4. Il terribile comando venne prontamente eseguito
Misera Kyoto! Dall’era di Heian in poi, com’era caduta in basso!
Le conseguenze della decisione, legittima ma inopportuna e sconsiderata, dell’imperatore Go-Daigo di voler governare direttamente il Paese senza intermediari civili o militari, continuarono a farsi sentire in modo disastroso per il resto del Trecento, e per tutto il Quattrocento. Dopo la guerra civile di Onin (1466-1477) la città di Kyoto poté dirsi completamente distrutta. Si cominciò subito a ricostruire, è vero, ma ormai Kyoto non era più Kyoto. La magica aura di potere dell’imperatore era pressoché evaporata. Il popolo, lontano appena qualche miglio dalla disastrata capitale, non sapeva forse neppure che esistesse questo mitico personaggio. Il potere effettivo si era frantumato e ricostituito in un gran numero di signorie, più o meno potenti, rette da Daimyō (Grandi Nomi), uomini di qualche carisma, o energici guerrieri, o mestatori furbi e privi di scrupoli, che riuscivano a farsi un seguito. In certi periodi i Daimyō, e quindi i centri di potere, pare si potessero contare intorno ai duecentocinquanta.
Al principio del Cinquecento, e per buona parte del secolo, la situazione politica giapponese somigliò molto a quella italiana dello stesso periodo. Ambedue i Paesi erano divisi in numerose signorie grandi o piccole, potenti o meno potenti, effimere o durature, che spesso si facevano la guerra tra di loro. I gesuiti, che furono ampiamente presenti in Giappone dopo la metà del secolo, parlavano dei Daimyō come dire, intuendone l’indipendenza, e notando solo di quando in quando la vaga ombra d’un potere centrale, puramente teorico.
Certo vi fu un’essenziale differenza con l’Italia: che il Giappone riuscì, con l’anno 1600, a unificarsi saldamente sotto la guida d’un grande condottiero e uomo di stato, Ieyasu Tokugawa, mentre l’Italia, com’è stato osservato da parecchi, e anche dallo storico Eugenio Garin, restò miseramente divisa ancora per tre secoli, data la presenza al suo centro del blocco inamovibile dello Stato Pontificio.
Lo shogunato dei principi Tokugawa fu molto diverso dagli altri che lo precedettero, pur prendendo qualche ispirazione dal modello dei Minamoto a Kamakura e dei loro successori, nel tredicesimo e quattordicesimo secolo. Per prima cosa il centro amministrativo fu portato a Edo (oggi Tokyo), cinquecento chilometri più a est di Kyoto. Una ferrea disciplina, praticata a tutti i livelli, fece sì che il regime Tokugawa poté durare oltre due secoli e mezzo, lungo una successione di ben quindici titolari. Per determinarne la fine fu necessario lo scossone esterno dato dalle navi nere dell’ammiraglio americano Perry (1854); quattordici anni ancora e si giunse davvero a un ricambio fondamentale di governo (1868).
Certo il regime Tokugawa fu favorito non poco dal fatto che il Giappone (come si è già detto) è la nazione isolana meglio individuata e protetta del mondo. Il regime poté infatti, dalla metà del Seicento, chiudersi su se stesso eliminando le incognite dei rapporti con gli stranieri e la categoria stessa della politica estera. Dopo la cacciata dei missionari e la proscrizione rigorosa, e crudelissima, del Cristianesimo, il Giappone funzionò, per così dire, come un grandioso esperimento economico, politico, sociale, e addirittura biologico, condotto in vitro. Tutto, piano piano, venne classificato, catalogato e regolato nel modo più minuzioso. I giapponesi, che erano circa trenta milioni all’inizio del periodo, rimasero più o meno tanti sino alla fine, e vennero rigorosamente divisi in quattro classi sociali: i samurai (guerrieri), i contadini, gli artigiani, i mercanti. L’ideale Tokugawa era insomma “che foglia non si movesse, che lo shōgun non volesse”: e per un periodo incredibilmente lungo ci riuscirono. Si può anche dire che questo rigido e duraturo “Collegio Tokugawa” abbia plasmato a fondo il popolo giapponese, imprimendogli molte caratteristiche, importantissime ancora oggi.
