1. Borgo del Pozzo d’Uccello che Vola
Con il 1941 tornare in Italia era divenuto impossibile: tutte le comunicazioni internazionali erano bloccate dalla guerra. Intanto la borsa di studio del governo giapponese stava per scadere e non era previsto un secondo rinnovo. Clé e famiglia si sarebbero trovati in serie difficoltà, se l’università di Kyoto non avesse ampliato il suo insegnamento d’italiano prevedendo l’aggiunta di un lettore di madrelingua italiana. Il posto venne offerto a Clé, che l’accettò come unica soluzione possibile ai problemi suoi e della famiglia.
La partenza da Sàpporo avvenne con la fine d’aprile. Alla stazione c’era una piccola folla d’amici e di conoscenti a salutare Malachite, Dafni, la piccola Yuri e Clé. Erano presenti naturalmente gli adorabili Lane, Mathilde detta Machirudo, il professor Hecker con il figlio adottivo Yoshiro e la sua fidanzata Hiroko, Hiro Miyazawa, il Passerotto-Takeda, nonché alcuni compagni d’alpinismo e di sci, del Club Alpino Accademico dell’Hokkaido e dello Sci Club Sàpporo.
Il professor Kodama aveva inviato un suo assistente in rappresentanza dell’istituto di Anatomia dell’università dell’Hokkaido, al quale formalmente Clé era stato aggregato.
Nessuno degli Ainu era venuto dai loro lontani villaggi (troppa la distanza e pochi i soldi), ma una dozzina di casse contenenti circa cinquecento oggetti ainu, raccolti da Clé durante i suoi anni in Hokkaido, erano già state spedite a Kyoto. (Una fortunatissima serie di circostanze permise poi a Clé di salvare la collezione, di grande valore etnografico, dai pericoli della guerra, e da quelli d’un lunghissimo viaggio, facendola poi approdare a Firenze, dove più tardi, nel 1954, trovò il suo posto nel museo di Antropologia ed Etnologia dell’università.)
La giornata era serena, con un teso venticello di nord. Tutti i monti intorno a Sàpporo erano candidi di neve. Clé li guardava con nostalgia: “Ciao monte Teine, dove Hiro e io facemmo esperimenti di bivacco in iglù!” E poco dopo la partenza comparvero nei finestrini del treno i vulcani spenti di Niseko, percorsi tante volte spensieratamente in lungo e in largo. Quanti strascichi di cuore lasciati per sempre tra quei monti romiti e remoti!
Malachite e Clé conoscevano Kyoto, ma solo da turisti, avendo visitato la città nell’autunno del 1939. Adesso si trattava di sistemarsi laggiù per un tempo indeterminato, forse lungo, e soprattutto di cercarvi casa. Per fortuna i mezzi non languivano; lo stipendio d’un lettore straniero era assai migliore di quello d’un professore giapponese. E inoltre – perché non ricordarlo con gratitudine? –, il dottor Raimondi riusciva a far pervenire a Clé un supplemento integrativo personale, tramite il ministero degli Esteri e l’Ambasciata, che giovava molto a Malachite e alle bimbe nei loro bisogni. L’atteggiamento del dottor Raimondi a Firenze era evidentemente quello d’un generoso Giove Olimpico il quale sentenziava: se t’aiuti, Dio t’aiuta.
Ove nel pantheon dei laici vi fosse un Kami, un dio minore, preposto alle case, Clé pensava spesso sorridendo: “Sarei suo devoto fedele!”
Dalla nascita in poi il ragazzo aveva sempre avuto la fortuna di vivere in luoghi pressoché ideali; la villa di Ricòrboli non ne parliamo neppure e anche quella nuova del Gelsomino aveva i suoi garbi, la torre de’ Marsili, la Grangia di Saraillon ad Aosta, la casa all’Undicesimo Viale di Sàpporo... Tutte le aveva indovinate quel birbaccio d’un Kami ben disposto! Sarebbe andata bene ancora una volta?
