2. La città di Murasaki
“Ma è straordinario!” esclamava Malachite. “Qui stiamo scoprendo un’intera letteratura prima totalmente sconosciuta! E che livello di creazioni... Per me sono al pari di Balzac, Baudelaire, Maupassant, Proust... E pensa, dieci secoli fa, intorno all’anno 1000. Cosa eravamo capaci di fare a quei tempi ottenebrati in Occidente? I bambolotti sui capitelli o sui portali delle chiese romaniche... Pensa che decadenza dai tempi romani, per non dire nulla dei greci... Che smarrimento nella percezione del mondo! Che paralisi nella ricostruzione del mondo! Qui fioriva invece un massimo di civiltà. Della dama Murasaki, e del suo Genji monogatari (Il romanzo di Ghengi) sapevamo già, ma io credevo, scioccherella, che fosse un’opera unica, isolata, un prodigio senza antenati né pronipoti. Invece ce n’è un intero scaffale, di capolavori! Me l’ha detto Taeko e me li ha mostrati. Parecchi sono tradotti in inglese o in francese, dunque accessibili anche a noi poveri mortali. Li dobbiamo cercare, trovare, comprare, leggere!”
Il trasferimento da Sàpporo a Kyoto era stato in fondo molto più importante per Malachite che per Clé. Malachite aveva risentito più vivamente e con maggior beneficio del passaggio da una città giapponese di frontiera, per non dire addirittura sotto certi aspetti coloniale, a un’antica capitale dell’impero, grondante cultura da ogni poro, con purtroppo poche tracce visibili del suo passato glorioso (legno, fiamme, incendi), ma innumerevoli echi da cogliersi nelle opere poetiche e letterarie di quel periodo fatato e beato.
“Ah, ma sai Clé,” annunciava spesso Malachite, “qui mi sento finalmente davvero felice! Quante cose da imparare! Quante cose da scoprire, da vedere, da apprezzare! Che arricchimento e ampliamento dell’endocosmo – come dici tu! In Hokkaido tu avevi i tuoi Ainu da studiare, ma io che avevo, oltre la casa e le bambine? Sì, qualche buona amicizia, come Mathilde... Mancavano però gli stimoli mentali.”
In questo nuovo panorama, Malachite era divenuta la forza trainante della coppia. Era lei che faceva le scoperte, che prendeva nuovi contatti, che si buttava in avanti. Appena un mese dopo il trasloco, si era iscritta a una scuola di cha-no-yu, letteralmente “Acqua-calda-del-tè”, in realtà molto di più, la quintessenza della cultura giapponese che si cela nei “riti del tè”: gesti, comportamenti, fiori, poesia, ceramica, pittura, calligrafia, storia, architettura, giardini, lacche, ferro battuto o fuso, dolci, lingua ad alto livello. “Nel cha-no-yu tutto converge,” diceva talvolta Malachite, “e tutto ne diverge.” Il maestro, Murakami-sensei, era famoso e insegnava in una sala del tempio Ghinkaku-ji (del Padiglione d’Argento) non lontano da casa. Suo fratello pare fosse un alto prelato del tempio stesso, ma si vedeva di rado e sembrava voler tenere le distanze con i forestieri. Invece la “sorellina” giovane, Taeko, era subito diventata grande amica sia di Malachite che di Clé.
Taeko avrà avuto ventiquattro o venticinque anni. Non si poteva dire una bellezza, ma aveva la notevole attrattiva, secondo Clé, di essere “elegantemente compatta”. I capelli nerissimi, lucidi, curati, le formavano un caschetto sempre in perfetto ordine sul capo, lasciando libero un collirio di giusta robustezza nel quadro d’insieme. Taeko vestiva normalmente alla giapponese, e ora che si stava entrando nell’estate, la ragazza indossava volentieri degli yukata, dei kimono leggeri di cotone a vistosi disegni blu scuro su fondo bianco (o bianchi su fondo blu cupo). I piedi erano adorabili, l’epitome della compatta eleganza: curatissimi, ma non uggiosi né di lusso, e senza lacche alle unghie. Taeko saltellava allegramente di qua e di là, inginocchiandosi con sofisticata agilità per aprire e chiudere le porte scorrevoli, per salutare gli ospiti, per porgere loro sopra un vassoio tè e dolcetti. Osservarla era un piacere.
Taeko era laureanda in Kokubungaku (Letteratura giapponese) e stava facendo delle ricerche su Sei Shōnagon (undicesimo secolo), autrice del celeberrimo Makura no Sōshi (Le Note dell’Origliere). Ecco perché poteva fare bene da guida a Malachite nelle sue scoperte riguardanti le lettere dell’era di Heian.
