5. A Nibutani, dal dottor Munro: i barbari cerimoniosi

Clé naturalmente prese molto a cuore l’invito del dottor Munro. A parte la simpatia e l’ammirazione che aveva subito provato per l’uomo, stava il fatto che adesso gli veniva data la possibilità di ampliare, nelle circostanze più favorevoli, le proprie frequentazioni degli Ainu.

Le relazioni umane tra, diciamo, etnologante ed etnologati, costituiscono un problema delicatissimo, spesso spinoso, che rischia d’influenzare positivamente o negativamente qualsiasi genere di ricerche. Chi si mette a studiare le abitudini delle cicale o dei babbuini ha pressoché solo problemi tecnici d’avvicinamento. Gli etologi diranno che non è vero, che anche le oche si offendono o s’innamorano. Ammesso, verissimo. Ma nel caso degli esseri umani la dimensione psicologica è smisuratamente più delicata e complessa. Chi è questo straniero? Cosa vuole da noi? Il buon nativo del luogo, specie se ha sofferto le intrusioni del potere coloniale, con i suoi rappresentanti spesso stupidi e/o rapaci, si scopre pieno di sospetti.

Clé, dopo il primo felice incontro con Ekashmatok a Shiraoi, era già ritornato due o tre volte sul posto. Si trattava d’una giterella che si poteva compiere andata e ritorno in una giornata. Una volta aveva trascorso la notte nell’abitazione di Ekashmatok, tanto per avere bene in corpo le sensazioni di chi viveva in quelle capanne. Per fortuna aveva portato il sacco a pelo (allora una rarità, comprato a Trieste da un artigiano che li fabbricava, un certo Mitis); con tutto ciò verso l’alba aveva battuto i denti dal gelo. Ekashmatok invece nulla: poco dopo l’alba, con il levar del sole, eccolo vispo come al solito, andare in giro scalzo nella neve! Clé approfittava delle visite per prendere appunti sulla struttura della casa, per fotografarla, e per scattare immagini di Ekashmatok e di altra gente anziana del villaggio.

“Vedi” spiegava Ekashmatok, che sembrava felicissimo di soddisfare ogni curiosità del giovane straniero (però le mance, anche sostanziose, le accettava con silenzio mafioso, al momento del commiato), “la parte ‘altissima’ della casa, nel senso religioso, è l’angolo nord-est, dove sta l’inau (bastone con manto di trucioli) di Chise-Koro-Kamui, il nume protettore della casa... Molto ‘alto’ è anche il rorun puyara, la santa finestra... Via via però che passi dal capo del focolare verso la porta d’ingresso, cominci a ‘scendere’ verso ‘il basso della casa’... Per questo gli ospiti e il padrone di casa stanno ‘in alto’, mentre le donne e i ragazzi hanno posto ‘in basso’, non lontano dalla porta. Anche il focolare ha i suoi alto e basso. L’alto, vicino al rorun puyara, è dove s’infilano nella cenere i piccoli inau di tipo speciale (detti Chiho-rokakep) dedicati a Fuchi Kamui, la madre protettrice della casa e della famiglia...”

Ekashmatok sciorinava volentieri dinanzi al visitatore le tante conoscenze che aveva del folclore ainu, trasmessegli quand’era fanciullo dai vecchi di casa. Indubbiamente era uno dei migliori conoscitori dell’intero patrimonio culturale della sua gente. Però aveva anche dei lati istrioneschi che lasciavano perplessi. Clé aveva osato chiedere al reverendo Batchelor cosa ne pensasse di Ekashmatok. “Oh, excellent!” aveva esclamato il vegliardo. Poi, con una di quelle sue risate da sileno: “But rather unreliable! (piuttosto inaffidabile)” aveva aggiunto. “Talvolta dà al visitatore le risposte che s’immagina gli facciano piacere...” Che l’avesse appagato riguardo agli dèi pesanti? Chissà!

Fu dunque con gran piacere e grandissima curiosità che Clé se ne partì da Sàpporo per Nibutani, un venerdì pomeriggio, con l’intenzione di trascorrere un fine settimana in casa del dottor Munro. Erano i primi di febbraio, l’Hokkaido era sprofondato nell’inverno, coperto di tantissima neve. Al solito, lasciata Sàpporo, via via che il treno si avvicinava a Tomakomai, il cielo andò schiarendosi, e il manto di neve andò diminuendo. Questa volta non ci fu cambio di treno a Tomakomai, bensì si procedette lungo la costa sud dell’isola verso Mombetsu. Clé osservava dal finestrino del suo vagone la costa sterminata, quasi sempre sabbiosa, per lo più deserta, solitaria, sulla quale si rovesciavano con bagliori controluce le onde lunghe del Pacifico.

Poco prima aveva letto Alone with the Hairy Ainu, il libro di un viaggiatore inglese, Henry Savage Landor, molto discusso, che aveva visitato l’Hokkaido nel 1893. A quei tempi c’erano ancora pochissime ferrovie sull’isola, e Savage Landor ne aveva fatto il circuito, in gran parte lungo le coste, da solo, a piedi con un cavallo su cui aveva caricato i pochi bagagli.

Il libro era illustrato da disegnini curiosamente modesti, eppure misteriosamente evocatori in modo straordinario della realtà. Clé sentiva di averle già vissute quelle coste erme e infinite, interrotte di quando in quando da un capo petroso con cespugli che parevano ciuffi di capelli. A rari intervalli si vedeva una capanna dal profilo ainu, o una barca tirata in secco, e in cielo roteavano gracchiando dozzine di corvi d’un nero funereo. Era un paesaggio malinconico, ma d’un fascino sibillino che penetrava fino al fondo dell’animo. Clé provava un’invidia senza limiti per quel tale che quarantasei anni prima aveva potuto percorrere, libero come il vento, un Hokkaido quasi intatto, vicino alla sua natura primordiale, eterna.

A Mombetsu Clé lasciò il treno vero, per salire su di un trenino a scartamento ridotto che lo avrebbe portato a Piràtori. Il sole andava calando dietro uno di quei caratteristici capi della costa. La luna andava sorgendo a levante. Quando il trenino giunse a Piràtori era già notte fonda.

Un po’ per gioco, un po’ per eccesso di prudenza, Clé s’era portato gli sci. Uscito dalla stazioncina del paese, il ragazzo calzò le sue spatole di legno e s’avviò, sotto una lunona immensa che inondava la campagna nevosa di luce argentea, verso Nibutani.

Si trattava di un percorso pressoché pianeggiante d’una decina di chilometri. L’aria era gelida, ma Clé, bene equipaggiato, non aveva per niente freddo: il passo ambio sulla neve farinosa ai bordi della strada (al centro le ruote di autobus e camion passando avevano reso la superficie gelata e per di più avevano smosso e scoperto dei sassi), dava al giovane una sorta d’ebbrezza, resa ancora più intensa dalla solitudine della valle, fiancheggiata da basse, ripide colline coronate di boschi stecchiti. Un paesaggio insolito, d’un altro pianeta!

Dopo una breve, ma non ripida, salita, Clé notò le prime fioche luci di alcune case. “Ecco Nibutani” pensò. Non si vedeva anima viva in giro. Saranno state le nove, ora già da notte profonda in quelle remote campagne. Per fortuna, entrando in paese, Clé incrociò un vecchio con un carico di frasche sulle spalle. “Dove si trova la casa di Munro-sensei? (del dottor Munro)” L’anziano indicò con la mano una doppia fila di larici, oltre la quale s’indovinava un chiarore. “Da quella parte,” fece l’anziano il quale, lo si capiva chiaramente, non si era mai imbattuto in un essere umano con degli sci ai piedi. “Da dove viene?” chiese incuriosito. Clé gli disse: “Da Piràtori.” “Con quelle palanche ci avrà messo dieci minuti!” esclamò l’ometto. E restò deluso quando Clé gli spiegò che ci era venuto di buon passo, ma che c’era voluta oltre un’ora.

Il viale di larici aveva una certa dignità d’ingresso simile a una villa. Era lungo duecento metri, percorsi i quali Clé si trovò dinanzi alla casa del dottore. Toltisi gli sci, bussò.

Arà,” gridò la moglie del dottore sporgendosi e riconoscendo Clé. “Konna osoi jikan de Nibutani made kimashita! (a quest’ora tarda è venuto fino a Nibutani!). Neil-san, Neil-san...” chiamò rivolgendosi verso l’interno, “our Italian friend came! All alone in the night...” Il dottore scese dal piano di sopra di corsa e uscì ad abbracciare Clé: “Ero sicuro che saresti arrivato presto, con la luna, la neve, la notte, sugli sci! Benvenuto! Sei stanco, vuoi mangiare?”