Per il momento Clé – lasciata Malachite e le bimbe a Tokyo in albergo – s’era sistemato nel cosiddetto Club dell’università di Kyoto, un pensionato dove gli facevano delle ottime condizioni. Fu lì che conobbe gli Uriu, una giovane coppia senza figli: lui faceva il giornalista aggiunto per il giornale Asahi, e lei era impiegata presso il Club come sovrintendente al personale. Miki Uriu era piuttosto alta per essere una giapponese, magra, graziosa, sorridente, estremamente emotiva, passava dalle lacrime alle risate varie volte in pochi minuti di conversazione. Vestiva sempre sobriamente in kimono di gusto shibui. “Stia tranquillo, vedrà che troveremo presto una casa ottima per lei e per i suoi,” diceva, correndo di qua e di là, scomparendo nel suo ufficio per telefonare.
Intanto Clé si era presentato all’università e aveva conosciuto il professor Masatoshi Kuroda, titolare della cattedra d’Italiano a quei tempi. Il professor Kuroda era un uomo sulla cinquantina, alto, magrissimo, di capelli e pupilla d’un nero assoluto, con una forte barba rasata, di cui sopravvivevano due baffetti vagamente hitleriani sotto il naso.
Clé ormai aveva allenato a lungo i suoi occhi in Hokkaido, e individuava spesso quei purissimi giapponesi nei quali, per qualche capriccio dei cromosomi e del DNA, erano andati a manifestarsi alcune caratteristiche dei popoli settentrionali (Emishi, Ebisu, Ainu e altri) con cui i nipponici di Yamato avevano fatto per secoli la guerriglia di frontiera. Evidentemente la guerriglia non fu fenomeno permanente, ci saranno stati periodi, anche lunghi, di tregua dedicati ai commerci, e magari ai connubi e ai matrimoni misti, con relativi travasi di geni da un gruppo all’altro. La forte, o fortissima, pelosità facciale e corporale di alcuni giapponesi viene generalmente attribuita a contatti genetici con i popoli del Nord. Il professor Kuroda apparteneva molto probabilmente a questa interessante genia di giapponesi. In più aveva una faccia profondamente scolpita (diciamo alla Pasolini) che lo faceva vieppiù somigliare a un nativo dell’Hokkaido.
Lasciando da parte queste notazioni di antropologia fisica, il professor Kuroda era una persona squisita, sempre pronta a gentilezze d’ogni genere. Soffriva forse d’un certo complesso d’inferiorità, ma Clé aveva da un bel pezzo imparato che, nei rapporti con gli altri, questa condizione si risolve in una grossa virtù, induce a premure d’ogni genere. L’importante, sul piano etico, è, per gli altri, non approfittarsene.
Il professor Kuroda conosceva bene l’italiano scritto e letterario, stava addirittura traducendo Il Principe di Niccolò Machiavelli, ma nell’orizzonte del parlato zoppicava assai. Come avviene a molti giapponesi, non riusciva a fare una chiara distinzione tra la l e la r, diceva “Rondon” per London e “Loma” per Roma, e neppure questo regolarmente, ma come piaceva al caso. Confondeva poi la b e la o, azzardando “Benezia” per Venezia e “Vologna” per Bologna. Quanto alle sillabe gli, gni e simili, era meglio le saltasse addirittura.
Uno dei primi giorni dopo l’arrivo di Clé a Kyoto, il professor Kuroda si presentò al Club dell’università annunciando con un immenso sorriso: “Oggi vorrei condulle il signor Laimondi a visitare la ‘Birra Imperiale’ di Shūgaku-in...” Clé, di primissimo acchito, ormai ben conscio dell’importanza acquisita in Giappone, dalla fine dell’Ottocento in poi, della bionda bevanda germanica, pensò (ma solo per un istante!) che esistesse a Kyoto una qualche casa di produzione con licenza di fregiarsi del prestigioso aggettivo “imperiale”. Poi capì che si trattava d’un inciampo linguistico, e che la meta della gita proposta era la “Villa Imperiale” dello Shūgaku-in nei dintorni di Kyoto.
Rimandiamo di qualche pagina la visita alla Birra Imperiale. Torniamo invece al Club dell’università e alle telefonate della signora Uriu. “Arà!” esclamò la donna correndo al tavolo di Clé nel corso d’un suo pasto. “Qualcosa pare ci sia... Dicono all’università che un professore americano, Mister Thomas, è recentemente tornato ‘negli Stati’, e che la sua casa dovrebbe essere libera. Non appartiene all’università, bensì a dei privati, quindi sarà piuttosto cara. In compenso sembra sia molto bella. Quando vogliamo andare a vederla?”
