5. L’enigma Somi

Il Giappone viene spesso definito “una tomba delle vocazioni”. Clé aveva inteso più volte queste parole in bocca a missionari italiani e non, cattolici e non. Che significavano? In ultima analisi la frase descrive, molto semplicemente, quanto può accadere nelle menti più aperte e negli animi più sensibili quando ci si trova in un Paese dove la maggior parte della gente che s’incontra nella vita d’ogni giorno è più onesta, più amante del lavoro, più studiosa e assetata di sapere, più gentile, più pulita, più educata, più rispettosa delle leggi, meno violenta e brutale (salvo in guerra) di quanto si riscontra in Paesi che hanno vissuto il Cristianesimo, anche profondamente, per quasi due millenni. Senza contare che la bestemmia non esiste, anzi non si trova nemmeno un’espressione propria per tradurre il termine in giapponese. Non se ne può addirittura parlare per carenza di lessico! E le vere brutture, per esempio il trattamento delle minoranze, soprattutto dei Burakumin, si scoprono soltanto a lungo andare, in capo a estese esperienze, quando si è già maestri di nipponistica.

Insomma, viene da dire, a che serve il Cristianesimo, a cos’è servito, se risultati umani addirittura migliori si ottengono per altre vie religiose e filosofiche? Non è il caso d’esaminare a fondo queste altre vie, almeno per formarsene un’immagine meno confusa e meno partigiana? Simili semplici considerazioni portano a riflettere sulle nozioni di civiltà e di barbarie, sull’importanza delle rivelazioni e su altri apparentati argomenti, con una revisione generale dei valori fondamentali con i quali si è cresciuti, e un’ispezione rigorosa del proprio mobilio endocosmico.

Clé stava annotando queste considerazioni nel suo “libro dei trucioli”, quando sentì suonare il telefono. Era Somi tornato da Sendai.

“Come va, industrioso pellegrino di fedi esotiche?” chiese Clé.

“Eh, sempre vivo, come senti...”

“Allora vieni a trovarci, siamo ben sistemati e vicino al vostro istituto ‘delle eroiche traduzioni’.”

Così Malachite e Somi poterono infine conoscersi, e Dafni (cinque anni) poté mostrare al vicino le sue bambole.

Clé notò subito che Somi non indossava più l’abito da domenicano che, diciamo il vero, l’aveva molto impressionato nel corso della visita di due mesi prima. Adesso, certo a causa del caldo afoso, indossava solo un paio di calzoni scuri (ottima piega sempre!) e una tipica camicia giapponese di cotone a mezze maniche color crema.

Naturalmente Clé teneva moltissimo ai giudizi della moglie riguardanti nuove conoscenze o amicizie. Ma il caso di Somi era un po’ speciale. Egli immaginava, forse giustamente, che gli endocosmi dei due fossero così diversi e lontani da non risultare in alcun modo accomunabili. Curiosamente Clé avrebbe preferito molto di più poter sottoporre Somi all’esame amicologico di Rolando, come succedeva una volta in Italia. Probabilmente la fiorentinità di Somi, così spiccata, avrebbe vinto la partita, per quanto la stola bianca e il sacerdozio, di cui bisognava pur parlare, sarebbero stati elementi fortemente negativi.

Il Somi post-Sendai sembrava misteriosamente cambiato. Quali occulte influenze aveva subito nei suoi corsi di filosofia buddista? Clé, sempre diretto e oggettivo nelle sue indagini, provava una soggezione inspiegabile dinanzi al mistero-Somi. Del resto era già stato scottato. Una volta aveva chiesto all’amico: “Come definiresti il nirvana?” E lui: “Vien via bischero, con questo caldo il nirvana l’è sotto un pioppo!” Clé, non sapeva bene perché, era affascinato dalla personalità complessa e convoluta di Somi, in cui a un’intelligenza superiore, a una memoria favolosa, s’univa tutto un sottobosco aggrovigliato d’inibizioni e di debolezze, di sensualità inconfessate, d’avversioni irragionevoli, di contraddizioni assurde.

La domanda diretta che Clé avrebbe voluto porre all’amico sarebbe stata: “Ma insomma Somi carissimo, come ti situi, almeno per il momento, con la candida stola nell’endocosmo di san Tommaso? O sul fiore di loto nell’endocosmo del Budda Celeste Vairochana?” Però Clé, così facendo, sentiva di muoversi da elefante in una bottega di chincaglierie, e la domanda stessa rischiava di fracassare la questione. Allora non restava che osservare, ipotizzare, indurre. E sperare in qualche silenziosa concessione d’ingresso ai misteri sottili del Somi-pensiero.