Ciò che deve interessarci qui in modo particolare sono le relazioni tra gli shōgun Tokugawa e la casa imperiale che furono regolate dal complesso di leggi chiamate Kughe-sho-hatto, del 1615. Il concetto fondamentale era che sì, la casa imperiale godeva di un carisma specialissimo in quanto di ascendenza divina, ma che questa energia politica ad altissimo voltaggio doveva esercitarsi solo a Kyoto e in forme, tempi, modi, riti strettissimamente regolati dalle leggi dello shōgun. Il Tennō, “il Celeste Signore” veniva insomma chiuso in un suo scrigno dorato, e gli si chiedeva un solo atto di governo: l’incarico, la benedizione, dati all’inizio del regno d’ogni shōgun, perché questi potesse esercitare con piena legittimità il suo ufficio. Il Tennō era un essere prezioso, a suo modo possessore d’una scintilla sacra, rara, d’una chiave cosmica, ma totalmente e unicamente al servizio dello shōgun.
Dopo le autentiche miserie patite dagli imperatori e dai cortigiani, durante lo shogunato degli Ashikaga, le condizioni materiali migliorarono moltissimo. Gli imperatori venivano anzi incoraggiati, e forniti di mezzi, perché occupassero il loro tempo in raduni poetici e letterari, in raccolte di tesori d’arte e di rarità bibliografiche, nonché nella costruzione di ville e giardini. Ma sempre da personaggi fondamentalmente impotenti, e quindi fondamentalmente malinconici.
* * *
Occorre qui tornare a uno degli ultimi giorni in cui Clé alloggiava ancora al Club dell’università di Kyoto. Ecco presentarsi all’ingresso il professor Kuroda per ricordare al giovane collega italiano la promessa visita alla Birra Imperiale, ormai identificata chiaramente con la Villa Imperiale dello Shūgaku-in, poco a nord di Kyoto, sulle pendici del monte Hiei.
“Si ricordi, dottor Laimondi,” disse il professore con enfasi e precisione, “che sarebbe bellissimo lei benisse in stiffelius per l’occasione...”
“Oh professore!” esclamò Clé divertito e spaventato insieme. “Ma se non so neppure cosa sia lo stiffelius! Insomma indosserò un completo blu scuro... Più cerimoniale di così non è possibile, mi creda. Non sono un diplomatico.”
La partenza per la Birra Imperiale ebbe luogo alle otto di mattina d’un bel giorno di maggio, dal Borgo del Pozzo d’Uccello che Vola. Clé indossava il suo completo blu scuro, con camicia bianca e cravatta a bande celesti. Malachite era piuttosto furiosa.
“Alle sette ci buttano fuori dal letto! E poi che mettersi? Per una donna è un problema, così di mattina... Senza contare che ho ben poco che sia adatto al caso. Ma è mai possibile essere così scioccamente formali? A Sàpporo erano più ragionevoli...”
Finalmente, chi avesse dato un’occhiata alla stazioncina di Demachi Yanagi verso le otto e trenta avrebbe visto salire sul treno elettrico per Yase il professor Masatoshi Kuroda, titolare della cattedra d’Italiano presso l’Università Imperiale di Kyoto, ricoperto d’un abito cerimonialissimo d’indefinibile sorta, con calzoni a righe nere, una giacca nera a tinta unita lunghissima a code da scarabeo, con camicia candida a collo altissimo, cravatta nera a farfalla, il tutto pateticamente spiegazzato come fosse stato tirato fuori da un baule solo poco prima. Ai piedi calzava due scarpini in pelle lucida color pesca matura, e sul capo portava un cappellaccio floscio di semplice feltro marroncino chiaro. Siccome a maggio non si sa mai, può improvvisamente piovere, in mano teneva un ombrello di seta nera strettamente avvolto, come usano gli uomini d’affari britannici a Londra, nella City. Il professore pilotava dinanzi a sé, con ripetuti inchinetti e formule di cortesia, una giovane coppia di stranieri, il suo “lettore di madrelingua italiana”, dottor Anacleto Raimondi, con la moglie Malachite.