“No, no, sto benissimo,” assicurava Clé. “Ho mangiato un bel tendon a Piràtori, poi una corsetta sulla neve, che vuole che sia?”

Clé si tolse gli scarponi ed entrò in casa (pantofole pronte sulla soglia, all’uso giapponese). Il dottore lo condusse nello studio, una grande stanza in un edificio distinto dalla casa, al quale si accedeva lungo un breve corridoio, e i due si sedettero comodamente su delle poltrone vicino a una semplicissima stufa in ferro, dove bruciava della legna, spandendo calore e un incantevole profumo di resina. La signora Munro aveva seguito i due uomini, insistendo perché Clé prendesse qualcosa.

“Almeno un bel tè caldo con latte e briosce, Chiyoko le ha fatte stamattina, sentirai come sono squisite, par d’essere a Parigi! Oppure vuoi un caffè? Eh già, a voi italiani il tè sembra insipido, vero?” Dopo un po’ d’incertezze fu deciso per il tè con il latte e con il miele, per Clé andava benissimo. Oltre alle famose briosce...

Il dottore e Clé rimasero per un’oretta almeno nello studio, d’una semplicità più che francescana, eppure simpaticamente accogliente. Gran parte delle pareti erano occupate da scaffali colmi di libri. In un angolo stava un alto grammofono – ancora una volta assai simile a quello di zio Miscia al villino di Roma, e di Hermann Hecker a Sàpporo! Munro disse subito che era un patito di Mozart e che aveva moltissime delle sue opere, sui soliti disconi lenti e pesantissimi del tempo. “Certo, Beethoven è ineguagliabile, ma per me he’s too emotional! Mi sconvolge. Mozart è la serenità, la pace... È la notte con la luna e la neve, come quella che devi aver traversato tu poco fa per venire qui!”

Clé provava una delizia indicibile a respirare quest’aria di finezza, di cultura, a conclusione del suo tragitto attraverso metà dell’Hokkaido, terminato tra le colline di forme bislacche, coronate di alberi irrigiditi e quasi irreali. Presto arrivò il tè con il latte e con il miele su un vassoio portato dalla signora Chiyoko, insieme alle famose briosce, veramente croccanti, indistinguibili dalle migliori che si potrebbero trovare la mattina a Saint Germain-des-Près. Un po’ più tardi Clé venne condotto nella sua stanza, anch’essa riscaldata con un sistema ingegnoso di tubi che facevano capo a una stufona centrale, del tipo pietchka.

La mattina dopo (con il tempo sempre splendido) Clé si svegliò con un trambusto di passi e di voci che proveniva da qualche parte al piano di sotto. Alzatosi scoprì che si trattava di numerosi pazienti ainu venuti a farsi visitare, e che stavano mettendosi ordinatamente a sedere in una stanza vicino all’ingresso, su cui poi dava la porta del secondo studio di Munro, quello medico. Clé venne a sapere ben presto da uno degli Ainu stessi che quell’assistenza era del tutto gratuita, e che anche le medicine spesso venivano fornite ai pazienti senza chiedere loro alcun rimborso.

Verso le dieci, quando le visite furono terminate, il dottore propose a Clé di fare due passi in paese. “Paese” era veramente un termine un po’ ampolloso per una fila di venti o trenta capanne, quasi tutte del tipo tradizionale ainu, distribuite lungo un breve pianoro tra il fiume Sani e alcune delle colline “con gli alberi stecchiti”; si trattava, nel senso più proprio del termine, d’un villaggio.

“Vi abitano circa quattrocento persone,” spiegò Munro, aspirando fumo dalla sua pipa e lasciando dietro di sé una nuvoletta azzurra. “Alcuni più poveri, altri meno, ma tutti onesti lavoratori. Eh, lì sta il mio nemico!” Così dicendo il dottore puntò con il bastone dal pomo d’avorio verso una casona bassa, scura, di legno, sulla quale spiccava un’insegna con vistosi ideogrammi tracciati alla brava, in nero, con un grossissimo pennello. “Già, lui vorrebbe farsi ricco vendendo sakè agli uomini ainu, anziani e giovani, e mi odia perché io riesco a persuaderli che bere significa rovinarsi la salute e la borsa. Be’, andiamo dal mio amico Kunimatsu, vedrai che persona di autentico valore. Non pensi che si possa essere un semplice contadino, e contadino ainu per di più, e rivelarsi squisito gentiluomo?”

Il dottore si fermò dinanzi a una casa come le altre, un po’ meno teatralmente ainu di quella di Ekashmatok, a Shiraoi. La porta, laggiù semplicemente chiusa da una tendina, era stata sostituita qui da una porta scorrevole di legno, con due vetri in alto, alla giapponese. Piccolo adattamento che però tratteneva bene parecchio calore all’interno. Il dottore bussò e venne ad aprire un’anziana donna ainu, con il vistoso tatuaggio intorno alla bocca e tatuaggi assai evidenti sul dorso delle mani e sugli avambracci.

“Entrate, entrate vi prego!” fece la donna (che era poi la madre del padrone di casa) piegandosi ripetutamente in inchini. “Kunimatsu è andato a prendere della legna, tornerà subito...”

Toltesi le scarpe, i due stranieri entrarono nella casa e andarono a sedersi vicino al focolare, un po’ più “in basso” del posto riservato agli ospiti, in modo che Kunimatsu, arrivando, potesse invitarli “a salire”. “Finezze etnologiche da maestro!” pensò Clé, prendendo mentalmente nota.

La casa di Kunimatsu seguiva nell’insieme i canoni dell’architettura ainu (che Clé ormai aveva imparato a conoscere), ma era un po’ più comoda, meno rigida nel rispetto delle tradizioni, più umana, di quella visitata a Shiraoi. Anni dopo Clé venne a sapere che Ekashmatok teneva la sua dimora in ordine perfetto per mostrarla ai visitatori, ma che in realtà dormiva quasi sempre insieme ai suoi in una baracchina alla giapponese, ben chiusa e con stufa, nascosta dietro una siepe! Qualche volta se un visitatore chiedeva di dormire nella “capanna”, Ekashmatok faceva buon viso a cattivo gioco, adagiandosi anche lui sul tradizionale giaciglio.

Kunimatsu aveva saggiamente chiuso con un vetro perfino il rorun puyara, la santa finestra. Per il resto aveva tutti gli inau canonici ai loro posti stabiliti, e poteva inoltre vantarsi di possedere una bella fila di recipienti giapponesi laccati di qualità, ereditati dagli avi.

Si udì un suono di passi sulla neve scricchiolante, poi il tonfo sonoro di un carico di legna lasciata cadere a terra; dopo di che, Kunimatsu entrò in casa.

Si liberò delle scarpe e venne subito, già mezzo piegato in una sorta d’inchino ambulante, avanzando osorù-osorù (pauron-pauroni), a occupare il suo posto da padrone di casa e a salutare gli ospiti. Per prima cosa (come aveva giustamente previsto il dottore) fece cenno ai due di “salire” nella direzione onorifica dello spazio domestico e di accucciarsi all’angolo nord-est del focolare. Munro presentò Clé nel modo più simpatico, come fosse già un suo discepolo, e Kunimatsu rispose che sarebbe stato felicissimo di aiutarlo nelle sue ricerche, qualsiasi esse fossero. Munro parlava fluentemente il giapponese, sempre però con il caratteristico accento anglosassone: siccome le vocali italiane e giapponesi sono pressoché uguali, era come se dicesse: “Questow giowvane amicow vieney dall’Italiah...” e avanti così.

Anche Munro era d’accordo che mettersi a imparare l’ainu come lingua d’uso, a questa tardissima data, era pressoché inutile: “Ormai sta sparendo, morendo.” Kunimatsu stesso, che scambiava delle frasi d’un livello del tutto domestico con la madre in ainu, diceva di sentirsi molto più a suo agio conversando in giapponese. Era una situazione triste, ma riscontrabile letteralmente in centinaia di casi in ogni continente. Quando i portatori di una lingua si riducono a poche migliaia occorrono sforzi continui, e l’aiuto della scuola, per mantenere la favella in vita.

Senza contare il problema perpetuo dei neologismi. Clé ricordava una gita in Corsica e conversazioni con paesani dell’isola che parlavano un ottimo italiano (guai a chiamarlo tale! “È le dialecte corse, signori!”). Quando però inciampavano in un neologismo subentrava per forza il francese: “Mio figlio ha preso l’avione ed è andato a Parigi...” Come chiamare treno, automobile, luce elettrica, economia, iniezione, in ainu? Ci si trova di fronte a un’impresa impossibile. Quale autorità stabilirebbe, nel caso, i neologismi? Non resta che inserire il termine giapponese nella frase fondamentalmente ainu. Del resto il fenomeno ha luogo anche in italiano con i suoi sport, gap, leasing... e siamo in cinquantasei milioni a parlarlo!

