6. Montagne, foreste, vulcani

Una settimana dopo, Hiro Miyazawa e Clé stavano salendo, con le pelli di foca agli sci, i ripidi pendii del monte Teine, alle porte di Sàpporo. La quota di appena 1039 metri sul mare fa ridere, ma in Hokkaido equivale a circa duemila metri da noi. Nei sacchi dei due giovani stavano semplicissimi strumenti: una sega a spatola e una piccola pala da campeggio. Oggi la vetta del Teine è popolata da ristoranti e alberghetti, da rifugi vari, nonché dai ripetitori della televisione, e la località può essere raggiunta non solo in funivia e in seggiovia, ma addirittura a mezzo di un’ottima strada asfaltata, ripulita dalla neve in inverno. Ma allora la vetta del Teine era un breve pianoro nevoso e ventosissimo, che si raggiungeva dopo quattro o cinque ore di salita, con una ripida pettata per finale.

Hiro e Clé furono sulla cima verso le tre del pomeriggio d’un giorno gelido ma sereno degli inizi di febbraio. Clé aveva portato con sé una pagina del settimanale milanese Lo Scarpone, in cui si davano istruzioni su come costruire un iglù.

“Ci vuole neve compattata dal vento, quella sorta di sostanza leggera e zuccherina che si taglia facilmente con la sega a spatola...”

“Eccola!” esclamò Hiro, pestando con uno scarpone una larga proda di neve ammucchiata dal vento a ridosso d’un piccolo rilievo roccioso. “È proprio quella che dici tu.”

I ragazzi si misero al lavoro. Clé tagliava i blocchi, diciamo di 80 × 20 × 20 centimetri, come dei tavelloni di laterizio, e Hiro li metteva a posto. Dopo un tentativo fallito di creare l’iglù con i blocchi disposti a spirale (che sarebbe il sistema giusto), fu deciso di attenersi alla più semplice struttura “a cupola bizantina”, formata cioè da cerchi completi di blocchi di diametro uguale fino a circa un metro d’altezza, poi sempre più stretti fino a chiudere il tutto con una lastra di neve gelata. In capo a poco più di un’ora il “palazzo di neve” fu completato, con il suo bell’ingresso a cunicolo.

“Adesso siamo al sicuro!” esclamò Hiro, dando gli ultimi ritocchi con la pala all’esterno della cupola.

“E possiamo goderci il tramonto con tutti i suoi magici colori, per così dire dalla porta di casa, senza dover scappare perché si fa tardi!” aggiunse Clé felicissimo per la riuscita del progetto.

Purtroppo in quei tempi preistorici non si era ancora diffuso l’impiego tanto semplice e ovvio dei materassini di gomma da spiaggia per dormire sulla neve, in tenda o in iglù che fosse. Il materassino isola il corpo dalla neve o dal ghiaccio con un cuscino d’aria che permette di evitare il freddo peggiore di tutti, quello che penetra da sotto! Entrati “in casa”, accesa la stufetta ad alcol solido (ancora non esistevano le bomboline a gas liquido), i due amici si accorsero con allarme che l’aria dell’iglù si riscaldava benissimo, passando in poco tempo dai cinque o sei gradi sotto zero di fuori, ai cinque o sei gradi sopra dell’interno, ma che il freddo proveniente dal suolo gelava in modo insopportabile cosce e schiene dei residenti, impedendo loro di riposare e certamente di dormire. Allora Hiro ebbe un’idea semplice e pratica: “Andiamo a raccogliere dei rami d’abete,” disse, “ne ho visti parecchi qui un giro. Ce ne facciamo un tappeto. Che ne pensi?” Il piano venne messo subito in pratica, e l’iglù fu munito d’un alto tappeto di rami d’abete, su cui furono stesi i sacchi a pelo (anche quelli molto rudimentali rispetto ai loro consimili d’oggi), offrì finalmente un vero e sicuro riparo per la notte.