In linea di massima era facile capire da quale, tra i vari buddismi giapponesi, Somi potesse essere più fortemente attratto. Lo Zen restava escluso come troppo luminoso e asettico, l’Amidismo, nelle sue varie forme, come troppo popolare e domestico, del Nichiren non ne parliamo neppure, in quanto tendenzialmente intollerante, restavano Tendai e Shingon, ma nella scelta finale entravano in competizione le personalità dei due fondatori, Saichō e Kūkai. E lì non potevano esservi dubbi: Kūkai (774-835) svettava come un gigante, paragonato al collega contemporaneo. Dunque si poteva puntare sul Buddismo shingon (dell’Autentico Verbo).

Filosoficamente siamo, come nell’orizzonte Tendai, nel dominio del monismo più assoluto. Solo il pensiero è: il resto dicasi illusione. Ma questa e tante altre verità d’un ardito e complesso sistema, non si presentano in astratto; vivono bensì nella simbologia d’un empireo popolato di dèi, semidèi, titani, eroi, geni, furie ed elfi, partoriti dai voluttuosi dolori d’una frenetica fantasia. Sono, per usare le parole di Masaharu Anesaki, “le inesauribili bellezze, potenze, attività e cose misteriose del mondo” divenute persone celesti. Ecco dunque, sin dalle radici, uno stretto connubio con l’arte, con tutte le arti. Ed ecco dei vistosi legami di parentela con il Buddismo tibetano, con il Lamaismo. L’Universo stesso è il corpo del supremo Budda Vairochana (Colui che Illumina). E come Lui è il Tutto, il suo gesto rituale (mudra) è Lui. Questo è il punto in cui si tocca la pratica liturgica; dalla quale, via la musica, l’incenso, il canto, le immagini scolpite o dipinte, i rosari, le fiammelle dei lumi sacri, i fiori, le offerte di frutta, si torna all’arte – quasi chiudendo un mistico cerchio.

Lo Shingon e Somi sembravano fatti l’uno per l’altro. Dall’origine dei tempi doveva nascere questo Somi, lo si attendeva alle porte dell’ordine santo: che fosse poi venuto dall’altra parte del mondo sembrava dare maggiori garanzie ai meccanismi imprevedibili del cosmo. Gatto della filosofia, ecco la tua notte fosforescente di metafisici fiori! Somi amava ciò che è difficile, intricato, oscuro; disprezzava le facili passeggiate, aperte a tutte le menti. Le cattedrali dello Shingon gli offrivano per esempio “i dieci gradini del sapere”, nove dell’insegnamento apparente (kengyiō), che si trasmette con i libri e con la parola scritta, e uno prelibato ed eletto (mikkyō), che si trasmette per via orale, unicamente da maestro a iniziati. Chi ha raggiunto il culmine eccelso si dice partecipe dello himitsu-shogon-shin, del Cuore Ornato di Mistero. Questo non era il regno di Somi? Egli vibrava soltanto se partecipava con tutto l’essere a una palingenesi, a una qualche eucaristia sublime. Che gelo il puro pensiero, la sola testa, il mero cervello! Ci vuole l’incanto dei sensi, la voluttà d’un abbandono alla musica, ai profumi, alle luci, ai colori, alla presenza di frutta e fiori. E lo Shingon lo avvolgeva in meravigliosi giardini di simboli, gli proponeva i sacri gesti, quasi una danza delle dita (che sapeva d’avere belle, nate per queste magie...). E gli parlava per immagini ardite e sontuose.

“Ti piacerebbe venire domani al Tōji?” suggerì un pomeriggio Somi. “Forse vedrai qualcosa che t’interesserà.”

Il Tōji, fondato nel 796 da Kūkai stesso, può dirsi la cattedrale della scuola Shingon a Kyoto. Naturalmente di quei tempi remoti non resta quasi più nulla. I vari padiglioni e la famosa pagoda sono andati in fiamme molte volte, pur essendo stati ricostruiti più o meno secondo gli antichi disegni. L’eleganza e la preziosità dell’era di Heian sono andate purtroppo perdute; i vari padiglioni hanno la severa solidità dell’epoca Tokugawa, se non addirittura dei decenni Meiji (1868-1912).

