3. La città di Yoshimasa
Povera Kyoto! Dov’era più la grande e bella città, pacifica e cortese, cosparsa di ville e giardini, di templi e santuari, così caratteristica dell’era di Heian? Nella quasi totalità in fiamme, fumo e cenere...
I governanti civili, i nobili della casa Fujiwara e delle tante famiglie a loro affiliate, si erano divisi in fazioni. Queste non presero le armi direttamente, ma chiamarono in loro aiuto dei guerrieri dalle province. I guerrieri, i samurai, misero le cose a posto, ma s’accorsero d’essere più forti dei loro padroni. Perché servirli allora, perché non mettersi in proprio? Già con il 1156 si ebbe una prima e disorganizzata dittatura dei militari di casa Taira, che durò una trentina d’anni. Ai Taira, che avevano scontentato tutti, si opposero fin dal 1181 i Minamoto, molto meglio organizzati e più decisi. La guerra civile che seguì, la guerra Ghempei, durò fino al 1185, e portò a una completa vittoria dei Minamoto.
La guerra Ghempei va chiamata “civile” solo nel senso che venne combattuta tra giapponesi; essa non coinvolse l’intera popolazione dell’arcipelago, ma soltanto piccoli gruppi di guerrieri e di militari professionisti. Ciò colpì profondamente l’animo collettivo, divenendo per i posteri un’ispirazione perenne nelle lettere, nelle arti, e nel teatro. Ancora oggi, per esempio, episodi della guerra Ghempei compaiono spesso in televisione e sono soggetti di opere del cinema popolare. La guerra Ghempei è un po’ per i giapponesi quello che fu lo scontro tra achei e troiani per i greci, o quello tra paladini e saraceni per l’Occidente medievale.
I nuovi dittatori militari ottennero ben presto dall’imperatore la patente di shōgun (“generalissimo”, sottinteso “che sottomette i barbari”) e trasferirono la loro sede di governo a Kamakura, cinquecento chilometri a est di Kyoto, non lontano dall’odierna Tokyo. Il nuovo governo, che prese successivamente varie forme, durò per quasi un secolo e mezzo. Kyoto non soffrì gravi danni, ma perse prestigio e decadde in sostanza al rango di città provinciale. Il peggio però doveva ancora arrivare.
Nel 1319 salì al trono l’imperatore Go-Daigo, il quale fece ben presto capire di volersi liberare degli shōgun, o di altri intermediari, e di voler governare direttamente la cosa pubblica, come facevano i suoi avi lontani. Purtroppo erano trascorsi ormai troppi secoli da quando gli imperatori imperavano davvero, e si erano intanto costituiti fortissimi interessi intesi a tenere il sovrano giapponese chiuso nella sua gabbia dorata. Finché si limitava a “simboleggiare” il potere supremo, delegandolo poi a un suddito, civile o militare che fosse, tutto procedeva regolarmente, ma pretendere di “esercitare” il potere era un intollerabile anacronismo. Go-Daigo persisteva nei suoi intenti? Ebbene, un astuto e aggressivo signore della guerra, Takauji Ashikaga, dopo molti alti e bassi di fortuna, finì per deporre il sovrano, ed elevare al trono un altro imperatore compiacente, sempre del sacro sangue: Komyō, che lo nominò prontamente shōgun (1338). Insomma il tentativo di Go-Daigo, dopo un successo di appena due anni, finì nel più completo disastro. Non solo, ma la casa imperiale restò divisa in due tronconi, e per quasi sessant’anni si ebbero due corti parallele, una del Sud e una del Nord. Finalmente quella del Nord riuscì, con qualche dubbio persistente da parte degli storici sulla validità dell’operazione, a prevalere.
A ogni modo era stato arrecato un danno gravissimo all’apparato statale, e il Giappone per molto tempo non fu più quello di una volta. Ci si avviava inesorabilmente verso un disordine totale, verso quella che gli storici giapponesi chiameranno poi il Sengoku Jidai (l’età del Paese in Guerra) che durò dal 1480 circa al 1560.