Kunimatsu, che aveva una quarantina d’anni, oltre a presentarsi con l’espressione in volto d’un uomo retto, intelligente, volenteroso, quale l’aveva descritto il dottore, poteva dirsi, con termine un po’ giornalistico, “uno splendido esemplare della sua razza”. Peccato davvero che si fosse deciso, già da lungo tempo, a tagliarsi i capelli e a radersi la barba, ambedue, quando lasciati al loro stato naturale, ambitissimi complementi culturali della virilità ainu. I tratti un po’ scavati del volto, gli occhi privi della plica mongolica, la forte pelosità corporea, rilevabile sul collo, sulle mani, le dita, le braccia, le caviglie, ora che entrando al caldo si era alleggerito delle sopravvesti, presentavano agli occhi di Clé alcune di quelle caratteristiche che hanno convinto tanti studiosi occidentali e giapponesi a classificare gli Ainu come appartenenti a un sottogruppo arcaico, isolato, della grande famiglia umana europoide. La terminologia tassonomica può variare da autore ad autore, ma il senso fondamentale resta lo stesso.

* * *

Tornati a casa, il dottore e Clé si recarono nello studio-biblioteca (dove si godeva un accogliente calduccio profumato di pino, dei rami che ardevano nella stufona di ghisa) e si posero a sedere su due poltrone vecchiotte, ma comodissime. Clé notò sul tavolo il testo, rilegato nella sua caratteristica tela di color cobalto, della Antropologia (Anthropology) di A.L. Kroeber, uno dei più noti discepoli del grande Franz Boas.

“Dottore,” esclamo Clé, “sa che Kroeber è stato il mio pane durante gli anni universitari? Mi fa piacere vederlo tra i suoi libri.”

“Sei stato fortunato,” commentò il dottore. “Allora in Italia insegnano bene l’antropologia.”

Clé spiegò al dottor Munro che la situazione italiana del momento era ben diversa: tra Croce, Gentile, l’idealismo imperante, e per altri versi il fascismo, si stava invece malissimo in quanto ad antropologia culturale. Il testo del Kroeber, Clé se l’era fatto venire dal famoso libraio Blackwell di Oxford... Intanto Clé notò, aperto sul tavolo, un altro grosso tomo, questo dalla rilegatura color verdolino: The Native Tribes of the Northern Territory of Australia, di Baldwin Spencer, un testo del 1914.

“S’interessa anche degli aborigeni australiani?” chiese Clé incuriosito.

“Sì, li trovo affascinanti... È straordinario,” continuò il dottore, “come certi popoli dichiarati primitivi, non solo dai loro colonizzatori, ma obiettivamente tali per la loro cultura che conosce solo le tecniche più elementari di sopravvivenza, abbiano poi sviluppato dei codici d’organizzazione sociale complicatissimi, delle regole di comportamento liturgico e para-religioso di straordinaria complessità, di quasi incredibili risonanze e simbolismi, che poi gli anziani conoscono a memoria in ogni più minuto particolare.

“Dirai: non hanno altro da fare! Sì, forse è vero: suppliscono alla mancanza di tecniche e d’artigianato, all’assenza dell’idea stessa di lavoro, con una prodigiosa, quasi barocca, fioritura di comportamenti nutriti dalla religione, dalla mitologia, dalla loro storia immaginaria, dal loro senso artistico. Leggevo appunto Spencer... Gli australiani da lui studiati con tanta attenzione, e si può dire con tanto amore, vivono o vivevano completamente nudi (dunque niente perdita di tempo per produrre fili, per tesserli, oppure per conciare pelli), praticamente non hanno o non avevano case, ma solo dei ripari temporanei di frasche, si cibavano di frutti e vegetali raccolti, d’animali e di pesci cacciati o pescati... Insomma hanno ridotto i bisogni della sussistenza al minimo assoluto. Ma poi, che incredibile complessità di riti, soprattutto per quanto riguarda i passaggi da uno stadio fondamentale dell’esistenza al successivo! Leggevo per esempio dei riti d’iniziazione all’età adulta dei giovani Minugatai...”

“Ha mai osservato, dottore, qualche punto di somiglianza con gli Ainu?”

“No, in senso specifico no. Ma in un senso generale sì... Cioè anche la cultura ainu è piuttosto povera sul piano tecnico. Per esempio hanno dimenticato da secoli la produzione della ceramica, provvedendosi di recipienti, vasi, bottiglie e quant’altro dai giapponesi, contro scambi in natura (pelli d’orso, penne di rapaci per le frecce, pesce secco, alghe secche e simili), e non hanno, si direbbe, mai sviluppato una loro metallurgia, per similissime ragioni. Non valeva la pena aguzzare l’ingegno, e lavorare chissà quanto, per forgiare una scure, quando i mercanti giapponesi te ne potevano fornire una, due, dieci, anche se a caro prezzo...

“La casa sì, ed è molto ben fatta, quella ce l’hanno sempre avuta. E anche belle vesti e un artigianato ingegnosissimo per quanto riguarda il legno. Ma in complesso la loro cultura materiale è sempre stata scarsa. In quanto al sostentamento, tra raccolti, caccia e pesca, fino al 1870 o giù di lì, avevano tutto. È vero che si trattava d’uno sfruttamento di gran lusso del territorio. Un chilometro quadro e più per abitante...

“D’altra parte, caro mio, che straordinaria dovizia di cerimonie sociali, di liturgia religiosa, di attività sacrali! Qui sì che si presentano delle somiglianze con gli australiani... Qualche settimana fa, una casa tra Nibutani e Penakorè ha preso fuoco. Uomini, donne, bambini si sono salvati e sono stati posti in salvo anche i ‘tesori di famiglia’, le antiche spade giapponesi, i bellissimi recipienti laccati in nero e decorati in oro ottenuti anticamente dagli shame, dai giapponesi... Che vuoi, in fondo sono capanne di legno e d’erbe palustri, non hanno neppure le fondamenta di muratura, dunque bruciano come fascine di frasche secche.

“A ogni modo, due o tre giorni dopo, un buon centinaio di persone, radunatesi a Nibutani, si sono recate in processione al luogo del disastro, presso Penakorè, dove sorgeva la casa distrutta, per porgere alla famiglia le loro condoglianze. Tutti erano vestiti con gli attush ornati da cerimonia. Gli uomini tenevano in mano una delle loro antiche spade, con la quale davano dei gran fendenti in aria a destra e a manca, gridando: ‘Eh ya, eh ya!’ Era una sorta di purificazione, di rito apotropaico, per tener lontani i Wen-Kamui, gli dèi cattivi e perversi, gli spiriti che portano male agli esseri umani. Eh già, erano ritenuti responsabili dell’incendio!

“Ora ci si sta già preparando per ricostruire la casa. Ci vorranno un paio di mesi, perché tutto sia a posto come prima. Ogni momento dell’operazione, che da noi sarebbe opera dell’architetto, dell’ingegnere, del capomastro, è qui preceduto e accompagnato da apposite preghiere, da apposite offerte ai vari Kamui della casa. E come se la costruzione non fosse solo opera umana, ma lavoro collettivo di moltissimi Kamui, la cui collaborazione è assolutamente necessaria per condurre tutto a buon fine.

“Domattina, o domani l’altro, fatti portare da Kunimatsu sul posto, vedrai che gli uomini e le donne della famiglia colpita, e altri del villaggio, saranno all’opera.”

* * *

La sera arrivò, a casa Munro, una telefonata per Clé da Sàpporo. Chi c’era all’altra estremità del filo? L’amico Richard (Dick) di Otaru!

“Mi trovo qui a Sàpporo,” diceva, “e ho qualche giorno libero. Mi piacerebbe venirti a trovare, vedere un po’ com’è questo famoso Hidaka, gli Ainu... Chissà se il dottor Munro gradirebbe una mia visita? Ne ho tanto sentito parlare! Forse potresti trovarmi da dormire da qualche parte nel villaggio. Lo sai bene che sono abituato alle attrezzature giapponesi di campagna!”

Clé espose subito il caso al dottore, che fu entusiasta dell’idea.

“Ma sì, digli che venga senz’altro! Macché locanda. Può stare da noi. Nella stanza degli ospiti ci sono due letti, se tu non hai obiezioni, potete stare comodamente insieme...”

Clé riferì quanto sopra a Dick; e la mattina dopo, verso le undici, eccotelo arrivare a Nibutani, roseo, paffuto e con il morale altissimo, dentro uno scatolone di legno, sopra una slitta a cavallo, guidata da un Ainu del villaggio.