Clé cercò a lungo... Va bene dire “Tōji”, ma si tratta d’un complesso di una ventina di padiglioni maggiori e minori, dispersi in un giardino abbastanza vasto. Finalmente un monaco volenteroso lo aiutò a scovare la cappella dove si sarebbe svolta la cerimonia del kanjō (della suprema purificazione). Il luogo doveva essere oscuro con qualsiasi tempo, in quel giorno bigio sembrava particolarmente cupo e misterioso. Sugli altari, protetti da veli di stoffe colorate, lucevano delle superfici dorate o gli occhi dei Budda, dei Bodhisattva, dei Dharmaraja (i Protettori della Legge) raffigurati in aspetti che andavano dalla serenità suprema alla ferocia terrificante di paladini del bene, che affrontano le forze dell’ignoranza e del male. (E qui Clé si ritrovò nell’atmosfera familiare dei templi tibetani, visitati pochi anni prima.)

Qualcuno offrì in perfetto silenzio a Clé uno zabuton, un cuscino piatto rivestito di seta. Il buio era quasi totale. Clé avvertiva vicino a sé delle altre persone, ma non riusciva a distinguerle. Vedeva invece abbastanza bene ciò che si svolgeva al centro della cappella, anche se fiocamente illuminata. Il capitolo dei monaci stava leggendo in coro delle Scritture Sacre con quell’affascinante cantilena baritonale che viene poi sottolineata dal battito cupo d’un tamburo, a ritmi ineguali. Talvolta, quando la lettura restava sospesa per un momento, si poteva udire il gocciolio della pioggia lungo una grondaia, chissà dove.

Dopo un bel po’ di tempo, Clé avverti quel caratteristico scalpiccio di piedi scalzi sulle stuoie, quel fruscio di tonache e paramenti sacri, che annunciano l’arrivo d’importanti prelati, seguiti da altri monaci. I nuovi arrivati si disposero ai loro posti ai lati della cappella. Al centro, sopra un sedile caratteristico di legno laccato, andò ad accomodarsi l’abate, o un alto prelato, vecchio, magrissimo, ricoperto da broccati preziosi, in cui porpora e oro si combinavano con la massima solennità. Un frate inserviente intervenne a curare minutamente la disposizione delle pieghe della sontuosa pianeta dell’abate. Monaci venivano, andavano, bruciavano incensi, portavano offerte da disporre sull’altare, sempre accompagnati dalla lettura cantata, dal ritmo dei colpi di tamburo, dagli squilli purissimi di certe minuscole campanelle di bronzo.

A un certo momento si fecero umilmente avanti cinque o sei persone. Da principio Clé pensò fossero altri monaci, ma poi s’accorse che avevano i capelli normalmente lunghi, non rasati a zero, e che avevano soltanto indossato una veste monastica sopra gli abiti civili. Fu allora che, tra queste persone, Clé riconobbe il suo amico Somi. Era serissimo, trasfigurato, pallido, straordinariamente bello. I loro sguardi non s’incrociarono. Clé capì che si trattava del rito detto kanjō (suprema purificazione), termine che viene talvolta tradotto con “battesimo”. È vero che del kanjō fa parte anche l’aspersione d’alcune gocce d’acqua sul capo del miste, ma come al solito, si tratta solo d’omologie formali, non di somiglianze sostanziali.

Il battesimo è un importante avvenimento dello spirito, che cambia a fondo l’invisibile cittadinanza di chi lo riceve; segna il passaggio infatti da un’umanità indifferenziata al popolo dei cristiani. Con il battesimo vengono rimessi tanto il peccato originale che quelli personali, e l’anima riceve un segno, il “carattere” che la distinguerà in eterno... Il battesimo ha il suo effetto ex opere operato, e quindi in un certo senso rientra squisitamente nel campo della magia. Il kanjō è invece un rito di molto minor spessore, e i suoi effetti non sono indipendenti dal volere di chi lo riceve. Esso si pratica in poche scuole buddiste giapponesi, la Shingon, la Tendai, la Kegon. Il kanjō serve soprattutto a sottolineare l’ingresso nel più recondito ed esoterico dominio dei misteri.