Lo shogunato degli Ashikaga, che prese l’avvio nel 1338 e durò in teoria, lungo una successione di quindici titolari, fino al 1573, si distinse, salvo nei decenni iniziali, per una pessima amministrazione e per la più deplorevole irresponsabilità. D’altra parte, come talvolta è successo nella storia, i cattivi governanti furono splendidi, generosi e intelligenti mecenati.
Già dai tempi di Yoshimitsu, il terzo della serie (regna dal 1367 al 1395), i lineamenti tipici della dinastia appaiono chiari. La capitale è in preda a disordini, ma lo shōgun si ritira nella sua villa di Kitayama, detta per il suo splendore Kinkaku (il Padiglione d’Oro); e lì ha per ospiti i due massimi maestri, e si può dire creatori, del teatro Nō: Kan’ami e Zeami, padre e figlio. Insomma i suoi contemporanei potevano maledire Yoshimitsu per la sua inefficienza, ma i posteri debbono benedirlo per aver fatto nascere e crescere alla sua corte una forma di teatro tra le più originali e più nobili del mondo.
Alla morte di Yoshimitsu il Padiglione d’Oro venne trasformato in tempio buddista (Kinkaku ji), com’è ancora adesso. La storia del mirabile edificio si spinge fino ai giorni nostri. Chi voglia saperne di più può leggere Il Padiglione d’Oro, una delle opere migliori e più profonde dello scrittore giapponese Yukio Mishima, morto clamorosamente suicida nel 1970.
Con Yoshimasa, l’ottavo shōgun della casata Ashikaga (regna dal 1449 al 1474, muore nel 1490) la forbice, per così dire, tra la valutazione dell’uomo di stato e il ricordo del mecenate e del finissimo maestro d’estetica vissuta e praticata nelle forme più diverse, si divarica al massimo, a estremi quasi insostenibili, appena comprensibili. Peccato originale degli Ashikaga fu quello d’essere rimasti a Kyoto, sede della corte con i suoi nobili, e quindi terreno fertilissimo di rivalità e d’intrighi d’ogni genere. Gli shogunati di successo, quelli dei Minamoto o dei Tokugawa, si erano allontanati, o si sarebbero in seguito tenuti lontanissimi dalla capitale formale, creando un loro centro geografico di potere.
Yoshimasa, per indole personale, chiudeva del tutto gli occhi sulle spiacevoli realtà d’ogni giorno, trascorrendo il suo tempo nella (si dice) splendida dimora di Muromachi quasi al centro di Kyoto, insieme a poeti, pittori, architetti, creatori di giardini, artigiani del ferro e della lacca, ceramisti, maestri d’ikebana e altri specialisti d’estetica giapponese, allora in un periodo di splendore creativo.
Intanto la genia dei signori della guerra divisi in più casate mettevano a ferro e fuoco gran parte di Kyoto e dei suoi ameni dintorni. A un certo punto le operazioni si polarizzarono nelle contese tra due principali famiglie, gli Hosokawa e gli Yamana, ed ebbe inizio la cosiddetta guerra civile di Onin, la quale durò addirittura undici anni, dal 1466 al 1477. Alle origini v’erano state delle questioni complicate di successione shogunale, ma poi gli scontri divennero confusi perdendosi in un vero periodo d’anarchia. Risultato: Kyoto fu quasi totalmente rasa al suolo. Costruire in legno comportava molti vantaggi, ma anche il pericolo grandissimo delle fiamme: una volta dato fuoco a un edificio, specie se c’era vento, era quasi impossibile arrestare il disastro.
Con il 1470, a metà della guerra d’Onin, Yoshimasa fu costretto a sloggiare dalla dimora di Muromachi. Fu allora che si costruì una villa, molto più modesta di quella del suo avo Yoshimitsu, sulle prime colline del monte di Levante (Higashi-yama), e ancora per modestia la chiamò Ghinkaku, “Padiglione d’Argento”. Intorno si fece costruire un giardino, improntato alla semplicità e alla rusticità, ma in sostanza uno dei più incantevoli di tutta Kyoto.