Il treno, mezzo vuoto, dette un fischio quasi scherzoso, e si mosse. Clé notò subito cinque o sei personaggi vestiti suppergiù come il professor Kuroda, accompagnati da signore giovani e anziane in kimono, di taglio e colori strettamente adatti alle varie età. Che si recassero anche loro alla Birra Imperiale? Sembrava probabilissimo di sì.
Il trenino correva tra campagne d’un georgico verde, tra ville e giardini tipici dei dintorni di Kyoto, costeggiando con molte curve le pendici del monte Hiei, sacro al Buddismo Tendai da almeno undici secoli. Oltre ai dignitosi signori che si avviavano all’onorata visita, salivano sul trenino, o ne scendevano, alcune contadinotte prosperose con ampie ceste di verdure tra le mani e con un cappello conico di paglia in capo, inseguite da frotte di scolari con cartelle a tracolla; si videro anche due o tre soldati dall’aria sperduta di reclute campagnole, molto intimoriti dalla presenza di tutti quei “signori”, ovviamente importanti.
Alla quarta stazioncina Clé notò una grande scritta che diceva: Shūgaku-in (Accademia degli Studi). Si trattava del nome della villa: una freccia indicava la direzione in cui si doveva trovare l’ingresso.
Gli ovvi candidati alla visita si allinearono disciplinatamente e scesero dal treno, avviandosi poi alla spicciolata lungo una stradina ghiaiosa di campagna, che avanzava a larghe curve, in leggera salita, verso degli edifici che s’intravedevano tra un folto d’alberi mezzo chilometro più a monte.
La stradina era fiancheggiata da ciuffi di pini tenuti bassi come una siepe; nelle vicine risaie si potevano scorgere delle contadine, nei caratteristici kimono da lavoro color blu cielo, con i grandi copricapo conici di paglia in testa. Lo spettacolo rallegrò molto Malachite, che passò quasi di colpo dall’umor nero di poco prima a un’espansiva gaiezza. “Ah, ora sento che vorrei riprendere a dipingere! Dalla Sicilia a Kyoto è tutt’altra paletta, si capisce... Qui ci vogliono chili di verde e di blu... È il Paese dei verdi, la festa dei verdi, l’orgia dei verdi!” Intanto il professore spiegava a Clé in giapponese perché la villa avesse quel nome un po’ ammuffito, o presuntuoso.
“Veramente, non c’entra per nulla... Oltre mille anni fa venne costruito da queste parti un tempio in onore di Fudō-Myoo, sa quel Budda in aspetto guerresco, protettore della fede? Il tempio fu chiamato Shūgaku-ji (Tempio degli Studi, del Sapere). Nel Quattrocento, durante la deprecata guerra d’Onin, il tempio venne dato alle fiamme... Poi non fu mai ricostruito, ma il nome restò alla località. E la villa l’ha ereditato, ecco tutto. Soltanto che si è eliminato il suffisso -ji (tempio) sostituendolo con il più vago -in, che si usa per “accademie” e simili. Fu negli anni intorno al 1629 che il Tennō Gomizu-no-o (regnò dal 1611 al 1629) si occupò della costruzione di questo dorato ritiro... Sì, perché nel 1629 aveva abdicato.”
* * *
Abdicazione? Ma perché? E il Tennō come lo si definisce esattamente? È giusto chiamarlo “imperatore”?