“Ma com’era questa famosa era di Heian?” chiese Clé incuriosito e affascinato.
Murakami-sensei parlava discretamente l’inglese, ma era troppo preoccupato di non fare errori. L’inglese di Taeko era molto più approssimativo e avventuroso, ma anche più spigliato. Per fortuna fu Taeko a rispondere.
“Intanto bisogna dire che fu lunghissima, durò quasi quattrocento anni dal 794 al 1185, con tutti i cambiamenti che si possono registrare in un periodo così esteso di tempo. La sua caratteristica principale fu una pace quasi continua. E il governo dei civili, cioè dei nobili di casa Fujiwara. Sembra che durante questi secoli non si applicasse mai la pena di morte. Insomma furono tempi civilissimi. Straordinariamente raffinati. Forse queste caratteristiche si riferiscono più che altro alla città di Heian, poi detta Kyoto, e non tanto alle province, specie quelle lontane. E forse anche a Kyoto bisognava avere a che fare in qualche modo con la corte, per sentirsi veramente ‘civili’. Ma certo, il quadro che ci dona la letteratura della società di Heian è del tutto fuori dell’ordinario per finezze di costumi, per le sensibilità estreme raggiunte nelle relazioni umane, negli amori, per il culto poetico della natura in ogni suo aspetto... Peccato che ben poco d’altro resta a noi posteri. I palazzi, le ville, i templi, che dovevano essere di fatata bellezza, sono andati in fiamme e fumo chissà quando... Salvo uno!”
“Salvo uno?” chiese molto incuriosito Clé. “E quale?”
“lh, ih,” esclamò con uno dei suoi risolini quasi privati Taeko, “è il Byōdō-in, ‘il Tempio dell’Uguaglianza’, a Uji...”
“Ci condurrai da quelle parti?” chiese subito Malachite.
“Certo, quando volete!” rispose allegramente Taeko. “Faremo una scampagnata memorabile, se il tempo ce lo permetterà!”
In giugno, dicono tutti, piove, piove. Ci sono i monsoni in arrivo. Dall’India, e talvolta dallo Yemen, fino al Giappone del Nord imperano i cieli coperti. E giù acqua! In casa, dall’umido che fa, c’è sempre odor di muffa, i libri se li divorano certi piccoli insetti dotti e voraci, gli armadi sanno di stantio. In compenso fa spesso fresco. La notte ci vuole una buona coperta. Ma non quell’anno; non si capiva perché, anche in giugno ci fossero delle splendide giornate di sole, con aria secca, cieli azzurri e soltanto qualche nuvoletta inoffensiva, candida, gaia, che navigava a galeone sul tramontano leggero. Una festa!
In una di queste belle giornate, Taeko, Malachite e Clé, presero il trenino per Uji, una quindicina di chilometri a sud di Kyoto. La carrozza fu riempita prima della partenza da una scolaresca in gita, ragazzi e bimbette tra gli otto e i dieci anni che gridavano felici a pieni polmoni. Avrebbero dovuto essere in uniforme, ma si vede che i loro maestri non erano troppo severi: delle uniformi, in verità, erano rimasti solo i cappellini di cotone, gialli per le femmine e rossi per i maschi.
Malachite aveva portato con sé una copia del volumetto di Waley con le sue traduzioni del Makura no Sōshi di Sei Shōnagon; ma con il frastuono della scolaresca in vacanza, aveva poi finito per rimettere il libro nella borsa con le colazioni. Era riuscita però, giusto in tempo, a captare con gli occhi il famoso passaggio in cui l’autrice dice di non essere molto interessata alle letture dei sacri Vangeli buddisti (sutra), “a meno che il bonzo che dà le spiegazioni non sia giovane e bello!”. “Che incantevole frivolona,” pensò Malachite tra sé. Clé notò il lieve moto di piacere sul volto della compagna, e gliene chiese la ragione. Saputala, essa fu poi il punto di partenza, nella testa del giovane, per lunghe e vaghe riflessioni riguardanti il miracolo del segno scritto, e come questo, nonostante nove secoli e il salto di due lingue diversissime, mantenesse ancora potere d’evocazione.
“Uji... Uji... Uji...” ripeteva una roca voce meccanica, mentre il treno rallentava e s’arrestava, con l’accompagnamento d’un rabbioso stridio di freni.
