ai soffitti, anche dei grandi alberghi e degli uffici, le pale dei ventilatori elettrici, mentre mancava qualsiasi sistema serio di riscaldamento. Ora, per fortuna le cose stanno cambiando...”
Fuori intanto andava facendosi buio. Gli occhi, abituati gradualmente alla luce dorata delle lampadine elettriche, vedevano i rami degli alberi coperti di neve immersi in una strana luce violetta quasi sovrannaturale. Quando venne il momento dei ringraziamenti e dei saluti, il dottor Munro strinse con intensa cordialità la mano di Clé e gli disse: “Quando vuol venire a trovarci a Nibutani, sia da solo, sia con la signora, saremo felicissimi di ricevervi. È un villaggio un po’ primitivo e molto fuori mano, ma sono sicuro che vi piacerà. E poi conoscerete i miei Ainu del posto, gente semplice, ma capace di tanta vera cordialità, di tanto fedele affetto.”