Il caso fortunato voleva che Hiro e Clé non fossero solo degli affiatati compagni di montagna e di sci, suppergiù della medesima resistenza e bravura – particolare di notevole importanza quando si affrontano insieme delle imprese d’un certo impegno – ma, cosa abbastanza rara, che fossero anche amici a livelli più intellettualmente profondi e impegnativi. Erano insomma anche “amici da città”. Hiro e Clé si trovavano infatti spesso insieme, o nelle loro case, o da terzi, o in certi caffè vicino all’università, per lunghe chiacchierate su filosofie, religioni, storia, politica, letteratura. Il fatto che fossero cresciuti in due civiltà così diverse tra loro rendeva tali conversazioni doppiamente interessanti, istruttive, proficue: portavano l’acqua proprio a quel mulino dei contatti e dei conflitti culturali che Clé sentiva più suo.

Hiro non era nativo di Yezo. Era venuto su al Nord per passione di monti e gusto di vita a contatto con la natura. La famiglia abitava a Tokyo. Due o tre volte, recandosi nella capitale, Clé era stato ospite dei Miyazawa, famiglia oltremodo tradizionale, che abitava in una casetta, anch’essa oltremodo tradizionale, nei pressi di Fujimi-cho (Borgo Vedi-Fuji), così chiamato perché pare che in tempi andati si ammirasse da lì il celeberrimo vulcano, simbolo del Giappone.

La casetta dei Miyazawa risaliva a un’epoca anteriore al grande terremoto del 1923 e incorporava quindi tutte le finezze canoniche dell’architettura dei tempi che erano: corridoi di lucido legno, stanze a tatami, salotto con elegante toko-noma (alcova della bellezza, per disporvi pitture, fiori, oggetti rari), porte scorrevoli di legno leggero e carta. Hiro spiegava a Clé gli arcani geomantici che regolavano la disposizione dei vari spazi domestici – la cucina, l’ingresso, la stanza di soggiorno, il gabinetto – perché tutto costituisce un complesso armonioso nelle sottili relazioni tra esseri umani, venti, terra, acque, tra microcosmo e macrocosmo.

Clé restò intimamente persuaso dall’esigenza di tenere separati bagno e latrina. “Come?” esclamava Hiro. “Vorresti unire spurgo, escrementi e lustrazioni del corpo?” Clé capì allora come il bagno giapponese sia fondamentalmente diverso dal nostro, e come tragga origine dalle esigenze religiose di purificazione lustrale, tipiche dello Scinto.

Poco dopo il suo arrivo in Giappone Clé aveva preso a interessarsi di Buddismo, e cominciò ben presto a comprendere le significative differenze che corrono tra scuola e scuola, confessione e confessione.

Il Buddismo, anche solo quello giapponese, accoglie nel proprio seno differenze che superano di gran lunga le tendenze, mettiamo francescana o gesuitica, domenicana o certosina, nell’ambito della Chiesa cattolica: siamo piuttosto nell’ordine di stacchi simili a quelli che si possono riconoscere tra gli ortodossi e i protestanti più asciutti, tra cattolici e copti. Una forte e, a quanto pareva, antica tradizione, legava la casata di Hiro al Buddismo fondato dal monaco Nichiren (“Loto Solare”, ma anche “Loto del Giappone”). Nichiren fu un personaggio scomodo, forsennato, e – caso raro nelle tradizioni buddiste – intollerante e violento.

A proprio supremo Vangelo elesse lo Hoke-Kyō (in sanscrito Saddharma-pundarika-sutra), una grandiosa opera indiana di scuola mahayana, probabilmente del terzo o secondo secolo a.C., nella quale il Budda compare come la parusia d’uno spirito supremo, inteso a condurre alla salvezza, in una successione sconfinata di ere, tutti gli esseri senzienti.

Il punto più caratteristico dei seguaci di Nichiren (anche nella loro veste moderna, quella della Soka-Gakkai) è però un altro. Nichiren visse nel Duecento, un secolo oltremodo travagliato per i giapponesi: secolo di guerre civili e pestilenze, secolo dei due feroci assalti dei mongoli di Kubilay Khan, nel 1274 e nel 1281, neutralizzati per miracolo grazie ai kamikaze (allora intesi come “venti divini”, cioè tifoni, non come piloti suicidi).