Mentre i tre scendevano, una bambina, con la quale Malachite aveva intrattenuto un dialogo di sguardi e di sorrisi, chiese alla forestiera: “O-Kuni wa dochira desuka? (Qual è il tuo Paese?)” Malachite rispose: “Itarì.” Al che la piccola soddisfatta esclamò: “Ah, capito: Nichi-Doku-I, Giappone-Germania-Italia, vedi che lo so!”
A quei tempi, purtroppo per ragioni sbagliate, si parlava molto in Giappone dell’Italia, perfino a livelli popolari, a livelli scolastici. C’era anche chi, talvolta, dopo avere appurato le origini di Clé o di Malachite, si alzava sollevando le braccia e gridando: “Mussolini-Kakka, banzai!” Qui va detto che kakka (ai piedi del trono) significa “eccellenza” e non costituisce una scatologica offesa.
Fatti sette, otto minuti di cammino, fu scorto in distanza il Byōdō-in.
“Ah, eccolo!” gridò Malachite. “Che meraviglia!”
“Ora faremo il giro del laghetto,” disse Taeko, “così lo ammiriamo nell’insieme da una certa distanza. Poi lo raggiungeremo, così potremo entrare nella cappella con il grande Budda dorato, scolpito da jocho.”
“Di che anno è?”
“Intorno al 1050... 1053 mi pare, se vogliamo essere pedanti.”
“Incredibile! E non è mai stato preda delle fiamme?”
“No, pare proprio di no. È un autentico, assoluto miracolo. Poi, nei secoli passati, non era come oggi che ci sono i guardiani, che si paga il biglietto d’ingresso. Doveva star qui aperto a tutte le intemperie, in mano, per così dire, al folle che avesse voluto darvi fuoco, così magari solo per riscaldarsi, o per l’allegria d’una bella fiammata.”
“Originariamente, nell’anno 1000 circa, qui i principi Fujiwara, governatori civili ereditari dell’impero,” proseguì Taeko, “si erano fatti un centro di grande potere e di straordinario splendore. Pare che ai tempi di Michinaga, il più potente di tutti i Fujiwara, sorgessero qui trentatré padiglioni e ben sette pagode. Era un po’ villa, un po’ monastero, un po’ tempio: uno scenario meraviglioso per le elaborate cerimonie, in parte religiose, in parte civili, che rendevano così teatrale la vita di quei tempi. Yorimichi, il primogenito tra i tanti figli di Michinaga, più religioso e mistico del padre, volle accentuare l’aspetto monastico del luogo, trasformando il padiglione che vediamo adesso, da luogo di delizie profane in vero e proprio tempio, e facendolo ornare dai massimi scultori e pittori del tempo.”
“E il resto?”
“Pare che prima o poi bruciasse tutto. Solo il Byōdō-in è rimasto prodigiosamente illeso. Io sono della teoria, molto diffusa del resto, che sia stata la presenza del laghetto a salvare l’edificio. Oggi ne fiancheggia solo un lato, ma fino a epoche abbastanza recenti pare lo circondasse tutto. E questo specchio d’acqua, anche se piccolo, dev’essere stato la salvezza del tesoro.”
“Oh, ma è davvero incantevole!” continuava a esclamare Malachite, accucciata sull’erba della sponda. “Guarda, Clé, la deliziosa inutilità di quei padiglioncini laterali, troppo piccoli e bassi per essere praticabili, però perfettamente in scala con il resto.”
“Ti penti adesso,” osservò Clé, “d’aver gettato pennelli, colori e tavolozza?”
“Eh sì,” sospirò Malachite. “Ma forse tenterò la pazzia di riprendere. Solo che ho paura del Verde Maggiore che sottolinea i paesaggi di qui. Non l’ho negli occhi. Ho ancora nella retina la chiave giallo-blu (rocce-mare) della Sicilia.”
Taeko, la laureanda, che qualche volta amava fare la pedante, osservò, a beneficio degli amici italiani, che l’intero edificio rappresentava una fenice, un uccello favoloso, leggendario, importantissimo nella mitologia dei tempi, visto mentre plana a terra dopo un volo. E ne identificava le ali, il capo, la coda. Infine mostrò agli amici le due fenici di bronzo dorato che sorgevano sul colmo del tetto.
“Come classificare questa cosa stupenda?” diceva Malachite quasi parlando a se stessa. “Rovina, assolutamente no. D’altra parte ha il fascino delle antichità estreme. È come trovarsi dinanzi a un tempio greco, ma di materia fragile. È che da noi non siamo abituati a guardare, apprezzare, onorare, celebrare il legno! Il legno ci sembra necessariamente provvisorio, boschereccio, materia minore. Forse qui ci vorrebbe un finnico, un norvegese, un russo del lago Ladoga, gente con gli occhi calibrati al legno come ‘materia maggiore’.”