This is my friend, Richard Storry” disse Clé presentando il suo amico al dottore, che gli strinse cordialmente la mano. “And you are Doctor Munro, I presume!” esclamò ridendo il giovane otariota, parafrasando la celebre frase pronunciata in Africa dall’esploratore Stanley, un secolo prima incontrando Livingstone.

Ormai s’era fatta l’ora di colazione e tutti, parlando allegramente, guidati dalla signora Chiyoko, si avviarono verso la saletta da pranzo.

* * *

Durante il pomeriggio, nonostante il freddo e la neve che avevano portato delle improvvise nuvole basse e nere, Clé condusse l’amico inglese da Kunimatsu, e poi tutti insieme passarono a visitare alcune capanne ainu. I padroni, gli ekashi, erano fuori, chi a tagliare legna nei boschi, chi lungo il fiume a tentare un po’ di pesca, e chi era dovuto discendere a Piràtori per qualche esigenza amministrativa, ma le donne erano a casa e accolsero gli ospiti stranieri con grande cordialità in quanto “amici e discepoli del sensei, del dottore”.

Dick non aveva particolari interessi d’etnologo, ma con la sua istintiva e sempre sveglia umanità, trovava facilmente qualche spunto di conversazione. La gente, qualsiasi tipo di gente, dovunque e sempre, lo interessava. “Meravigliosa virtù!” pensava spesso Clé con una vena d’invidia. Clé era più selettivo; se qualcuno toccava certe corde del cuore o della mente, andava benissimo, ma con molti gli veniva proprio difficile istituire un legame.

“Sapete che alcune capanne vostre somigliano assai a quelle che si trovano anche in Inghilterra? Da noi è considerata una finezza elegante avere un tetto di paglia (a thatched roof)!” Dick stava rispondendo a una sposa, padrona di casa, con un ampio e quasi spettacolare tatuaggio azzurro intorno alla bocca, che gli chiedeva scusa per “questa casuccia miserabile e scomoda”, offrendo a lui e a Clé due coppe laccate colme di tè.

Poco dopo per la strada di Nibutani incontrarono un ekashi di nome Shirabeno il quale salutò con un profondo inchino la piccola comitiva che lo incrociava.

“Ma è incredibile,” esclamò Dick, “come certi Ainu somiglino a Tolstoj! Sei sicuro che non siano degli antichi russi transfughi da queste remote parti del mondo? Che non siano i discendenti degli ‘eretici’ ai tempi del monaco Nikon? Io ci farei un pensierino! Oppure Tolstoj era discendente d’un principe ainu fuggiasco in Occidente? Se mi dici che questi vecchi potevano tenere in testa ben diciassettemila versi e più, vedi che sussiste perfino un ponte letterario tra i due mondi...”

Tornati a casa, Dick e Clé furono felici di riaversi dal freddo tuffandosi nel bagno caldissimo di casa Munro. La villa del dottore era munita d’un caratteristico sistema di quei tempi: non un primitivo bagno a paiolo come Clè aveva visto altrove, ma il più civile “tino da bagno”, entro il quale era situata ingegnosamente una stufetta per legni leggeri, in ghisa, che produceva, dopo una mezz’oretta, un pieno d’acqua caldissima, con gradevoli profumi di resina, emanati sia dai tronchetti bruciati, sia dalle doghe stesse del “tino”.

Durante la cena s’istituì spontaneamente un’atmosfera simpaticissima di cultura europea, che si prolungò anche dopo, quando la compagnia si spostò nello studio, dove la grande stufa di ferro, ruggendo, gonfia di ciocchi d’abete, spandeva in giro un calorino più che benvenuto.

Come mai la conversazione era andata a finire su Rousseau? Difficile a dirsi, ma le conversazioni hanno i loro meandri curiosi e impredicibili...

“Certo,” osservò Dick rivolgendosi al dottore, “per un bravo scozzese come lei, dev’essere difficile non prendere le parti del grande filosofo David Hume, che ospitò Rousseau fuggiasco da Parigi nella sua casa di Wootton, ma poi lo trovò insopportabile, non poté reggere alla sua mania di persecuzione, e finì per rompere del tutto l’amicizia iniziatasi così bene in Francia...”

“Be’, effettivamente,” rispose il dottore, “confesso che mi riesce molto difficile provare simpatia per Rousseau... Capisce Richard, noi scozzesi siamo troppo abituati al pensiero razionale, pulito, trasparente di David Hume, di cui vedete lì su quello scaffale le opere complete. Me le sono portate fin quassù. Per me sono quasi una Bibbia dell’Illuminismo, del pensiero scientifico, pensiero che oggi pervade il mondo del sapere.”

“D’altra parte che documento vivace, sincero, sui suoi tempi!” osservò Clé il quale per l’appunto aveva letto di recente, un poco alla volta, nelle lunghe serate di Sàpporo, le Confessioni. “In certi capitoli debbo dire m’incanta... Il suo amore per la natura, o per i viaggi a piedi, il suo fragrante deismo. D’altra parte sembra impossibile che siano passati appena duecento anni da quando ‘un gentiluomo con spadino non poteva moralmente andare a comprare del pane’, oppure da quando a Berna, cambiare religione era un delitto passibile della pena capitale, o ancora da quando, a Venezia, una madre poteva vendere una figlia di undici-dodici anni per usi sessuali. È la continua, prorompente umanità dell’autore, e della folla di personaggi che lo circondano che ti fa proseguire imperterrito nelle Confessioni.”

“È indubbiamente vero,” ribatté il dottore, “ma non bisogna dimenticare che Rousseau è colui che lancia il Romanticismo e il culto dell’irrazionale, che fa delle emozioni, e non della ragione, la sorgente d’ogni vero, e quindi d’ogni azione, con i disastri terribili che possiamo seguire sotto i nostri occhi. In ultima analisi anche il vostro Mussolini, e senz’altro l’odioso Hitler, sono in qualche modo debitori di Rousseau...”

“Mentre Churchill e Roosevelt possono piuttosto collegarsi a Locke, no?” commentava Dick, il quale a Oxford aveva compiuto uno studio particolare del pensiero settecentesco inglese.

“Ma che ne pensi, Dick,” chiese Clé, “della situazione in Asia orientale? È possibile trovare anche qui dei fili che riconducano alla radice Rousseau?”

Dick, lo si sapeva da tempo, era molto interessato al nazionalismo estremo dei giapponesi. Non per nulla nel 1954, dopo un’esperienza diretta di guerra contro i nipponici sui fronti dell’Assam e della Birmania, avrebbe scritto un testo molto applaudito, The Double Patriots (I super-patrioti).

“Influenza diretta, per me nessuna,” rispose Dick. “Il Giappone è un universo a sé stante con radici, tronchi e fronde che gli sono propri. I presupposti della lievitazione di super-militarismo e frenesia patriottica d’oggi sono chiarissimi, un po’ nella geopolitica regionale, nell’isolamento assoluto del loro arcipelago, che li ha protetti nei millenni da ogni invasione straniera, e un po’ di più nelle opere dei maggiori Kokugakusha (gli studiosi nazionali) del Settecento e del primo Ottocento.”

“Stranamente contemporanei di Rousseau!” esclamò il dottore ridendo. “Che ci sia una sorta di piano occulto negli eventi della storia mondiale?”

“Bah!” continuò Dick. “Non ci scommetterei. I veri responsabili sono Kamo Mabuchi, Motoori Norinaga, Hirata Atsutane e magari Aizawa Seishizai, che glorificarono in tutto e per tutto, e spesso con gli argomenti più strani, il Giappone. Naturalmente per tutti stava in primo piano la discendenza divina, dalla dea solare Amaterasu, del lignaggio imperiale, nonché del popolo giapponese nel suo complesso.”

“Dunque il fenomeno è da considerarsi isolano e isolato, conseguenza soltanto di sue premesse interne?” chiese un po’ contrariato il dottor Munro.

“No, forse in questi ultimi anni,” rispose pensoso Dick, “le cose non sono così chiare e così semplici... Mi pare che vada senz’altro ammessa una pessima influenza della politica tedesca, nazista, sulla pratica della politica estera giapponese.Voglio dire: lo spirito del Japan über alles è cosa millenaria, ma fino a qualche anno fa si procedeva con una certa cautela... Il mondo stava a guardare! Poi, fatti come l’annessione dell’Austria, o quella dei Sudeti, sono certo stati una chiarissima lezione dimostrativa ‘di come si risolvono i problemi senza essere trattenuti dai pregiudizi’.”