Clé, fin dai tempi di Sàpporo, aveva provato vivissima curiosità per questa misteriosa, e per certi versi incredibile istituzione, per questa dinastia che i giapponesi con tanta sicurezza dichiaravano la più antica del mondo, e che facevano addirittura risalire al 660 a.C. Durante quegli anni il Tennō godeva di prerogative ineguagliate tra quelle di tutti i capi di Stato del pianeta, era circondato da un’aura sacra che, nella sostanza se non nella forma, uguagliava e forse sorpassava quella degli antichi faraoni egizi. Era insomma un sole da non potersi fissare per più di un attimo senza restarne accecati o bruciati. Per uno sgarro da nulla che lo riguardasse, la gente si toglieva la vita; poco tempo prima, un pilota militare aveva per sbaglio volato al di sopra del palazzo imperiale a Tokyo, e poco dopo s’era ritualmente suicidato con il dolorosissimo “taglio del ventre” (seppuku o harakiri).
Primo punto: andava bene parlare di un “imperatore” del Giappone? Clé cominciava a dubitarne fortemente. Tale traduzione in lingua occidentale gli sembrava oltremodo difettosa. Imperatore è per definizione “colui che comanda, che impera”; nella figura del Tennō si sarebbe detto prevalesse la componente religiosa, sia in quanto discendente diretto della dea solare Amaterasu (in-Ciel-Splendente), sia come alto pontefice dei culti scinto. “Dunque,” si ripeteva Clé, “più che comandare e imperare, ispira.”
La sua figura è insomma assai più vicina a quella occidentale del Papa, che a quelle dei grandi sovrani che in qualche modo hanno ereditato frammenti ideali dell’antico impero romano. Certo sarebbe inopportuno chiamarlo “Papa dei giapponesi”... Ma allora teniamoci all’onorato termine indigeno, che è quello di Tennō (Celeste Re, Celeste Signore).
Alle origini i sovrani del Giappone si chiamavano Kimi, O-kimi, Sumera no Mikoto e in altri svariati modi, ma con il settimo secolo l’uso del termine Tennō era già prevalente, e tale rimase in seguito.
Clé vedeva nell’attuale panorama del mondo tre figure specialissime che amava chiamare “gli Ambasciatori dell’Assoluto” (come andava annotando in certi suoi appunti): “Vi sono tre uomini al mondo che si trovano in una posizione del tutto straordinaria, che rappresentano per popoli interi il ponte miracoloso tra il visibile e l’invisibile, l’unione mistica tra gli slanci più profondi del nostro cuore e lo scintillio delle stelle nella notte; tre uomini in cui convergono e si conciliano il mistero e la verità, il tangibile e ciò che sta al di là della materia; tre vertici in cui splendono improvvisamente i significati della vita e delle cose, la ragione del dolore, il senso del passato più remoto e dell’ultimo futuro, della giovinezza e della morte, del bene e del male, del sacro, del giusto, della nobiltà morale e dell’onore, di tutto ciò che dà stile e bellezza all’esistenza terrena.
“Essi sono il Papa (il Padre) a Roma, il Dalai Lama (Maestro Oceano) a Lhasa, il Tennō (Celeste Re) a Tokyo.
“Il Papa è in relazione con l’Assoluto per rappresentanza e vicariato, il Dalai Lama per reincarnazione e presenza corporea, il Tennō per discendenza e virtù consanguinea.”
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Ideatore e costruttore dello Shūgaku-in fu il personaggio di Gomizu-no-o (1596-1680), come si vede longevo assai, il quale occupò la posizione di Tennō, di Celeste Signore, dal 1611 al 1629. Abdicare era uso comunissimo nella dinastia, su centoventicinque sovrani della lista ufficiale, ben sessantuno terminarono il regno abdicando.