Nichiren accettava dai contemporanei il concetto delle “Tre Epoche della Legge”: la Prima (lo Shōbō), la Legge Giusta, la Legge Vigorosa, rappresentava il periodo in cui gli uomini vivevano giustamente e potevano con facilità raggiungere la salvezza. Dopo questo periodo della durata di mille anni, succedeva l’epoca detta Zōbō (della Legge Fittizia) nella quale solo alcuni saggi riuscivano a trattenersi dal decadimento universale. Infine aveva inizio il Mappō Jidai (l’Epoca Finale della Legge), in cui tutto decadeva, andava in malora, si perdeva in devastazioni.

Nichiren vedeva nei propri tempi i segni inequivocabili del disastroso Mappō Jidai. Chi voleva salvarsi, e salvare qualcosa, non doveva conoscere pietà o perdoni; aveva anzi l’obbligo di costringere gli altri ad affrontare le vie della salvezza, magari con la forza e con i mezzi più brutali. Ecco le radici metafisiche dell’intolleranza di Nichiren e dei suoi discepoli; i quali mostrarono lungo i secoli di possedere ruggente coraggio, ma anche di seguire intransigenti durezze.

Ora non avveniva che in casa Miyazawa ardessero fornaci di particolare fanatismo, che si parlasse facilmente di problemi metafisici o del Mappō Jidai, anzi. Hiro (Clé se n’era accorto ben presto) era piuttosto indifferente ai problemi religiosi, e pareva molto più intensamente coinvolto in quelli etici e politici. Il soffio casalingo di Nichiren lo si avvertiva nel suo vigoroso impegno di fronte alla vita, un impegno che minacciava continuamente di trasformarsi in eccesso, in sete di martirio, sia trascinando la fragile barchetta dello spirito in mari procellosi, sia mettendo spensieratamente a repentaglio corpo e salute.

Hiro si entusiasmava facilmente per ideali contraddittori senza accorgersene: non aveva l’equilibrio di altri ragazzi della Société du Coeur, per esempio il Passerotto-Takeda. Da un lato affermava continuamente l’importanza dei valori universali, la fratellanza dei popoli, la necessità della pace, magari l’ecumenismo religioso, e simili ideali; dall’altro si lasciava commuovere in modo assurdo da certi filoni d’idee, tipici del nuovo ordine nipponico militarista e tracotante.

Hiro non era davvero isolano in ispirito, come si rivelavano invece quasi tutti gli altri studenti con i quali Clé veniva a contatto; fin dalle medie si era appassionato ai classici insigni del pensiero cinese – gli Analetti di Confucio (i Ron-go, in giapponese), il Grande Insegnamento (Dai-gaku), il Giusto mezzo (Cha-yō) –; non solo, ma era riuscito anche a compiere un viaggio in continente, nonché a fare una puntata (che lo aveva messo in sospetto alla polizia) nelle isole Curili.

Ora Hiro e Clé sorbivano gustosamente, e a lente cucchiaiate, un’ottima calda minestra che erano riusciti a preparare in un pentolino sulla stufetta ad alcol solido nell’interno del loro iglù. Non avrebbero saputo dire come, ma avevano ripreso il filo d’un discorso che emergeva spesso nelle loro chiacchierate a svitamondo.

“Vedi Clé,” sentenziava Hiro, “gli uomini sono tutti diversi l’uno dall’altro. Prendi per esempio dei fratelli, v’è un ordine di nascita tra di loro che nessuno può contestare. Il fratello maggiore ha la precedenza innata sui minori...” E qui Hiro ripeteva una dottrina basilare del Confucianesimo d’ogni scuola e tendenza. “Se però il fratello maggiore perde la testa, che so io, si lancia in affari sbagliati, si lascia invischiare in un amore proibito o pericoloso, abbraccia una fede strampalata, in questi e simili casi, il fratello minore ha il diritto e il dovere di richiamare il maggiore sulla retta via, al buon senso, anche con la forza e la durezza...”

“Come diceva Nichiren, no?”

“Be’ sì, anche... Ma ora trasformiamo la metafora in eventi del giorno. Il fratello maggiore tra i popoli è stato per millenni la Cina, ma da cent’anni in qua ha perso la testa, gli s’è appannato il senso dell’onore, la coscienza dei propri doveri. Allora a chi tocca fare da guida? Al fratello minore, il Giappone. Anche se è un Paese più piccolo, anche se più giovane di civiltà, tocca a noi organizzare e governare l’Asia orientale, tocca a noi liberarla da ogni perniciosa influenza straniera, capisci?”