Quel pomeriggio i coniugi Uriu accompagnarono Clé a vedere la famosa casa. Dal Club il gruppetto camminò per alcuni minuti verso nord, oltrepassando l’ingresso principale dell’università e traversando il viale che conduce al Padiglione d’Argento (Ghinkaku-ji), famoso tempio e giardino kyotense. Venne poi varcato il portale di legno d’un tempio buddista noto con due nomi. Ufficialmente si chiama Chion-ji (Tempio della Gratitudine), ma popolarmente è noto come Hyakumanben (Il Milione di Volte). Nel 1331 si ebbe infatti una pestilenza a Kyoto che stava causando molti morti; l’abate del tempio fece ripetere un milione di volte una celebre salutare breve preghiera, i cui magici effetti furono ben presto risentiti. A ricordo, il tempio venne ribattezzato popolarmente “Il Milione di Volte”.
Nei paesi buddisti la parola “tempio” non indica (come potrebbe forse immaginare il lettore occidentale) un solo edificio, non è un parallelo dei termini “chiesa”, “moschea”, “sinagoga”. Tempio (tera o, come suffisso, -ji) indica un vasto insieme, un complesso di edifici e di spazi liberi, per lo più ordinati a giardino. Nel caso in questione, varcato il portale d’ingresso si presentò agli occhi di Clé un piazzale ghiaioso al termine del quale si innalzava il padiglione principale, fiancheggiato da altri edifici minori adibiti a vari usi.
Il tutto apparteneva, gli fu detto, alla setta Jōdo, una delle principali nel panorama del Buddismo giapponese. Il tempio non era molto antico, al solito c’erano stati incendi e ricostruzioni (l’ultima del 1662), ma i disegni originali vengono sempre rispettati con rigore, in simili casi. A ogni modo il legno del sacro edificio era, con il tempo, maturato, si era cotto, per così dire, acquistando una preziosa patina d’un marrone scuro.
Dopo aver oltrepassato i vari padiglioni del Milione di Volte, il gruppetto sbucò da un portale secondario su di una stradina ghiaiosa, fiancheggiata da case basse di ottima presenza tradizionale, e da giardini recintati con muretti ben tenuti sui quali fiorivano addirittura delle gardenie.
“Ecco la casa!” esclamò Miki Uriu, puntando la mano verso un edificio d’aspetto neutro ma solido, meno curato delle villette vicine, con qualche albero e una traccia di giardino trascurato, recintato da un muretto alto come un passante, tutto intorno. “Esimio Kami delle case, grazie!” mormorò Clé sorridendo dentro di sé. “Ancora una volta ce l’hai fatta, simpatico intrallazzone!”
Infatti la casa si poteva ben dire ideale; somigliava parecchio a quella dell’Undicesimo Viale, lasciata da poco a Sàpporo. Era concepita all’occidentale, cioè a stanze con impiantiti di legno, non con le stuoie tatami alla giapponese, quindi con sedie e tavoli nella saletta da pranzo, nel salotto e nello studio, e con letti nella stanza per dormire; anche il bagno era all’occidentale. C’era inoltre una comoda cucina, e c’erano due stanze alla giapponese per la cuoca ed eventuali aiutanti casalinghe. Malachite, appena arrivò da Tokyo, fu contentissima, e sì che era divenuta, con il tempo, piuttosto difficile da soddisfare!
Dalle finestre si godeva una veduta che non aveva nulla in comune con quelle drammatiche e splendide della torre de’ Marsili o di Fiesole, ma che nel suo modo umile e casto era squisitamente caratteristica del vecchio Giappone. È stato detto tante volte che l’architettura sino-corean-giapponese è un’opera di tetti; i quali poi si presentano con curvature più o meno accentuate, più o meno eleganti. Si è anche supposto che la curvatura derivi dal Nord, dall’uso dei nomadi di farsi delle tende con pelli d’animali e poi di sollevarne i lembi con dei pali. Insomma dalle finestre si indovinava, tra una dolce confusione di rami di pino, la parte più alta del gran tetto che ricopriva il padiglione maggiore nel tempio di Hyakumanben. S’indovinavano anche, da sotto in su, i profili verdissimi delle colline che limitano Kyoto a Levante, e che vanno a culminare nel monte Hiei (843 metri).