“Si possono anche ricordare certi altri fatti,” interruppe Clé. “Per esempio durante la guerra russo-giapponese (1904 e 1905) la condotta dei militari nipponici fu, ci dicono i documenti dell’epoca, generalmente esemplare. Anche i prigionieri russi furono trattati in modo veramente umano. I giapponesi attendevano con viva apprensione i giudizi internazionali. Il mondo era ancora regolato da un certo tono di cavalleria, anche nei peggiori frangenti... Ma dai primi anni trenta in poi, con il pessimo esempio dei tedeschi, i giapponesi non si sentirono più giudicati da un ‘mondo civile’. Se i nazisti sfidavano tutto e tutti, perché non fare altrettanto? Donde, per esempio, gli orrori di Nanchino di due o tre anni fa...”

Alla menzione di Nanchino, l’anziano dottore fece sss! con le labbra, portandosi un dito dinanzi alla bocca. “Walls have ears!” sussurrò poi sorridendo un po’ acidamente. Esempio caratteristico dello stato d’animo in cui si viveva in quei lugubri tempi. E meno male che le diavolerie acustiche di più tarda età non erano state neppure inventate!

“Inoltre non dimentichiamo la legislazione razziale e le persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari e gli indesiderabili in genere,” concluse Dick. “I nostri cari amici shamo hanno imparato prestissimo. Speriamo che non continuino a impazzire in modi ancora peggiori. La mia ambasciata m’ha già suggerito più volte di fare le valigie e tornare in Inghilterra. Ma per ora sto felicemente quassù in Hokkaido.”

“Be’, io vi guardo quasi dall’altra sponda!” esclamò con un sorriso indecifrabile l’anziano dottore. “Come sapete, da qualche anno ho preso la cittadinanza giapponese. Ho fatto un passo giusto o falso? Onestamente, non so cosa dire. Speravo che la cosa avesse degli effetti positivi, che fosse una dimostrazione di amore, di completa sincerità, di dedizione al Paese e al popolo che frequento da tanti anni, e che amo... Ma temo che non sia così, come avvenne al famoso scrittore americano del secolo scorso Lafcadio Hearn, quando diventò Izumo Yakumo, e finì poi con il pentirsi della sua decisione. Le tasse sono aumentate. Gli occhi dei poliziotti mi sono sempre addosso, esattamente come lo sono addosso a voi... Soltanto i miei cari Ainu li sento fraternamente vicini!”

“E dev’essere ‘a most rewarding feeling’, una ‘sensazione davvero consolante’,” osservò Dick con le lacrime agli occhi.

* * *

Durante la notte aveva nevicato, ma solo una spruzzatina di pochi centimetri. La mattina era radiosa, un cielo del tutto pulito, nuovo, in cui dominava un sole in splendida fiammata d’oro. Data la temperatura assai bassa dell’aria, la neve nuova della notte era ancora farinosissima, fiocchi e batuffoli della magica sostanza illuminati dal sole cadevano in perfetto silenzio dai rami dei larici disposti a viale dinanzi alla casa del dottor Munro. Dick e Clé si alzarono verso le sette: Dick per tornare a Piràtori e poi a Sàpporo, Clè per recarsi da Kunimatsu. Intanto una fila di malati si stava avviando verso lo studio del dottor Munro.

Kunimatsu, già avvertito dal dottore, stava seduto in casa vicino al focolare, in attesa di Clé.

“Buon giorno, signor Ramon,” fece l’uomo, “vuole andare a Penakorè, per vedere come si costruisce una delle nostre case, vero?”

“Esattamente, Kunimatsu-san.” Clé stava attentissimo ad aggiungere il suffisso giapponese -san, segno di grande rispetto per tutti, uomini, donne, giovani e vecchi, perché l’ekashi ainu non avesse la minima impressione di subire una discriminazione etnica. Clé aveva ormai capito, anche in seguito a certi accenni del dottore, quanto fossero diventati sensibili gli Ainu su questo punto.

Del resto talvolta avvenivano degli strani sommovimenti nel terreno dei rapporti umani, e Clé aveva la netta sensazione d’una vicinanza speciale, d’una, per così dire, connivenza ainu-gaijin, insomma d’un corto circuito tra aborigeni del Nord e “uomini di fuori”, forestieri, contrapposti al mare degli shamo, dei giapponesi.

Dopo un breve saluto, Kunimatsu e Clé si avviarono lungo la mulattiera nevosa che segnava la via principale, diciamo “il corso”, tra le due file di case che costituivano il villaggio di Nibutani... Ennesimo caso dei nomi trascritti a capocchia: Nieptani, secondo John Batchelor, era termine ainu che indicava “una piattaforma di legno costruita nella foresta, sulla quale i cacciatori lasciavano le carni macellate di orsi o di cervi che non riuscivano, per il peso, a portare subito a casa”. Bene, la trascrizione ideografica giapponese come ti maciulla il nome? In un certo senso lo spiritualizza, lo poetizza, perché diventa “la Valle dei Due Venti”!

“Lo sa, signor Ramon,” raccontava Kunimatsu camminando, “che la prima casa ainu scese dal cielo con la dea del fuoco, Fuchi Kamui? Anzi in questo caso non si parla tanto di Fuchi Kamui, ma piuttosto di Iresu Kamui, espressione di gran rispetto e affetto che vuoi dire “madre divina che ci ha allevato, nutrito; maestra che ci ha insegnato ogni cosa”. Di fronte a Fuchi Kamui, specialmente quando la chiamiamo Iresu Kamui, ci sentiamo come bambini piccoli e impotenti nelle mani d’una madre che provvede generosamente (ma anche con qualche severità!) a tutto...”

Clé si ricordò qui un punto molto interessante rilevato dal dottor Munro la sera prima mentre conversava, cioè che il termine usato in questo caso particolare per casa, tumbu, può anche significare “utero”. Tutto un programma endocosmico dunque! Casa, utero, grande madre, fuoco, riparo che scende dal cielo per gli uomini... E “ainu” non significa “essere umano”, “persona”? Peccato che l’italiano sia spesso così povero, e non offra la distinzione tedesca tra Mensch e Mann: “ainu” sarebbe anche Mann, ma soprattutto Mensch.

“Per voi, se non sbaglio,” continuò Kunimatsu, “la casa è una cosa. Per noi è piuttosto una chiesa... Sacerdoti non ne abbiamo mai avuti... Ogni padrone di casa è sacerdote della sua casa-cappella. L’edificio è tutto impregnato di sacro, è abitazione di uomini, sì, ma anche di numerosi Kamui. C’è chi la considera un essere vivente, con una sua coscienza e una sua personalità.

“Del resto ogni angolo della casa ha i suoi inau, sa quei bastoni sacri ornati di trucioli, che rappresentano un Kamui, maschio o femmina che sia. Ha visto casa mia, vero? Be’ un po’ mi sono trasformato, si sa i nuovi agi ci vogliono, no? Ho la porta che chiude bene, ho il tavolato di legno che tiene lontano l’umido, ho anche chiuso la finestra sacra, quando occorre si può sempre aprire... Del resto il signor dottore Munro mi ha detto: ‘Se non vuoi morire di polmonite, riparati bene dagli spifferi.’

“Tutti gli inau importanti sono però al loro posto. Nell’angolo nord-est sta quello grosso e solido di Chise-Koro-Kamui, il padre, il protettore maschio della casa e marito di Fuchi Kamui, regina del focolare. I due Kamui costituiscono il cuore, il polso della casa...

“E fuori, a levante, sta il nusa, l’altare esterno, una sorta di palizzata con bastoni alti quasi due metri sui quali restano fissati gli inau di Shiramba-Kamui (il nume degli alberi e della vegetazione), di Wakka-ush-Kamui (il dio dell’acqua, delle sorgenti, dei fiumi), di Kinashut-Kamui (la serpe divina), di Metot-ush-Kamui (l’orso, sovrano delle montagne e delle selve), e altri ancora, compresa una sezione speciale per gli antenati.”

Ormai Kunimatsu e Clé erano arrivati al luogo dove la casa era bruciata alcune settimane prima, e se ne stava costruendo una nuova. Si vedevano ancora le tracce dell’incendio recente: alberi bruciacchiati, cespugli stecchiti, mucchi di travi semicarbonizzate, ma tenute da parte per un possibile utilizzo futuro. Clé venne presentato al padrone della casa in rifacimento, Kaizawa Taizo (nome giapponese). “È un discepolo del dottor Munro,” fece Kunimatsu, ma Kaizawa prestò poca attenzione alle parole del conoscente, si vedeva subito che aveva troppo da fare.

I tronchi d’albero, una ventina in tutto, che formavano il telaio portante della capanna, con il suo shem (ingresso), erano già piantati in terra e formavano una sorta di colonnato alto circa tre metri. Da un lato si stava intanto preparando l’intelaiatura del tetto, che poi sarebbe stata issata sui pilastri, e infine ricoperta da fasci stretti di erbe palustri.