A un certo punto Somi e i suoi compagni furono bendati con un velo rosso, e si tennero pronti per il momento cruciale della cerimonia. In terra, al centro della cappella, era stata posta una pittura, uno di quei quadrati (mandàla) che possono dirsi delle rappresentazioni mistiche dell’universo nel suo scindersi e organarsi in forme manifeste. A uno a uno, mentre il canto della lettura sfumava in sottovoce tenebroso eppur dolcissimo, l’eletto levatosi in piedi dinanzi al mandàla vi lanciava un fiore che un monaco gli aveva consegnato poco prima. Vari monaci scrutatori osservavano subito il punto dov’era caduto, la figura del Budda o del Bodhisattva che avesse sfiorato o colpito. Nasceva così un mistico legame tra quel Potere Divino e l’accolito; quest’ultimo prendeva anzi il nome del suo nuovo maestro di segreti e protettore di perfezioni.

Somi s’avanzò per ultimo, dopo un grosso uomo il quale sembrava piuttosto un commerciante di derrate alimentari che un eroe di mistiche ascensioni. L’omone aveva combinato un mucchio di pasticci, inciampando dove non avrebbe dovuto inciampare, spingendo un monaco addosso alla gente, e gettando infine il suo povero fiore addirittura fuori dell’universo, tanto che uno dei monaci scrutatori, non visto, aveva dovuto muovere la pittura stessa in modo che il fiore ne toccasse almeno il bordo. Dopo questi vari incidenti parve meravigliosa l’elegante e sciolta sicurezza dei gesti con i quali Somi compì gli atti prescrittigli dalle esigenze del rito. Il suo fiore, una di quelle gardenie che a Kyoto sbocciano nei giardini nel mese delle piogge, andò a cadere dritto sull’immagine di Vairochana (la Grande Luce), il cui corpo è la sostanza del cosmo. Ciò parve evento straordinariamente felice e tutti si congratularono con l’unico straniero perché non solo aveva affrontato tale episodio liturgico irto di simboli, ma soprattutto perché l’aveva portato a termine con tanto successo.

A questo punto gli sguardi di Somi e di Clé s’incrociarono e sui volti dei due amici apparve un cenno di riconoscimento e di sorriso compiaciuto.

* * *

Nei silenzi notturni dell’alcova, Malachite venne fuori con una notizia straordinaria: “Sai Clé,” disse soffocando un risolino, “nella vita del tuo reverendo amico Somi ci dev’essere una donna.”

“Davvero?” esclamò Clé. “Eppure non mi sorprende in modo totale, assoluto... Troppo gattone!”

“Eh già... Troppo gattone. È vero.”

“E come lo sai?”

“Uh, Clé, la più ovvia e sicura delle vie... Le cucine, le ziette che confabulano tra di loro! A me l’ha sussurrato la brava Miki, sempre all’erta per quanto riguarda il vicinato.”

Anche Clé, posto in guardia dai segreti rivelatigli da Malachite, cominciò a fare attenzione a tutto ciò che riguardava Somi. Infatti certe ventate sottili di profumi, non solo d’incenso, suggerivano presenze inquietanti. Un giorno Clé prese in prestito da Somi un trattato illustrato sull’arte indiana, e se lo portò a casa. Mentre sfogliava il grosso volume, dalle pagine scivolò a terra la foto di una danzatrice, evidentemente giapponese, però in un costume che si poteva interpretare come una sorta di sari visto attraverso occhi nipponici. Sulla foto stava scritto in lettere romane: “To Somi, ai wo komete” (A Somi, con tutto l’amore); seguiva una firma da leggersi forse Hida.

“Già,” esclamò Somi, con un lieve imbarazzo, da cui però si riebbe subito, “è Hida-san! È bravissima. Non solo danza divinamente, ma è un’artista a tutto campo... Calligrafa di talento, e sai quanto conti in Giappone scrivere con eleganza. Compone poesie, soprattutto haiku, dipinge, suona il koto, l’arpa orizzontale, ora vuol tentare anche la ceramica... Sai come sono i giapponesi, quando si sentono artisti non si lasciano sfuggire niente! Ti piacerebbe conoscerla?”

“E perché no?”

Così Somi, vistosi scoperto, aveva affrontato con baldanza lo scottante argomento.

Per un bel po’ non si parlò più dell’incidente. Poi, giunto il periodo delle splendide giornate autunnali che benedicono Kyoto, Somi si fece vivo con i Raimondi, invitandoli per qualche sera dopo a cena in un piccolo, sceltissimo ristorante tra i colli dello Higashi-yama (il monte di Levante).

“Venite in kimono, eh!” sottolineò. “Così sarà tutto in perfetta armonia.”