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Alla morte di Yoshimasa la sua modestissima abitazione venne trasformata in tempio e si disse Ghinkaku-ji. In seguito nelle vicinanze sorsero vari altri edifici, sempre in legno, dove trovarono spazio altre cappelle, altri templi, altre sale, le dimore per bonzi e custodi, aree per uffici e per un piccolo museo.
Sì, il Ghinkaku di Yoshimasa era lo stesso Ghinkaku-ji al quale si recava due volte la settimana Malachite per prendere le sue lezioni di ritualismo del tè dalla famiglia Murakami. Con il passare del tempo Malachite, Clé, Taeko e Murakami-sensei finirono per formare il nocciolo di un gruppetto intimo e simpatico di amici. Malachite e Clé avevano giusto trent’anni, il sensei doveva averne trentacinque, Taeko era di una decina d’anni circa più giovane dei fratello. Come amici, Clé li considerava importanti. Da loro s’imparavano continuamente nozioni di storia, d’arte, di religione, di letteratura, ma non sembravano estratte dai libri, bensì da realtà vissute, talvolta erano addirittura notizie riguardanti gli antenati.
La fortuna voleva che la famiglia Murakami, tramite il fratello maggiore della stirpe Seitaka, di circa quarant’anni, bonzo, fosse intimamente collegata con il tempio e con il giardino del Padiglione d’Argento. Se Taeko era un’appassionata di letteratura dell’era di Heian, e in particolare de Le Note dell’Origliere di Sei Shōnagon, Murakami Yuichi, il maestro di cerimonia del te, era un grande ammiratore di Yoshimasa, l’ottavo shōgun degli Ashikaga, e nella sua fantasia lo paragonava spesso a Lorenzo de’ Medici: “Medesimi anni,” diceva, “e medesima universale passione per il bello in ogni forma!”
Un certo giorno vicino al plenilunio di settembre, ritenuto dai giapponesi il più incantevole dell’anno, Murakami-sensei propose agli amici di aprire l’autentico Padiglione d’Argento, e di ritrovarvisi tutti in poetica ammirazione dell’astro notturno. Normalmente nominandosi il Ghinkaku-ji s’intendono i padiglioni vicini all’ingresso; il vero Padiglione d’Argento sorge isolato all’estremità del giardino in riva a un minuscolo laghetto, formato dalla lama d’acqua che rallegra la località. Il vero Padiglione d’Argento di Yoshimasa è una piccola struttura per nulla vistosa, un po’ trasandata, a due piani e con due tetti dalla curvatura incantevolmente ben calcolata. I tetti ricurvi, caratteristici dalla Birmania al Vietnam, alla Cina, alla Corea e al Giappone, possono essere sproporzionatamente volti all’insù, beffardi, impertinenti, come avviene spesso nel Vietnam e talvolta in Cina. In Giappone, con maggior gusto, la curvatura è appena accennata. Anche in questo registro però, s’incontrano casi di curve più o meno indovinate. Quelle modeste, sussurrate, del Padiglione d’Argento sono una vera delizia a vedersi.
La sera del plenilunio Malachite e Clé si trovarono verso le nove al tempio, ricevuti con calorosa vivacità dai giovani Murakami (il fratello maggiore, il bonzo, sempre piuttosto riservato, fece una capatina, salutò e poi sparì).
I Raimondi avevano chiesto e ottenuto il permesso di condurre con loro alcuni amici, per godersi eccezionalmente la luna in tanta rarità di contorni – ma poi i due personaggi risultarono ben noti ai Murakami. Era infatti la coppia impareggiabile dei Bamba, ambedue sui trentacinque anni; lui pittore, e soprattutto illustratore di testi scientifici (le sue piante, i suoi insetti, vivevano sulla carta!), lei poetessa e traduttrice di Goldoni dall’italiano. Erano piccoli, esili (Malachite li chiamava “i Bambini”), entusiasti, sempre al corrente di tutto ciò che poteva aver luogo a Kyoto e dintorni – esposizioni, teatri, feste popolari religiose (matsuri) e simili. Vivevano in una casetta-scatola ai confini degli orti botanici dell’università, tra insalate, sedani e pomodori sperimentali. Clé notava divertito che anche i Bamba si sentivano “guide autorizzate della civiltà giapponese” per gli amici italiani e che di tanto in tanto provavano delle ventate di gelosia nei riguardi dei Murakami!