La località dove i Raimondi sarebbero andati ad abitare si chiamava Asukai-chō, cioè “Borgo del Pozzo d’Asuka”. Asuka a sua volta significa “Uccello che vola”. Insomma il tutto significava “Borgo del Pozzo d’Uccello che Vola”. Nome curioso, ma tipico e pregno di riferimenti storici. Mille anni fa, nell’era di Heian (794-1185) si chiamavano asuka certi canti popolari. Il nome fu poi adottato da un poeta e campione di kemari (una sorta di pacato e cerimoniale gioco del calcio), notissimo nella società elegante del tempo, il quale lo trasmise ai suoi discendenti, evidentemente stabilitisi da quelle parti di Kyoto.
Era insomma un nome altamente miyabiyaka, come spiegò Miki Uriu a Clé, cioè “antico e gentile”.
* * *
Due o tre giorni più tardi Miki Uriu, quasi casualmente, disse a Clé: “Sa che c’è un altro italiano qui a Kyoto? Le farebbe piacere incontrarlo?”
“Certo!” esclamò Clé. “Dove sta? Come si chiama?”
“Non lontano, poco oltre il tempio di Hyakumanben... A pochi chō (centinaia di metri) dalla casa che abbiamo visto per lei. Mi pare si chiami Somi.”
Miki e Clé si avviarono dunque alla scoperta dell’enigmatico “altro italiano”, nel primo pomeriggio d’un giorno piovoso d’aprile. Oltrepassato il tempio di Hyakumanben, invece che a sinistra, voltarono a destra. Qualche centinaio di metri più avanti, verso Kitashirakawa, Miki si fermò dinanzi a una villetta dall’aria vagamente straniera, e suonò alla porta. Venne ad aprire una oba-san (signora zietta) sulla cinquantina, con un fazzoletto antipolvere in testa.
“Buongiorno,” fece Miki, “c’è il signor Somi?”
“Sì,” rispose la zietta. “Somi shimpu-san (il babbo d’Iddio) dev’essere nello studio...”
Mild e Clé vennero introdotti nello studio, un’ampia stanza luminosa con le pareti tappezzate di libri, tutti rilegati alla stessa maniera con uguali cartellini sulle costure (“Aria di istituto” pensò subito Clé, e infatti, come più tardi scoprì, tale era). Fatte le dovute presentazioni, Mild si ritirò seguendo la zietta, Somi e Clé rimasero soli.
“Si accomodi,” fece Somi, cioè Adriano Somigli, tirando avanti un’accogliente poltrona, e sedendosi a sua volta all’angolo d’un divano.
Dopo appena poche frasi, Clé capì che il famoso Somi, babbo d’Iddio, era anche lui fiorentino, che aveva la medesima età, e che aveva frequentato illo tempore le medesime scuole. Quale straordinaria coincidenza!
“È quasi incredibile,” esclamò Clé, “che non ci siamo incontrati da ragazzi in riva all’Arno, e ci dobbiamo incontrare da adulti in riva al Kamo-gawa!”
“Be’ un altro mistero,” commentò Somi ridendo, “da aggiungersi ai tanti di questa poco comprensibile vita.”
Naturalmente venne spontaneo tra i due passare dal “Lei”, che gela e irrigidisce i rapporti, al “Tu” che miscela gli animi.
Intanto Clé osservava curioso il giovane uomo che gli stava dinanzi. Naturalmente per primissima cosa notò la stola candida da domenicano che egli indossava. Sedendosi se l’era aggiustata con cura, in modo che le pieghe cadessero con ordine e con eleganza sui piedi. Ora le sue lunghe dita dinoccolate, con i polpastrelli a spatola (“Da vero filosofo” ebbe a riflettere Clé) gli restavano posate in grembo, come un mazzetto di asparagi pallidi e prelibati.