“Ideale generoso,” ribatteva Clé, “ma così andiamo diritti alla guerra, non ti pare? Certi ragionamenti possono valere nelle famiglie, ma non si possono trasferire ai popoli.”

Messo con le spalle al muro, Hiro rispondeva che “la virtù dell’imperatore, del Tennō” avrebbe salvato tutto e tutti in extremis. E qui era chiaro che gli si fondevano pericolosamente in testa certe concezioni confuciane con i miti dello Scinco. Clé non poteva che dissentire da una simile ideologia confusa e perniciosa, però prendeva nota di tutto mentalmente, perché l’insieme rappresentava in sintesi il pensiero corrente e ricorrente nell’università, nel pubblico e nei giornali giapponesi del momento.

Spesso pensava di buttar giù i testi delle sue conversazioni con Hiro (e con altri giovani con i quali era in contatto), intitolando il tutto Le chiacchiere nell’iglù; ma poi rimanda, rimanda, gli eventi finirono per travolgere anche questo progetto. Ne restò qualche nota nel melanconico quaderno detto Il cimitero, insieme a dozzine d’altri progetti, piani, sommari, indici, titoli e abbozzi preliminari.

* * *

Un secondo esperimento nella costruzione di iglù venne fatto, sempre con Hiro, sul monte Ashibetsu (1727 metri), poco più alto del Teine, ma molto più impegnativo in quanto nevosissimo e lontano da qualsiasi base d’accesso. Il tempo fu duro, cattivo, ma in fondo era quello che ci voleva per dare sicurezza ai ragazzi di fronte a qualsiasi umore degli elementi. L’iglù venne costruito sull’unico piccolo ripiano trovato salendo, mentre infuriava il fubuki (la tormenta), con nebbia fittissima, neve portata dal vento in direzione assolutamente orizzontale che frustava faccia, collo e mani, e un freddo polare. Per fortuna fu scovato un punto in cui s’era ammucchiata la solita neve a zucchero, quella necessaria per costruire l’iglù. Nelle vicinanze c’erano anche degli abeti, i cui rami servirono per tappezzare il fondo della capanna. La notte trascorse tranquilla e permise un discreto riposo, anche se il fubuki ululava come una continua sirena, infilandosi nel buchetto praticato nella lastra di chiusura della cupola, per assicurare un ricambio d’aria.

Questa volta, prima di prender sonno, “le chiacchiere nell’iglù” imboccarono lo scivolo delle religioni.

“Premetto che non so nulla del Cristianesimo” esclamò a un certo momento Hiro, “ma quell’uomo nudo appeso a due travi di legno mi dà i brividi, mi fa orrore. In fondo è un’osservazione sciocca, ma registro il messaggio più generale, quello che si riceve entrando nelle chiese, e anche nei musei di arte occidentale...”

Clé capì subito che, partendo dal Buddismo, con le sue immagini del sacro rappresentate dalla figura umana in profonda meditazione, o con volti e mani atteggiati alla dolcezza, alla clemenza (Sakyamuni, Amida, Dai-Nichi-Nyorai, Kanon), il responso era del tutto naturale.

Clé cercò di spiegare all’amico che non bisognava tanto guardare alla crocifissione dal punto di vista del bruto supplizio, insomma come opera di ferocia umana, bensì, ribaltando interamente il punto d’interpretazione, come sofferenza accettata e patita in quanto espiazione, in quanto sacrificio. Ma Clé non era molto sicuro di quanto diceva; sentiva d’esser mosso più da una sorta di lealtà culturale, che da un’intima persuasione.

In qualche modo, quella capriola endocosmica improvvisa, offertagli dalla reazione di Hiro, rendeva Clé ben conscio di un’antica cecità ereditaria, prodottasi nel sangue millenario dell’Occidente dal “callo all’orrido”. Era un po’ come quando, in tempi lontanissimi, un altro amico gli aveva detto che Babbo Natale non esisteva, che erano i genitori ad appendere le calze con regali o pezzi di carbone a capo del letto. Gli incanti sono di vetro, fragilissimi, un nulla e si frantumano, poi non esiste colla che li possa riparare. Ormai, per sempre, nel futuro, Clé, vagando tra chiese e musei, transitando per sentieri alpini, entrando in aule o tribunali, al solo scorgere un crocifisso si sarebbe immedesimato nei pensieri d’un non-cristiano che osservi con occhi vergini l’oggetto, la scena, e si sarebbe sentito rabbrividire dall’orrendo supplizio.