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Il gruppetto di sei amici si avviò lentamente chiacchierando attraverso il giardino in direzione del padiglione. Qualcuno ne aveva tolto gli sportelli di legno antipioggia (gli amado), nonché gli shōji, gli sportelli interni scorrevoli di legno leggero e di carta a rettangoli. Il pianterreno del piccolo edificio si era trasformato in un unico spazio, nel quale i tatami, le stuoie imbottite e rinnovate di recente, letteralmente splendevano al chiaro di luna che invadeva la stanza: inoltre i tatami nuovi spandevano intorno un caratteristico e graditissimo profumo di erbe palustri.
Le donne, Fumiko Bamba, Taeko e anche Malachite indossavano dei kimono; tra gli uomini soltanto il sensei aveva scelto la veste giapponese tradizionale, d’un blu scuro che, tra l’altro, sta mirabilmente bene anche ai maschi.
Nella sala all’interno del padiglione qualcuno aveva disposto sei zabuton, cuscini piatti rivestiti di seta, per gli ospiti. In una fossetta-focolare al centro della stanza, sopra un letto di finissima cenere farinosa e candida, stavano quattro o cinque pezzi d’ottima brace, già portati al calor rosso, pronti per riscaldare l’acqua per il tè. Nel caso del cha-no-yu, il tè è una bevanda speciale, mai bevuta in Occidente. Si parte da una polvere verdissima che viene poi disciolta nell’acqua calda, ma non bollente, e rimescolata con uno speciale aggeggino di bambù che somiglia a un pennellino da barba vecchio stile: si produce così, al fondo della coppa, un liquido verdissimo, spumoso, molto amaro e stracarico di teina. Originariamente questo tè veniva usato dai monaci per non cedere al sonno, durante le ore di meditazione. Infine la propria porzione di tè va sorbita (estremo formalismo del rito!) in tre sorsi.
Taeko aveva portato dal tempio una scatola di lacca contenente una coppa da tè preziosa e veneratissima.
“Dicono appartenesse a Yoshimasa stesso,” spiegò il sensei, “pare fosse la sua preferita. Anche le altre che abbiamo qui stasera sono antiche e importanti, ma questa è speciale. Un tesoro del tempio!”
Clé ebbe il privilegio di poterla tenere brevemente tra le dita e di accarezzarla, prima di passarla a Malachite e poi ai Bamba.
“È semplicemente prodigioso,” osservò Malachite, “pensare che a fine Quattrocento qui si potesse apprezzare un oggetto che oggi stesso potrebbe apparire di un gusto degno del futuro, no?”
La coppa preferita dall’uomo più potente e più ricco del Giappone, d’or sono cinque secoli, era fondamentalmente un tronco di cilindro in ceramica molto scura, che poteva anche ritenersi grezza, bruta, primitiva. Poi, a osservarla meglio, ci si accorgeva delle finezze dell’impasto, della cottura degli smalti. Aveva la bellezza d’alcuni oggetti rari di natura, d’un cristallo, d’un geode, d’una conchiglia, d’un fossile.
La coppa era troppo preziosa per farle correre qualsiasi rischio; Taeko la ripose nel suo scrigno di lacca e la riportò al tempio. C’era stato però un contatto quasi magico con Yoshimasa stesso, che lasciò in tutti un brivido misterioso.
Mentre Clé guardava fuori il disco lunare che effondeva la sua luce tranquilla, e sottilmente malinconica, sui boschi di pini delle colline le quali cullavano, per così dire, nel loro grembo, il giardino e il laghetto del Padiglione d’Argento, notò l’arrivo silenzioso di un’ombra.