“Hai trovato già da sistemarti?” chiese Somi con simpatica attenzione. Apparentemente sapeva già tutto del lettorato d’Italiano all’università, non occorreva neppure parlarne. “Riguardo agli stranieri, Kyoto è poco più d’un villaggio,” aveva sentito dire più volte Cle.
“Ti dirò, ho avuto una fortuna straordinaria. Ho trovato un’ottima casa qui vicino, pochi chō più giù verso il centro. Tra qualche giorno saranno qui anche mia moglie e le nostre due bambine... Ah, ah, secondo me, sono protetto da un Kami trovacase... Anche a Sàpporo lui mi procurò un posticino invidiabile, e lassù guai a capitare male, si rischia di restare gelati come un sorbetto.”
“Oppure è un gentile Bodhisattva a proteggerti? A Kyoto sai i Bodhisattva battono i Kami per lo meno tre a uno! E qui a Hyakumanben ne dobbiamo avere un battaglione a farci la guardia... Altro che angeli custodi!”
Clé continuò a scrutare il suo interlocutore. Era un giovane uomo dai capelli neri, ma bianchissimo di pelle. Portava degli occhiali ascetici e ricercati insieme, con lenti nude e stanghette sottili d’oro. I capelli erano tagliati, impomatati e pettinati con la cura estrema del ritualista. Le scarpe, nere, erano di ottima fattura e lucidate al limite del lucidabile. Clé avvertì subito in Somi una attenzione maniacale alla propria persona, un culto quasi lascivo delle apparenze, un amore del bello di marca botticelliana, un’avversione per l’esibirsi al naturale, un terrore di venire ritenuto sgradevole o grossolano, un bisogno di rifugiarsi in simboli, o in sotterfugi simbolici. A tutto ciò si aggiungeva un fraseggiare sinuoso e saltellante interrotto ogni tanto da improvvisi paradossi, così, per “epatare il borghese”. Ultima, nascostissima, s’intuiva una fondamentale bontà e generosità d’animo che si manifestava suo malgrado con un gesto, una parola, uno sguardo, e di cui sembrava quasi vergognarsi.
Per qualche breve istante Clé si sentì sull’orlo del disagio. Somi da diversi anni parlava solo francese, inglese, latino, giapponese, e aveva in parte dimenticato l’italiano. Ma lo faceva apposta o era vero? Soltanto alcuni giorni dopo, quando Somi tornò a parlare vernacolo come se non si fosse mai mosso dal Canto della Ninna o da via de’ Calzaiuoli, Clé capì che era stato un fenomeno del tutto naturale.
“Ma com’è che sei capitato qui a Kyoto?” chiese Clé molto incuriosito.
“Be’, che vuoi che ti dica?” rispose Somi, aggiustandosi ancora le falde della candida tonaca. “Terminato il liceo, che frequentai al Galileo...”
“Già, io invece lo feci al Dante...”
“... mi prese una crisi mistica, ma di quelle perniciose, ed entrai in un convento domenicano vicino a Firenze, dove rimasi per vari anni (e dove – Clé venne a saperlo in seguito – si cresimò con successo a tutti i livelli possibili, finendo regolare sacerdote). Intanto, m’appassionavo alle lingue, che imparavo con grande facilità. Prima digerii quelle solite, francese, inglese, un bel po’ di tedesco, una spruzzatina di russo. Poi mi prese il pallino di quelle più particolari, l’ebraico, il sanscrito, il cinese classico. Qui alle lingue s’aggiungevano le scritture sibilline... Quanto mi piaceva riuscire a capire una pagina di geroglifici che per gli altri era solo un mistero decorativo! Per fortuna digerivo gli ideogrammi come lasagne... Insomma ‘questo – si debbono esser detti i miei superiori – è fatto apposta per spedirsi in missione’. Così fui catapultato nel Canada francofono. Ma ci stetti poco... Che uggia di provincia! Mi sembrava d’esser tornato a vivere ai tempi di Pascal... Finalmente si presentò l’apertura Giappone: Kyoto! E mi lanciai come un gatto che ha sentito odor di topo.”
“Allora ti trovi bene qui?” chiese Clé. “Sei soddisfatto?”