Chiarire l’origine del nome non è facile: letteralmente, seguendo gli ideogrammi, significa “Crinale dell’Acqua, Secondo”. Bisogna sapere che alcuni Tennō sono noti postumamente con il nome del luogo dove furono sepolti. Il Tennō Seiwa (regna 859-876), molto noto per avere promulgato un’insigne opera legale, il Joganshiki, venne sepolto in una località chiamata “Il Crinale dell’Acqua (Mizu-no-o, o Minoo). Il Tennō del Seicento riprese dunque il nome postumo dell’antenato illustre, aggiungendovi il prefisso Go che significa “dopo”, e anche, in casi dinastici, “Secondo”.
“Crinale dell’Acqua, Secondo” visse in tempi duri e drammatici, proprio mentre il grande shōgun Ieyasu Tokugawa stava consolidando il suo dominio dittatoriale sul Paese. Nel 1615 Ieyasu, manovrando oltre centomila uomini armati distrusse il castello di Osaka, nel quale si era asserragliato Hideyori (1593-1615), figlio di Hideyoshi, e l’ultimo dei suoi veri rivali. Ieyasu morì nel 1616, il successore Hidetada (regna 1616-1632) continuò con fermezza e con grande crudeltà la politica del padre, che prevedeva, tra l’altro, la chiusura ermetica del Giappone ai contatti stranieri, la cacciata dei missionari, la cancellazione d’ogni traccia di Cristianesimo, la sottomissione politica assoluta dei Tennō agli shōgun, e molte altre misure restrittive della libertà individuale.
Gomizu-no-o venne invitato (inviti che non si rifiutano, neppure da parte d’un discendente di dèi) a sposare una delle figlie dello shōgun Kazuko (1607-1678), noto anche come Tofuku-Mon-In, “Portale Felicità d’Oriente” dal nome d’una sua residenza. Dovette trattarsi d’una riuscita unione dinastica, come quella del principe Fabrizio Salina con donna Stella nel Gattopardo, perché la coppia ebbe cinque figli, quattro dei quali divennero a loro tempo Tennō.
Nel 1629 Gomizu-no-o, forse in seguito a uno stato di tensione psicologica eccessiva nei rapporti con lo shōgun, decise improvvisamente di abdicare in favore di sua figlia: e qui si ebbe per alcuni anni sul trono una Tennō, la regina Meishō (Luminosa Giustizia), la quale regnò dal 1630 al 1643, ben lontana dagli scandali amorosi e profumati d’incenso dell’antenata Shōtoku, nell’ottavo secolo. I successori di Meishō, Go-Komyō (regna 1643-1654), Gosai (regna 1654-1663) e Reigen (regna 1663-1687) furono tutti figli di Gomizu-no-o, il quale dunque campeggia nel panorama dinastico del diciassettesimo secolo, sia pure con tutte le limitazioni di cui l’istituzione soffriva a quei tempi.
Lo shōgun, è stato detto molte volte, mirava a tenere il Tennō lontano dalla politica, occupato in attività decorative ma triviali: ben venga allora, si pensò nelle sale chiuse del castello di Edo, ben venga l’idea di lasciargli costruire una villa suburbana, con vasto giardino – anche se il progetto si presentava molto costoso. Lo Shūgaku-in fu prescelto come località ideale, intorno al 1650, dopo molte ricerche. Il posto era senza dubbio ricco di pregi; si trattava delle prime pendici del monte Hiei, da cui si godeva un’amplissima vista sulle colline, sulle convalli, sui monti a nord di Kyoto. Era un po’ una Fiesole di Kyoto, o almeno così parve a Clé in quanto a panorama.
Alla fine della gradualissima salita tra i campi, lungo la stradina ghiaiosa a larghe curve, il professor Kuroda e i suoi ospiti si trovarono dinanzi a una modesta porticina di bambù, con tutti i segni delle intemperie sulle assi di legno maculate dai licheni. Niente cancelloni di metallo con stemmi, come nella villa siciliana Valginevra, oppure alte colonne con statue, come nella residenza di Lord Sandwich in Inghilterra. In realtà un portone d’onore, non molto imponente, ma di legno laccato in nero e oro, c’era, ma lo s’intravedeva di lato, mezzo nascosto tra gli alberi, e da lì transitavano solo il Tennō, oppure i suoi messi in occasioni speciali. I comuni mortali erano accolti nei sacri recinti, ma solo attraverso la porticina di bambù, la quale tra l’altro era così bassa da costringere chi la sorpassavà a un leggero, involontario inchino.