“Ah, è Fushimi-sensei!” esclamò Taeko appena tornata al suo posto. “Speriamo ci faccia ascoltare delle musiche di shakuhachi. E bravissimo!”
Lo shakuhachi è un flauto di bambù, lungo circa quaranta centimetri, piuttosto grosso, con dei fori. Suonarlo bene è difficile, ma un maestro che sa il fatto suo ne trae una musica particolarmente dolce, malinconica, suggestiva. Fushimi-sensei, come aveva detto Taeko, si rivelò subito un suonatore di classe. Le sue note liquide e limpide confluivano come gocce di luna nell’immobile, pacifica, silenziosa notte settembrina.
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Qualche giorno dopo Clé passò al Ghinkaku-ji per prendere Malachite al termine della sua lezione di rituali del tè.
“Oggi è stata giornata d’ispezioni,” disse il maestro Murakami, “quindi per qualche ora ho le chiavi della cappella dov’è custodita un’immagine interessante. Gradireste vedere con me la statua di legno che ricorda il nostro fondatore e patrono spirituale, lo shōgun Yoshimasa?”
“Certo!” esclamò Malachite, interpretando anche il desiderio di Clé.
Pochi passi lungo uno di quei caratteristici corridoi di legno, lisciato dallo strisciare delle babbucce in uso dentro casa fino a diventare quasi pericoloso nel caso d’una eventuale scivolata, ed ecco la porta della cappellina. Murakami-sensei girò la chiave. Al fondo della saletta stava l’immagine in legno, a grandezza pressoché naturale, d’un personaggio seduto: “il generalissimo che sottomette i barbari, Yoshimasa.” La cappellina era tenuta nel solito ordine esasperato dei giapponesi, quando sono in gioco rispetto, venerazione, alti ranghi. Non si sarebbe trovato un filo di polvere nemmeno a cercarlo per il più lauto compenso. Dinanzi all’immagine stavano, in un vaso di terraglia, dei fiori freschi; un piatto di bronzo ad alto gambo porgeva un’offerta di frutti; una coppetta di bronzo con della cenere stava lì pronta perché vi s’infilassero dei bastoncini d’incenso. Murakami-sensei accese e infilò due-tre fili d’incenso nella coppetta, poi dette un colpo secco a una sorta di campanella in bronzo poggiata sopra un cuscino di seta viola; l’eco squillante del metallo colpito riverberò a lungo nella saletta.
E l’antico signore?
“Esattamente come non me l’aspettavo!” esclamò Malachite.
“Esattamente come me l’aspettavo!” commentò invece Clé. Poi aggiunse: “Cos’ha di negativo, secondo te?”
“Mah, non so. Si direbbe un nobil signore prussiano, no? Troppo rigido, incapace di emozioni. Dov’è la sua umanità, che invece si rivela in tutte le sue tracce, nelle opere che ci ha lasciato?”
“Ma sai,” ribatteva Clé, “non dimenticare che fu shōgun, una carica molto impegnativa e prestigiosa per i giapponesi. Forse l’artista ha forzato la realtà, esasperando lo Yoshimasa in carne e ossa, gravando la mano per creare l’immagine richiesta dai posteri e dalla tradizione.”
“Allora è un monumento retorico, non un ritratto!”
“Debbo dire che a me sembra invece un ritratto finissimo, molto ben riuscito. Ci ritrovo lo Yoshimasa che ho sentito dentro di me, specie l’altra sera con la luna al Padiglione d’Argento... Non dimenticare che fu altissimo esteta, non un gaudente. Tra i due v’è una differenza sostanziale. E fu un esteta del rigore, della rinuncia, della disciplina, del bello come rivelazione divina. Quindi gli si addice a meraviglia quel volto da margravio che si leva all’alba, che ha la giornata programmata dinanzi a sé con l’inflessibilità d’un trappista.”