“Be’, sì e no...” rispose Somi, togliendosi gli occhiali e ripulendoli con un fazzoletto fresco di piegatura, pescato da un’invisibile tasca. “Siamo in quattro: padre Landin, canadese francofono, che abita al piano di sopra. Poi ci sono due professori giapponesi esterni che lavorano nell’istituto.”
“Hai visto” pensò a lampo Clé, “l’avevo capito!”
“Il programma è pazzesco. Vogliono tradurre in giapponese la Summa Theologica di san Tommaso d’Aquino, capisci? Il buon Landin, e i suoi superiori canadesi, tutta brava gente, ma medievale... medievale all’estremo! Come se vivessimo nel 1341, non nel 1941, sono dell’opinione perniciosa che esista un pensiero universale. Quindi tradurre è un amabile giochetto. Sostituisci le piastrelle latine con le equivalenti piastrelle giapponesi, e ti viene fuori l’impiantito originale, solo con altro ed esotico colore. Ma l’integerrimo Landin, vedi, di giapponese ne mastica poco, quello delle conversazioni d’ogni giorno. Per forza, una testa è atama, un piede è ashi, un cavallo è uma eccetera, ma quando ti lanci tra le nubi della filosofia le cose cambiano, e di brutto. Io mi sono ormai persuaso che le lingue ‘fanno’ pensiero, ‘causano’ pensiero, specie se appartengono a civiltà diverse tra di loro. Come si fa, per esempio, a tradurre quidditas?”
“Oh là là, bienvenu à l’ami florentin de Somi!” Era padre Landin che aveva aperto la porta dello studio e stava lì in piedi accanto ai due giovani; i quali si alzarono anche loro per salutare colui che era, e si sentiva visibilmente, il capo dell’istituto San Tommaso, di Kyoto.
“Go-yukkuri kudasai... (prendetevela con comodo),” proseguì padre Landin, evidentemente felice di mostrarsi a suo agio in giapponese. “We shall have ample time for happy conversations... A tout à l’heure!” Poi il padre, salutando, e con una amabile piroetta, sparì.
Certo, sarebbe stato difficile immaginare un essere umano più diverso da Clé. Padre Landin, forse d’un decennio più anziano di Somi, non indossava la stola domenicana, e neppure un clergyman, bensì una giacca di lana color fulvo su dei calzoni grigi; e aveva la camicia aperta. Insomma ricordava molto più un proprietario di ben tenute campagne, che un direttore d’istituto, addetto a impossibili traduzioni.
Clé e Somi ripresero la loro conversazione, parlando un po’ di Kyoto e dei vari professori dell’università.
“Ah, ah, il buon Kuroda!” esclamò Somi. “Scommetto che t’ha già invitato a visitare la Birra Imperiale, vero? È il suo cavallo di battaglia... Mi ci condusse un paio d’anni fa, quando giunsi a Kyoto. Appena arriva un ambasciatore o un console italiano da queste parti, via alla Birra Imperiale! Ma di Birre Imperiali ce ne sono due a Kyoto, lo Shūgaku-in e il Katsura Rikyū. Lui però il Katsura Rikyū lo ignora regolarmente. Chissà perché? Invece è una Birra bellissima, o meglio ‘berrissima’, non dimenticare di visitarla, anche senza Kuroda-sensei...”
La porta s’aprì, comparve la zietta spingendo un carrello con una grossa teiera panciuta, due tazze azzurrine, e due piatti di dolci.
“Tutta roba fatta in casa” disse sorridendo la zietta, “vero, Somi shimpu-san? Anche il suo amico sarà contento, ne sono sicura...”
“Caro babbo d’Iddio,” fece ridendo, in italiano, Clé, “vi trattate bene voi traduttori dell’impossibile, eh?”
“Purtroppo la settimana prossima dovrò recarmi a Sendai, a Nord di Tokyo,” disse con un sospiro Somi, infilandosi in bocca uno spicchio di dolce fatto in casa, “per seguire un corso di filosofia buddista.”
“E dovrai abbandonare questo paradiso di ziette, di dolci e di delizie intellettuali, vero?”
“Eh già,” concluse Somi. “Ma ti telefonerò appena rientrato. Sono felice di sapere che stai qui vicino. Ne avremo di argomenti di cui parlare!”