Appena entrati, un inserviente in uniforme simil-poliziesca fece sedere gli ospiti nella saletta d’una sorta di capanna-rifugio vicina all’ingresso: si dovevano adesso formare i gruppi per la visita. All’ultimo momento Kuroda e i Raimondi si trovarono aggregati con una famiglia francese. Ci furono subito le debite presentazioni. È straordinario come ci si sente immediatamente in cuore la patria Europa, non appena ci si trova insieme in terre lontane, anche se gli stati di provenienza, com’era il caso di allora, si guardano in cagnesco!
“Voi siete il nuovo lettore di Italiano all’università!” esclamò Jean Paul Leclerc sorridendo. “Sapete, io lavoro all’Istituto Francese di Cultura di Kyoto. Sono nato in Giappone trent’anni fa, a Nagoya, ma non avevo ancora visitato lo Shūgaku-in... Che vergogna, vero? Vedo che mon collegue italien e più solerte di me, è appena arrivato ed è già qui!”
Jean Paul, che doveva poi diventare uno dei più cari amici di Clé nel soggiorno kyotense, era accompagnato dalla moglie Yvette, minutissima, graziosa, canadese francofona... I Leclerc si conoscevano già con il professor Kuroda e lo salutarono in giapponese. Ovviamente Jean Paul parlava la lingua fluentemente come un figlio di Yamato. Il gruppetto di gaijin (forestieri) formò un manipolo a sé, e visto che li pilotava un noto accademico, non ci fu neppure bisogno del solito accompagnatore.
Abbiamo parlato molte volte di Birra Imperiale/Villa Imperiale. Tra il nome comune “villa” e l’aggettivo “imperiale” il benevolo lettore non si immagini l’imminenza d’un vasto, sontuoso, complesso edificio, come potrebbe trovarsi all’Isola Bella di Stresa, alla Villa Pisani di Strà, alla villa medicea di Petraia a Firenze, o alla Villa Aldobrandini di Frascati. Siamo proprio all’estremo opposto!
Il parco-giardino c’è, sì, ed è grande assai, coprendo oltre cinque ettari di terreno, ma al suo interno si trovano solo delle squisite capanne di legno, carta, paglia e bambù, varie per disegno e dimensioni – tutte però tendenti al piccolo, se non al minuscolo.
È un mondo di raffinatissima eleganza, ristretta e severa, creato da un sovrano eremita che sa di essere pronipote del Sole, ma soltanto per ardita simbologia, ma che poi in realtà si riconosce e si sente umile prigioniero del suo mito da un lato, e del suo altero padrone terreno, lo shōgun, dall’altro.
Le capanne non sono fatte, quasi, per essere viste, ma come umili ripari per vedere, per rendere omaggio alla natura d’intorno; come i cacciatori si fanno capanni per tirare a merli e tordi, così Gomizu-no-o si faceva capanni per seguire incantato e consolato il volgere delle stagioni, il fiorire delle azalee a primavera, piogge e nebbie che vagano tra i pini d’estate, erubescenze d’aceri in autunno, e ricami di neve in inverno.
Le casette formano tre gruppi chiamati, in giapponese, Shimo no Chaya, Naka no Chaya, Kami no Chaya. Chaya si potrebbe anche tradurre, un po’ alla meglio, come “téeria”, padiglioncino da tè, perché in ciascun luogo era prevista la possibilità di rinfrescarsi, o riscaldarsi, a mezzo di sorsi dell’amata bevanda nazionale. Le téerie si presentano a tre livelli: la sottana, la mediana e la soprana.