Il ristorante, come avviene talvolta in Giappone, si presentava con un ampio giardino, nel quale erano disposte qua e là delle minuscole e graziose capanne agresti (bekkan), con i tetti di paglia pettinata, come delle case coloniche tradizionali in miniatura. Ogni ospite o gruppo di ospiti occupava una capanna. I pasti venivano preparati in un edificio più grande (honkan), vicino all’ingresso, e portati poi alle capanne lungo sentierini segnati da lastre rustiche di pietra. Delle lucine a fiamma, nascoste tra le foglie, rendevano ancora più fatata la scena. “Santo Cielo!” mormorò Malachite, entrando nel giardino e guardandosi in giro. “Cosa gli costerà, al nostro Somi, questa serata da ‘paradiso del Budda Amida’?” Malachite e Clé, entrambi in kimono – quello di lei dai colori ancora vivaci ammissibili per una trentenne, quello di lui d’un sobrio e scurissimo blu – vennero ricevuti festosamente da Somi, vestito nella sua stola candida da domenicano.

“Ma che regista d’eccezione che sei!” esclamò Malachite, rispondendo ai saluti di Somi. “Ci vuoi far gustare i tempi dei bateren, dei venerati padri del Cinquecento, al secolo di Nobunaga e di Hideyoshi!”

“Quelli erano quasi tutti gesuiti,” rispose ridendo Somi, “e quindi vestiti di nero profondo. Io sarei stato proprio un’eccezione!”

Come mai Somi per quella sera aveva scelto l’abito monastico? Clé se lo domandava, e il giorno dopo continuò a parlarne con Malachite. Certo, in gran parte, per amore dei colpi teatrali di scena, su questo non c’erano dubbi. Ma anche forse per sottolineare che tra lui, the reverend father Adriano Somigli, Somi shimpu-san, il babbo d’Iddio, e l’incantevole danzatrice Hida-san, non poteva sussistere che un amore altamente spirituale, del tutto etereo e libero dal fuoco dei sensi, e che nessuno, soprattutto gli amici più cari, doveva trarre conclusioni diverse.

Sì, era vero che Clé aveva talvolta discusso con Somi di una setta più o meno segreta del Buddismo, la Tachikawa-ryū, che sulla scia di certe scuole tantriche indo-tibetane contemplava l’idea delle unioni tra mistici e loro consorti, non solo in abbracci simbolici, ma in coiti pienamente reali. L’ebbrezza dei sensi doveva comportare l’ebbrezza dell’identificazione mistica con il Tutto. Inoltre Clé sapeva bene che Somi, come certi alpinisti, amava muoversi agilmente su precipizi senza fondo, proprio per i brividi che gli davano simili esperienze... Ma lo spettatore non restava con qualche dubbio sul senso vero delle parole e dei simboli? Forse que-sta apparizione da monaco medievale era anche un avvertimento per Clé. Che l’amico non presumesse di formulare giudizi su basi troppo insicure!

Dopo un poco s’intese uno scalpiccio lungo il sentiero di lastre di pietra che conduceva alla capannina. Era Hida-san (il primo nome non venne mai dato).

Gomen kudasi... O machidò soma deshita! (Permesso... Scusate il ritardo)” annunciò con voce argentina. Anche lei si capisce in kimono molto ricercato, fermato alla vita da un obi, da una fascia di lusso non vistoso, ma sostanziale, da intenditori. Era piccola, elegante, sottile. Si muoveva come uno stelo che sostiene un gran fiore nel vento; il fiore era il suo sorriso leggermente malinconico. Non era giovanissima; aveva circa trent’anni, forse più; in Giappone è molto difficile indovinare a occhio l’età, sia degli uomini che delle donne. Si capiva, a ogni modo, che accettava con dignità di regina l’amore di Somi, contraccambiandolo con una venatura di disperazione per la favola impossibile.

Clé notò allora che dinanzi alla capanna erano stati disposti un sedile e una sorta di tavolo che sorreggeva un grande koto, l’arpa orizzontale. Hida-san si accoccolò sul sedile e cominciò a suggerire degli arpeggi, che rivelarono subito la voce incantevole dello strumento. Poi si concentrò un istante chiudendo gli occhi, e infine partì con il suo primo pezzo. Clé lo riconobbe subito, era Haru no Umi (Il Mare di Primavera), del compositore cieco Michio Miyaghi... Hida-san era bravissima, anche se dava un’interpretazione molto personale all’opera famosa del musicista, con accentuazioni gagliarde in certi punti e sussurri evanescenti in altri.