“Il guaio è che tutto prende moltissimo tempo da noi Ainu” spiegava Kunimatsu, che si era seduto sopra un mucchio di travi semicarbonizzate. “A ogni passo ci sono libagioni e offerte di inau per questo o quel Kamui, e naturalmente preghiere, richieste d’assistenza celeste...

“Per primissima cosa andiamo nel bosco. Tagliare subito gli alberi? Ma neppure per sogno! Dove siamo, tra barbari? A ogni albero va messo il suo inau, e poi gli si deve chiedere perdono per la crudeltà di togliergli la vita, ringraziandolo per il contributo che dà alla costruzione d’una casa per gli Ainu. Inoltre non si può trascurare di ringraziare Shiramba-Kamui, il grande e pesante (paso) dio della vegetazione. I boschi, in ultima analisi, appartengono a lui, dunque va solennemente ringraziato.

“In seguito bisogna scortecciare gli alberi, possibilmente di lillà ché dura più a lungo di tutti, poi sagomarli, renderli più o meno uguali. Allora si scava la terra. E naturalmente occorrono altre preghiere e offerte. La terra ci sostiene tutti, no?

“E l’acqua? Come vivremmo privi d’acqua? Perciò preghiere e offerte di inau a Wakka-ush-Kamui, dio delle sorgenti e dei fiumi.

“Insomma è necessario sdebitarsi continuamente. I Kamui mettono a nostra disposizione ogni genere di materiale, ma occorre ringraziarli altrimenti possono offendersi, no? Ed eventualmente vendicarsi...”

A un certo punto Kunimatsu si rivolse a Kaizawa, che stava piantando in terra, con l’aiuto di altri uomini, fratelli e vicini, un pilastro grosso come una coscia d’uomo, e alto circa tre metri: “Cosa avete in programma per oggi? C’è qualche Kamui-nomi (rito) in vista?”

“Oggi no,” rispose uno degli uomini. “Ieri abbiamo fatto le offerte e le preghiere alla terra. Domani lavoriamo sul tetto, allora qualche preghiera va detta. Il tetto è molto importante! Deve restare intatto anche se batte un terremoto!”

Kunimatsu consigliò a Clé di tornare sul posto dopo una settimana, tanto pareva ci volesse per completare la nuova casa. Poi ci sarebbe stata la festa importante del Chisei-nomi, della consacrazione della casa, con molti invitati, parenti, amici, vicini, compaesani. Anche lo straniero, in quanto amico e discepolo del dottore, sarebbe stato gradito come ospite.

Clé seguì il consiglio di Kunimatsu e tornò a Sàpporo per alcuni giorni. Sia per riabbracciare i suoi, sia per seguire gli studenti di un corso d’italiano, organizzato presso l’università da alcuni giovani entusiasti che volevano approfittare della rara presenza in Hokkaido d’un nativo della terra di Dante. Intanto Clé si teneva in contatto con Kunimatsu, tramite l’apparecchio telefonico del dottor Munro, per sapere come procedevano i lavori. Dopo alcuni giorni, finalmente, Clé poté sentire la voce fioca di Kunimatsu che gli gridava da Nibutani: “Venga domani... Domani l’altro è previsto il Chisei-nomi!”

* * *

Benché a Sàpporo imperasse sempre l’inverno e il terreno fosse ancora ricoperto da un metro di neve, molle di giorno, ma gelata come cemento di notte, cento chilometri verso sud-est, nello Hidaka, di neve non se ne vedeva quasi più. Clé aveva portato con sé gli sci, ma li lasciò in deposito alla stazione di Piràtori, sembrandogli inutile caricarseli addosso fino a Nibutani; prese invece un vecchio autobus traballante, dal quale sbarcò quasi dinanzi alla casa di Kunimatsu. Poi, insieme al simpatico Ainu, che lo accolse con la più calorosa cordialità, Clé si recò dal dottor Munro, presso il quale, ovviamente, era ormai inteso restasse a pernottare come ospite.

“Benvenuto, carissimo giovane amico!” esclamò il dottore, “la tua stanza è già preparata. Intanto vieni, venite ambedue nello studio, sono giusto pronte le briosce squisite di Chiyoko, con il tè di Darjeeling. Il latte purtroppo è condensato o evaporato non so... Qui non se ne trova di fresco. Ancora non ci sono abituati, neppure a Piràtori. Il cartellino sulla lattina dice “milk from contented cows...”. Speriamo sia vero! Che ci passino un poco della loro contentezza... Domani si svolge la consacrazione della casa, il Chisei-nomi da Kaizawa, da Isonoash, vero?

“Quanto mi dispiace, ma non potrò venire con voi, m’è preso un colpaccio di sciatica, vedete, cammino con il bastone! Del resto di Chisei-nomi ne ho visti un discreto numero... Anzi, sto preparando un capitolo sull’argomento per il mio futuro studio sulla cultura e la religione degli Ainu, da lungo tempo, come sai, in cantiere. Ma sono felice di affidarti a Kunimatsu. Non potresti essere più fortunato. È dottissimo in ainulogia! Per di più è un uomo onesto, pulito, come ce ne sono pochi al mondo.”

La mattina dopo, con il primo sole, Clé lasciava la casa del dottore, passando a prelevare Kunimatsu che già lo attendeva nella sua capanna. I due uomini proseguirono verso Penakorè e la nuova casa dei Kaizawa. Percorsi due o trecento passi di mulattiera, si vide già in distanza la nuova magione: sembrava d’oro da quanto luccicava al sole il bel giallo delle erbe palustri appena secche, che formavano il tetto a gradoni e le pareti della capanna!

Tre donne in kaparamip, il kimono ainu in cotone, gagliardamente decorato da motivi circolari di colori svariati, stavano pestando ritmicamente delle granaglie in un grosso mortaio di legno, squadrato con l’ascia. Per darsi il ritmo, molto difficile da mantenere in tre, cantavano una nenia gioiosa ed energica. Ogni tanto un colpo s’inciampava fuori ritmo, e il canto s’interrompeva.

Ma poi subito rieccolo: un perfetto commento musicale alla scena georgica della nuova capanna che si sposava con tanta grazia alle sponde della valletta cespugliosa, circondata da colline di modesta altezza, coronate dai “capelli scompigliati” d’una boscaglia di latifoglie dai rami ancora spogli.

Kaizawa, il cui nome ainu era Isonoash, venne avanti a dare il benvenuto. Poteva avere trentacinque o quarant’anni, la capigliatura color carbone stava crescendo, e un barbone nerissimo si stava allungando, come si conveniva a un ekashi in fieri; si poteva già immaginare la bellezza dell’insieme tra una decina d’anni, quando capelli e barba sarebbero volti prima all’argento, poi a un niveo candore. Qualche giorno prima, Isonoash era apparso nervoso e indaffarato, poco incline a perder tempo con Clé, ma ora che la costruzione della casa era compiuta, si rivelò persona del tutto diversa, gaia e ospitale.

“Oh, benvenuto signor Ramon... E ciao, Kunimatsu!” disse sorridendo compiaciuto. “E Munro-sensei non si vede? Oh è malato, che sfortuna! Per noi è come un padre, un nishpa-gaijin-ekashi (un signor-forestiero-protettore). Ci avremmo tenuto moltissimo ad averlo con noi per il Chisei-nomi.

“Che ne dice, Ramon-san? È venuta bene, no? Il modello è quello di sempre, si capisce. Del resto non c’è nulla da cambiare, i Pase Kamui (gli dèi pesanti) fecero scendere, chissà quando?, il primo modello dal Cielo. Tutto era stabilito, in ogni particolare. Noi lo ripetiamo fedelmente, secondo le regole degli ekashi che furono... Poi con il fulmine insegnarono agli Ainu cos’è il fuoco.”

Kunimatsu e Clé si avvicinarono alla casa, penetrarono nello shem, l’ingresso, in terra battuta, dove tutti si toglievano le scarpe.

“Venite, venite,” continuò Isonoash, con fare calorosamente ospitale. “Andiamo a rendere omaggio ai nostri sacri protettori: Fuchi Kamui, la dea del focolare e grande madre benevolente degli Ainu, e a suo marito Chise-Koro-Kamui, il saggio, il provvido guardiano della casa e dei suoi abitanti.