Dalla téeria di mezzo (Naka no Chaya), con i suoi orizzonti ancora chiusi e soffocati tra gli alberi, il sentiero alberato conduceva al terzo livello, senza dubbio il più bello di tutti.
Finalmente si aprirono dinanzi agli occhi i panorami! Finalmente la Fiesole di Kyoto rivelava le sue potenzialità, i suoi tesori. La vista spaziava per decine di chilometri su pianure, colline, valli boscose e montagne azzurrine vicine e lontane. Era una meraviglia! E per di più in primo piano si estendeva un laghetto di superficie considerevole, lo Yoku-ryū-chi (lo Stagno del Drago Natante), sul quale sorgevano tre isolette: tra ponti, baie, bracci d’acque dolci, cascatelle, rientranze rocciose, rive boscose, il luogo offriva una varietà impareggiabile di prospetti. A ogni passo si aprivano nuove delizie per gli occhi.
Il tutto, si capisce, era squisitamente artificiale, perché il buon Gomizu-no-o, visto che lo shōgun pagava i conti (“fa così per tenermi occupato in trivialità, lo so, ma almeno sono trivialità sublimi, e i posteri forse ne godranno...”), creò il lago dal nulla con spostamenti di terra che devono essere stati davvero fuori del comune, durati per anni, impegnandovi centinaia di lavoratori.
La capanna semplicissima che sorge sopra un colle che domina il lago, e da cui si godono i massimi panorami con immenso respiro, ha un nome singolarmente appropriato: Rin-Un-Tei (Padiglioncino tra Nembi). Eppure l’ideogramma Rin ha anche il senso di “vicino, vicinato”. Dunque è anche il Padiglioncino in Vicinato delle Nubi, tra le Nubi. Clé, grande ammiratore di fastigi gassosi in cielo, lo trovò bellissimo.
Più oltre però, traversato un posticino, al centro di un’isola nel lago dragonesco, sta un frusto e solitario romitorio, sul quale si vede appeso una sorta di stemma con una coppia decorativa d’ideogrammi da leggersi Kyusuii, il nome del luogo. Il professor Kuroda non sapeva o non voleva tradurre chiaramente, ma Clé sfogliando il suo dizionario di kanji parve captare il messaggio: “Remota Angoscia”, o qualcosa di simile. È forse la finale confessione del Tennō eremita, di “Crinale dell’Acqua, Secondo”, genero dello shōgun, creatore del lago in cui dorme il Drago?
Altra storia tragica e tipica del regime degli shōgun, spiegata ai visitatori dal professor Kuroda. Tra l’isoletta appena raggiunta e una seconda al centro dello specchio d’acqua si trova un saldissimo ponte in pietra, addirittura monumentale, del tutto fuori luogo tra tanta effimera, leggera, sospirata bellezza. Si chiama il Ponte dei Mille Anni (Chitose-bashi).
Non siamo più ai tempi di Gomizu-no-o, ma diversi decenni dopo, nel 1824, quando sul trono dei Tennō sedeva Ninko (regna 1817-1846). Si stavano eseguendo delle riparazioni e delle migliorie allo Shūgaku-in, e un signore feudale minore, Naito Nobuatsu del dominio di Kii, prese l’iniziativa individuale di contribuire con il Ponte dei Mille Anni all’abbellimento del giardino dei Tennō.
Appena risaputa, la cosa dispiacque moltissimo alle alte sfere dello shogunato: va bene essere feudatario (tra l’altro di rango minore), ma sempre suddito resti, e tali doni diretti alla casa imperiale sono del tutto inopportuni, anzi intollerabili. Perciò tu, Naito Nobuatsu, sei graziosamente condannato al suicidio rituale (seppuku) a mezzo, come sai, d’un taglio spietato del ventre.
Il terribile comando venne puntualmente eseguito.