Seguirono alcuni pezzi di altri maestri, diffondendo nel giardino, con il calare della luce d’un sole ormai tramontato e l’accentuarsi del giallo-oro emanato dalle fiammelle, un velo di magia che trascolorava dolcemente verso lontane tundre di sogno.

Intanto sopraggiungeva un’altra giovane donna, anche lei in kimono, ma dai colori più sussurrati e tenui.

“È la mia assistente, Tanuma-san” fece Hida-san. “Ora lei suonerà il koto e io danzerò per voi.”

La capanna era così piccola che lo spazio per danzare mancava del tutto. Allora Somi rivoltosi in spigliatissimo giapponese a una delle cameriere sopraggiunta correndo, riuscì a farsi portare una stuoia per distendersi sul ghiaino a lato del tavolo con il koto. Così Hida-san poté offrire agli amici di Somi la sua danza la quale, spiegarono in seguito, rappresentava l’anima dell’eroe morto Yamato-takeru-no-mikoto che s’innalza dalla terra al cielo sotto forma di un gigantesco airone bianco... Il tutto senza alcun supporto scenico, avvalendosi solo di due ventagli bianchi come ali.

Infine Hida-san e Tanuma-san raggiunsero i commensali al tavolo nella capanna, ed ebbe luogo una serie di brindisi con il sakè caldo servito dentro minuscole coppette di porcellana.

Da qualche parte stava ormai sorgendo la luna.

* * *

Già fin dagli ultimi mesi di soggiorno in Hokkaido, Malachite aveva capito d’essere incinta ancora una volta. Come si è già visto, sussisteva tra i giovani sposi una specie di tacito accordo: il loro desiderio era di avere tre figli: dunque la notizia fu accolta da entrambi con gioia, anche se i tempi promettevano tutt’altro che bene.

La gravidanza, svoltasi per i primi mesi a Sàpporo, proseguita poi a Kyoto, procedette benissimo, senza problemi. Avvicinandosi il momento del parto, Malachite, avendo sentito parlare particolarmente bene dell’ospedale di San Luca, a Tokyo, volle recarvisi. Fu così che alla fine di ottobre del 1941 Clé e sua moglie partirono per la capitale nipponica, lasciando Dafni e Yuri alle amorevoli cure di Miki Uriu, nella casa kyotense.

L’ospedale di San Luca si presentava davvero benissimo, e Malachite si vide assegnata una stanza del tutto soddisfacente, però a un piano assai elevato dell’edificio.

“Speriamo che non ci colga un appuntamento con il terremoto!” esclamò Malachite affacciandosi alla finestra della stanza, e ammirando il panorama su buona parte di Tokyo. “Da quassù, anche senza pancione come fuggire?”

Clé cercò di scacciare simili timori parlando d’un semplice calcolo delle probabilità.

“Pare che i grossi terremoti si ripetano ogni settanta, ottant’anni da queste parti. Una settimana scompare, in tanto oceano di tempo, no?”

Il parto ebbe luogo senza difficoltà il 28 ottobre. Anche questa terza volta nacque una femmina.

“Meglio così!” esclamò Malachite, appena ricevuta la notizia. “Tre sorelline! Un mazzo omogeneo di fiori...”

Data la stagione autunnale, la nuova venuta venne chiamata Kiku, che in giapponese significa “crisantemo”.

Le infermiere del San Luca erano laiche e quasi tutte giapponesi.

“Ah, ah,” esclamò sorridendo Malachite, “ti ricordi suor Baltrada a Sàpporo, quando è nata Yuri?”

“E l’infatuazione del nostro Dick?” aggiunse Clé. “Chissà dov’è adesso il nostro amico otariota?”

Infatti Richard era dovuto partire durante l’inverno del 1940, data la cresciuta tensione internazionale... In seguito Clé venne a sapere che era stato arruolato e destinato al fronte birmano, con l’incarico d’interrogare i giapponesi, che nel 1943 cominciavano ad arrendersi invece di praticare, come prima, il suicidio “per disonore”. (Ancora più tardi Richard avrebbe scritto, come si è detto, un libro, The Double Patriots, uno studio sul militarismo nipponico, che gli avrebbe dato molta notorietà nel mondo anglosassone – nonché un posto di ricercatore a Oxford.)