“Saremo in cinque ad abitare nella nuova casa: mia moglie Mariko, io, due figli e la sorella anziana della mamma. Ma oggi saremo in tanti, una trentina – e ci sarà poco spazio! Ha visto che abbiamo completato tutto il corredo per la casa? C’è un pu per le provviste, ben alto sulle sue palafitte per tenere lontani i topi e le volpi. Poi c’è il ru, il gabinetto. Volevo fare anche un hepere-set, una gabbia per l’orso, ma mia moglie dice che per ora sarebbe uno spreco... La faremo in seguito. Per adesso, con la guerra in Cina, non è tempo di feste. Lo dicono tutti.”

Per fortuna Clé non si era ancora tolto gli scarponi.

“Ha visto che bel nusa che abbiamo messo su a levante della casa?” Nel dire così, Isonoash prese Clé per mano e lo condusse, girando sul lato nord della casa, allo spiazzo di levante, dove, dinanzi alla finestra sacra, appariva una vera rastrelliera di pali grossi come un braccio, alti circa due metri, su cui stavano fissati molti inau, con i riccioli-trucioli nuovissimi e splendenti nel sole. Vi apparivano onorati i principali Kamui del pantheon degli Ainu: gli dèi pesanti e pesantissimi, più di frequente invocati.

“Questi,” e Isonoash indicava i singoli gruppi di inau, in genere quattro per nume, “sono dedicati a Chise-Koro-Kamui (il già nominato guardiano della casa), qui sta invece Shiram-ba-Kamui (il dio degli alberi), e qui Wakka-ush-Kamui (il protettore delle sorgenti e dei fiumi); più in là c’è Kim-un-Kamui (l’orso, dio delle foreste e dei monti). Da una parte, piantati direttamente in terra, senza pali di supporto, stavano gli inau dedicati ai trapassati, che dovevano diventare un importante centro d’attenzione durante il rito shinurappa, quello in cui si ricordano gli antenati, che generalmente segue il Chisei-nomi. Ai riti shinurappa, contrariamente agli altri, prendono parte attiva anche le donne ainu.

Intanto stavano arrivando gli ospiti, uomini e donne. C’erano degli ekashi di Nibutani e dintorni, già conosciuti, almeno di vista, e c’erano degli anziani con barbe spettacolari discesi da Nioi, da Nukibetsu, e perfino da Kami-Nukibetsu (Nukibetsu di sopra), la parte più alta e remota delle valli del Saru e dei suoi affluenti, che vanno a finire sotto la vetta del Poroshiri-dake, oltre duemila metri, nella catena dei monti di Hidaka. Gli ospiti ainu indossavano dei vecchi, ma pittoreschi kaparamip di cotone, e in capo portavano il sapaumbe, la corona cerimoniale fatta con trucioli di salice fittamente intrecciati, contraddistinti da una piccola immagine d’animale sulla fronte.

“In passato,” spiegava Kunimatsu, “l’immagine sul sapaumbe era rigorosamente trasmessa di padre in figlio, il dottor Munro dice che seguivano una regola totemica (che vuol dire esattamente? Poi me lo spiega?), ma oggigiorno le antiche regole non si rispettano più. L’importante è avere un sapaumbe che sia bello, che faccia effetto. Naturalmente l’orso è l’animale preferito!”

Kunimatsu, Clé e Isonoash tornarono nello shem, si tolsero le scarpe e “salirono” sull’impiantito di legno nuovo e ben lisciato. Clé avvertì subito un mormorio di saluto e molti sguardi, alcuni sorrisi, che lo accoglievano. La cosa gli fece notevolmente piacere, si sentì subito a suo agio. Alcuni ekashi gli fecero cenno di avanzare, di “salire” verso la parte onorificamente più alta nella curiosa geometria sociale della casa, cioè d’avvicinarsi al polo del massimo rispetto, l’angolo nord-est, dove tra poco sarebbe stato messo in piedi, con molta cerimonia, il grosso e ornato inau dedicato a, e forse addirittura presenza di, Chise-Koro-Kamui, il guardiano dell’edificio e della famiglia.

Intanto due ekashi stavano facendo partire il primo fuoco della nuova casa, momento importantissimo perché segnava la nascita, per così dire, di Fuchi Kamui, divinità pesantissima e protettrice dell’intera famiglia. Per ottenere la fiamma un uomo teneva fermo, premendolo in giù con una tazza di porcellana, un bastoncino ben secco di lillà, mentre un altro lo faceva ruotare, per mezzo d’una cordicella tenuta nelle due mani e mossa abilmente in qua e in là. Il bastoncino era alloggiato in basso entro un’incavatura praticata in un grosso tronchetto di conifera secca e resinosa; un ragazzino intanto spargeva sull’incavatura dei trucioletti leggerissimi e secchi... Dopo un paio di minuti si notò un sottile filo di fumo. Allora l’ekashi che teneva fermo il bastoncino con la tazza cominciò a soffiare energicamente sul punto rosso d’ignizione, e – oh, meraviglia! – una fiammella neonata, Fuchi Kamui bambina, illuminò le facce e le mani dei due uomini!

Naturalmente con un fiammifero si sarebbe fatto più presto, ma “sarebbe stato un tradimento,” osservò Isonoash, “la fiamma deve nascere come ce l’hanno insegnato gli antenati”.

Molti anni più tardi Clé doveva apprendere che anche i fuochi accesi nel caso della consacrazione dell’imperatore giapponese, durante il rito elaboratissimo che dura circa un anno, il Daijō-sai, vengono suscitati per frizione di legni secchi tra di loro: i giapponesi però hanno perfezionato il giochetto, in modo che un uomo solo, con un ingegnoso e semplice frullino, riesce più o meno nello stesso breve tempo a ottenere la fiamma.

Ecco un altro dei tanti punti nei riti, nelle liturgie, nei costumi in cui si intuiscono contatti, un po’ misteriosi, tra giapponesi del Sud e Ainu del Nord, risalenti probabilmente al primo millennio dell’era volgare. Insomma le due culture, pur radicalmente diverse alle origini, dimostrano molte curiose somiglianze superficiali, dovute a contatti prolungati nei secoli.

Mentre il primo fuoco veniva acceso con tanta cura, alcune donne di casa si davano da fare per distribuire il kamui-ashkoro, la birra lattiginosa di miglio a basso contenuto alcolico, che raccoglievano in antichi boccali laccati in nero con ornamenti d’oro, da due piccoli tini, anch’essi laccati, dov’era avvenuta la fermentazione, e versavano poi nei tuki, nelle coppe rosse dei singoli ekashi.

“Veramente sarebbe proibito produrre bevande alcoliche in privato,” disse Kunimatsu ridendo. “Ma come si fa? Un Chisei-nomi, fatto con il sakè, comprato in bottega, non saprebbe più di nulla! E i Kamui resterebbero forse offesi, diventerebbero pericolosi. Per fortuna Penakorè è lontana da Piràtori, e i poliziotti stanno comodi nei loro uffici. E poi forse chiudono un occhio!”

Clé intanto osservava come tutti nella capanna, che accoglieva ormai una trentina di persone tra uomini e donne, si muovessero di qua e di là in atteggiamenti di straordinaria riverenza e compunzione, leggermente inchinati in avanti, con le braccia penzoloni sulle ginocchia, e con lo sguardo abbassato in segno di squisita modestia. La lingua ainu descrive tale comportamento con il termine oripak.

Il contegno oripak somiglia abbastanza a quello giapponese definito dall’espressione osorù-osorù (pauron-pauroni), ma suona più dignitoso, più ispirato al sacro, il pauron-pauroni è più laico, più classista, più scherzoso. Clé provava, quasi suo malgrado, una profonda ammirazione per queste dimostrazioni di straordinaria civiltà dei suoi amici barbari e cerimoniosi. Del resto il dottor Munro aveva accennato a simili particolari caratteristiche, parlando degli Arunta o dei Kudaku australiani. Si direbbe che certi popoli lascino perdere, come fronzoli inutili, le tecniche, le ricchezze, i comodi, i beni del mondo, concentrandosi totalmente sul ricamo sociale di riti e liturgie, nutriti in gran parte di riflessi religiosi, come veri ed essenziali tesori dello spirito.

Uno splendido ekashi dalla gran barba d’argento, rivestito d’un lungo e festoso kaparamip a candidi fioroni astratti, con un imponente sapaumbe in capo dal fastigio animale a becco d’aquila, andò con perfetto ed elegante oripak a sedersi in quello che si sarebbe potuto chiamare il polo del magnetismo cerimoniale della capanna, tra focolare e rorun puyara, la sacra finestra.

Clé non lo aveva mai visto, pareva venisse da Nioi o da un altro villaggio in alto nella valle. Certo, doveva godere di grande autorevolezza, se era stato invitato a fare da primo officiante nel fastoso Chisei-nomi d’Isonoash. L’ekashi si pose a sedere, accennò con il capo e le mani un breve saluto silenzioso rivolto a tutti, poi valendosi d’un bastone iku-bashui, compì solenni aspersioni di kamui-ashkoro sugli inau del focolare, dedicati a Fuchi Kamui, nonché in direzione dell’angolo nord-est della casa dove stava l’inau di Chise-Koro-Kamui, il marito di Fuchi Kamui, e protettore maschile della capanna e della famiglia.