* * *

Il terzo tentativo con gli iglù doveva essere quello buono, cioè quello della traversata Tokachi-Asahi lungo i nientemeno che cinquanta chilometri di alti crinali montuosi al centro dell’Hokkaido. Hiro e Clé avevano trovato un terzo compagno per l’occasione, un operaio di nome Owada, residente ad Asahikawa non lontano dal vulcano Tokachi, e che tutti dicevano non solo fortissimo, ma esperto dei luoghi. Clé era stato indubbiamente imprudente in questo importante progetto, che andava preparato molto, ma molto meglio. Va bene saper costruire degli iglù con qualsiasi tempo, ma il cibo? Calcolando almeno cinque o sei giorni, come fare per non caricarsi d’un peso eccessivo? A quei tempi non esistevano ancora le minestre liofilizzate, e bisognava portare più che altro mochi, gnocchi di riso pestato.

Hiro, Owada e Clé partirono dalle sorgenti calde di Tokachi con ottimo tempo, e con tre sacchi a dir poco paurosi sulle spalle. Ce l’avrebbero fatta? I dubbi erano davvero molti. Cinque o sei notti di bivacco, anche in iglù ben architettati, sono molte. E se non si trovavano abeti per il solito materassino isolante di rami, il gelo avrebbe impedito di dormire: purtroppo quasi tutto il tragitto doveva svolgersi al di sopra del livello massimo dei boschi.

Il primo giorno andò abbastanza bene, anche se il peso dei sacchi rompeva la schiena e si faceva sentire in modo penoso soprattutto per il fiato. Venuta la sera, fu scovato un punto adatto per costruire l’iglù sulle pendici finali del monte Biei, a circa duemila metri. La notte portò un freddo bastardo, per cui il sonno non fu di quelli più felici. Un vento di fubuki ululava senza posa nel foro praticato nella cupola dell’iglù, ma solo la mattina, al risveglio, i tre s’accorsero che il tempo era cambiato tristemente in peggio, in orrido. La nebbia era fittissima, un vento furioso schiaffava la neve orizzontalmente in faccia e sulle mani. Owada, che aveva una trentina d’anni ed era esperto di quelle montagne, propose sensatamente: “Aspettiamo un giorno qui, poi se domattina è bello proseguiamo, ma se è brutto torniamo alle sorgenti di Tokachi. Che ne dite?”

La giornata passò lentamente, e sempre più cupa. Ma guarda un po’: Owada aveva portato con sé un mazzo di carte! Fu così che gli eremiti nella “villa di neve” giocarono a una sorta di tressette giapponese, che fece passare le ore abbastanza in fretta. Ma il tempo s’era messo ormai al mostruoso stabile e non aveva nessuna voglia di aprirsi. Nel mezzo della notte la furia parve calmarsi un poco, ma all’alba il diavolerio aveva ripreso come prima. Non restava che far su i sacchi e scendere nella bufera alla capanna delle sorgenti calde di Tokachi.

Quando i tre arrivarono a destinazione, il custode del rifugio li salutò festosamente, dicendosi davvero sollevato da una grande paura. Aveva più o meno capito il piano del terzetto e, visto il cambiamento del tempo, temeva che volessero continuare comunque. “Meno male che non siete andati oltre il Biei! Una volta oltre quel monte, sareste stati nell’alto mare del Tomoraushi, una groppa infinita senza alberi e senza punti di riferimento. Chi vi si smarrisce è davvero perduto!”

La traversata famosa venne compiuta integralmente per la prima volta molti anni dopo l’incauto tentativo di Clé e compagni, e precisamente nell’inverno 1951-52 da un gruppo di quattro alpinisti sciatori guidati da Shiro Noda, e appoggiati lungo il percorso da ben quindici altri colleghi, che provvedevano ai rifornimenti. Partiti il 22 dicembre del ’51, arrivarono a destinazione il 9 gennaio del ’52, dopo quasi venti giorni di sforzi.