Senza fretta, soffermandosi ogni tanto per godere il prodigio da un nuovo punto di vista, i tre costeggiarono il laghetto, fino a raggiungere il punto in cui si avvicinava una delle ali della fenice nel suo mitico atterraggio. Da lì, camminando tra le colonne di legno dell’edificio (viste da vicino rivelavano la loro incredibile età), raggiunsero la cappella centrale. C’erano parecchi visitatori, giapponesi delle più varie età e condizioni, silenziosi, rispettosi, uniti in uno dei loro consueti pellegrinaggi, nei quali congiungono pensosamente estetica e religione; religione, natura, storia e culto delle glorie nazionali.
La cappella centrale era in buona parte occupata da una statua più grande del naturale, di legno e stucco dorato, raffigurante uno dei Cinque Budda Supremi, e precisamente Amida (in sanscrito Amitabha) assorto in profonda meditazione.
Clé si sentì stringere dolcemente una mano. Era Malachite. Niente parole. Un segnale segreto, come dire: “Sì, concordo! È grande, è bello! Ammiriamolo uniti!”
“Ma guarda lassù!” esclamò improvvisamente Malachite, liberando la mano-messaggera, e puntandola verso la parte alta e bianca delle pareti che racchiudevano la cappella.
Infatti le pareti erano decorate da un numero ragguardevole di Bodhisattva in legno nudo, raffigurati come angeli musicanti, ciascuno con il suo strumento, opere d’una finezza squisita, d’una dolce soavità sognante.
“Sei sicura, Taeko,” chiese Malachite, “che siano coevi del il tempio e del Budda maggiore?”
“Be’, almeno così ci assicurano gli storici dell’arte. La disposizione, il muro bianco, pare siano aggiustamenti recenti. Del resto cosa ci si potrebbe immaginare di più squisitamente Heian di questi angeli, abitanti del Paradiso d’Amida? I musicisti della corte di Heian non erano certo molto diversi, e forse servirono da modelli agli scultori dell’epoca.”
“E dimmi, Clé,” interruppe Malachite, “nella tua esperienza tibetana hai visto qualcosa di simile?”
“Più volte! Il Paradiso d’Amida, o d’Amitabha, o in tibetano di Öpamè, è uno dei grandi temi dell’arte buddista d’ogni secolo e di molti paesi. In Cina, durante la dinastia T’ang, se ne produssero di stupendi. Del resto, correggimi Taeko se sbaglio, ma probabilmente i Fujiwara, nel loro complesso di ville, templi, padiglioni, pagode qui a Uji, non erano guidati dall’idea di riprodurre in terra un Paradiso d’Amida? Erano riusciti a soggiogare i loro contemporanei con le astuzie e le finezze della politica, ora li potevano sbigottire ricevendoli addirittura ‘in Paradiso’!”
“Probabilissimo!” esclamò Taeko. “Una delle armi di maggior potenza dei Fujiwara era quella di dare le proprie figlie in mogli agli imperatori. Sia Michinaga che Yorimichi furono suoceri di imperatori... Capisci che posizione di privilegio? Yorimichi riuscì perfino a ricevere l’imperatore suo genero qui a Uji. Immaginati il corteo divino che avanza lentamente da Kyoto: l’impressione che doveva fare su tutti i giapponesi! Che allora erano pochi milioni concentrati in gran parte qui, vicino alla capitale. ‘Il Celeste Signore, discendente della dea solare, viene a trovarmi... Dunque sono io il più forte, il Massimo, il numero Uno – tenetevelo bene in mente!’”
Nel gran rimescolio d’immagini, storiche e del momento, Clé non riusciva a cacciare dalla mente le segrete visioni delle sculture che si producevano in Occidente intorno al 1000. Quei personaggi talvolta divertenti, ma fondamentalmente rozzi, rigidi, poco più che abbozzati, prodotti di occhi e di mani che non riuscivano a leggere la realtà, a dominare la materia. Era una comparazione penosa, umiliante! Ma poi un suo diavolino interno, più critico e ragionevole, gli gridava: è sciocco paragonare cronologicamente tra di loro civiltà del tutto indipendenti! Non si saltano impunemente i muri delle idee! Lascia stare le comparazioni, ammira il tuo Heian come un felice Ellenismo fiorito ai confini del mondo!