Dopo di che, in una sorta di cantilena ben chiara, ma intonata con note bassissime, che gli nascevano chissà dove nel petto di nerboruto boscaiolo, pronunciò la preghiera rituale indirizzata a Fuchi Kamui (Clé se la fece ripetere in seguito da Kunimatsu, e passò tutta una domenica a trascriverla in ainu, in giapponese, e infine a tradurla in italiano).

“O Fuchi Kamui, Tu che ci hai allevati! (e qui l’ekashi impiegò il termine antico e letterario di Iresu Kamui: Kamui che, come i genitori alleva, educa, insegna amorosamente, amorevolmente),

“O Fuchi Kamui, Tu che possiedi l’Ainu Moshiri! (la terra degli Ainu),

“O Fuchi Kamui, Tu che discendi dall’alto dei Cieli!

“Ora, qui, questa giovane coppia occupa la sua nuova casa; e adorandoTi con il più profondo rispetto, ha completato i riti per mezzo dei quali anime (ramat) sono state infuse negli inau di Chise-Katkemat e di Kenru-Katkemat (le Dame, le Fate, protettrici della casa). Così stando le cose, Ti preghiamo di offrire la Tua e la Vostra benevola assistenza a questi giovani, tanto come Madre che allevi (iresu) gli Ainu, quanto come Signora del Paese (dello Ainu Moshiri).

“Contiamo inoltre che vorrai, o Fuchi Kamui, fungere da mediatrice tra gli Ainu e i loro Kamui, onorando con la Tua presenza il Chisesopa (la parte alta della casa che si considera come una cappella), dove verrà posto il grande inau di Chise-Koro-Kamui, protettore della famiglia e Tuo sposo.

“Inoltre rivolgiamo preghiere al cuore prezioso del divino Ekashi Nusa-Koro-Kamui, lo Spirito che risiede nel nusa (a levante della casa), sperando voglia intercedere presso Fuchi Kamui e voglia farLe pervenire le nostre più ardenti preghiere. Al contempo risveglia il cuore prezioso del Divino Ekashi Shiramba-Kamui (dio dei boschi e delle piante) facendogli giungere i nostri rispettosi pensieri.

“O Shiramba-Kamui, non sei forse considerato il più valente ed eloquente personaggio dell’intera famiglia divina? Ti preghiamo dunque di proteggerci e di presentare i nostri onesti desideri a Fuchi Kamui.

“Invochiamo infine i Kamui minori della casa, dove Fuchi Kamui è regina, onorandoli con gli inau loro dovuti.

“Il nostro augusto antenato umano, Aoina-Kamui, volle insegnarci le arti del vivere civile e noi imparammo da lui imitandolo. A lui rivolgiamo adesso, con il massimo rispetto i nostri pensieri, offrendogli questi rituali chihorokakep-inau (inau più piccoli degli altri e di aspetto speciale).

“Sono perfettamente cosciente,” concludeva l’ekashi, sempre con la sua voce impressionante, tra il basso e il cavernoso “che le mie preghiere sono quelle d’un ignorante, che il mio corpo è debole, ma spero che le mie parole non siano in alcun modo fraintese. Interpretando lo spirito con il quale Ti invochiamo, spero Ti degnerai di darci ascolto. Abbiamo già preparato l’inau di Chise-Koro-Kamui, il Kamui che verrà ad abitare in questa casa.

“Oh proteggici! Oh guidaci!

“Tali parole umilmente offro...”

* * *

Terminata la sua lunga preghiera l’insigne ekashi di Nioi si levò e uscì di casa, seguito da alcuni Ainu più giovani e da due o tre donne. Il gruppetto aggirò la casa sul lato nord e poi l’ekashi, sempre tenendo nelle mani la coppa tuki e un bastone iku-bashui, si apprestò a compiere nuove libagioni di kamui-ashkoro, e a cospargerne alcune gocce sui molti inau disposti sul nusa, la rastrelliera-altare dinanzi al rorun puyara, la finestra benedetta di levante.

Intanto in casa, altri e numerosi ekashi, ciascuno con il sa-paumbe in capo, tenendo nelle mani coppe tuki e bastoni iku-bashui, recitavano preghiere più succinte, ridotte a brevi formule, indirizzate ai principali Kamui della nuova casa.

Clé restò colpito dall’ordine straordinario con il quale tutti questi complessi riti andavano svolgendosi, sempre in perfetto atteggiamento d’oripak, senza confusione, senza urti, senza incertezze: si sarebbe quasi detto un balletto in cui ciascuno, delle due dozzine di partecipanti, conoscesse a memoria, fin da fanciullo, non solo tutti i gesti e le mosse del caso, non solo tutte le formule di rito, ma l’intreccio strettissimo di tempi che regolavano l’insieme.

Kunimatsu, come aveva più volte detto il dottor Munro, era una vera enciclopedia vivente di ainulogia sistematica e storica, liturgica e folclorica.

In seguito recitò per Clé numerose altre preghiere che riguardavano la costruzione o ricostruzione d’una casa, da quelle per le fondamenta, a quelle conclusive per l’invito ai Kamui a occupare le loro varie posizioni domestiche, per proteggere non solo mura e tetto, ma la famiglia che occupava lo spazio abitabile. Qui è stata riportata solo una di tali preghiere, perché sostanzialmente si somigliano tra di loro; cambiano i nomi e le richieste, ma gli atteggiamenti di fondo e le loro espressioni restano costanti.

Clé rimase più volte colpito da un fatto curioso: che le orazioni degli Ainu manifestavano un certo stile barocco, secentesco, secondo cui il fedele si umilia, si fustiga, striscia per così dire in terra, ponendo i Kamui a un livello eccelso, sublime, pressoché inarrivabile.

E, in questa esotica congiuntura, che cosa tornò mai in mente al giovane antropologo toscano? Un certo libretto di devozioni, che gli aveva tenuto compagnia durante la sua breve ma significativa “mania religiosa” da fanciullo, a Ricòrboli, sotto gli influssi di don Sestilio. Clé non aveva davvero presente il titolo del volumetto, benché ne ricordasse benissimo le specie tattili della copertina e il colore giallino delle pagine. Autrice ne era un’ignota suora di Cefalù, in Sicilia. E Clé ricordava ancora varie espressioni d’innamorata quasi carnale di Gesù, inserite tra particelle invocative “deh, oh, ahi!...”. Con il senno di poi Clé commentava: “Ma le grandi mistiche sicuramente godono al momento supremo, hanno rapporti d’orgasmo con il loro adorato... Del resto Bernini, tramite l’immagine di santa Teresa in estasi, non lascia dubbi.”

Il complesso balletto del Chisei-nomi durò tutta la mattinata e travalicò nel pomeriggio, seguito dal rito per gli antenati, altrettanto complesso, lo shinurappa. Soltanto verso sera le svariate liturgie si trasformarono lentamente in festa.

Qui non bisognava trascurare l’effetto della santa birra lattiginosa! L’alcol sarà stato poco in assoluto, ma era veicolato da tanto di quel liquido, che ormai il rispettabile oripak delle prime ore stava progressivamente disertando la compagnia. L’appetito energico di padroni e ospiti veniva soddisfatto da sostanziose porzioni di shito (o shto, la i era quasi muta), cioè riso e altre granaglie pestate nei mortai a formare degli gnocconi grossi come pugni d’uomo, e poi cotti in saporiti brodi di chissà che carni d’animali dei boschi.

Anche Clé, saltata la colazione, divorò con molto gusto la sua parte, ridendo agli scherzi, ormai francamente boccacceschi, d’Isonoash e d’altri suoi compagni dei villaggi nella valle di Saru, nonché di alcuni tra gli ekashi meno solenni ed episcopali. In fondo la compagnia non era troppo diversa da quella di tanti anni prima, vissuta insieme all’ortòmo Martino e ai suoi di famiglia, nei famosi festini per la battitura del grano o per la vendemmia che avevano luogo a San Felice a Ema, nei dintorni immediati di Firenze.

Quando al buio Kunimatsu e Clé lasciarono la capanna di Isonoash, l’eco delle voci e dei canti li seguì a lungo per la mulattiera che li guidava verso Nibutani. Alcune chiazze di neve rimaste qua e là, ormai gelate per l’avanzare della notte, procuravano un allegro cric-crac d’accompagnamento sotto i tacchi degli scarponi.