6. “War is on!”
Che la guerra fosse ormai alle porte lo si sentiva da moltissimo tempo.
Più avanti negli anni, quando qualche amico o conoscente poneva a Clé la questione: “Quando cominciaste ad annusare per aria vero odore di guerra?”, il giovane sì sarebbe divertito a dare una risposta paradossale (ma sinceramente tenuta per vera): “Dal 1339!”
Cosa successe in quel remotissimo anno? Avvenne che il valoroso ministro Chikafusa Kitabatake (1293-1354), eminente difensore del Tennō Go-Daigo nella sua romantica lotta per riacciuffare il potere sovrano e per liberarsi dalla tutela dei dittatori militari, gli shōgun, pubblicò un libro dal titolo Jinnō-Shōtōki (Storia della Veritiera Successione dei Divini Sovrani).
Il libro ha grande importanza perché si apre con un paragrafo d’esuberante superbia nazionale. Dice infatti: “Il Grande Giappone è Paese divino. Esso venne fondato dal Celeste Progenitore, e la Dea Solare lo destinò ai propri discendenti, che lo governassero in eterno. Tutto questo è vero solo per la nostra patria, non esistono simili esempi in altre parti del mondo.”
Allora ben pochi sapevano leggere, e l’effetto immediato fu ristretto alle rare persone colte, ma Kitabatake aveva seminato nella coscienza collettiva dei giapponesi una vera bomba a orologeria, dalle potenzialità secolari e terribili.
Del resto, seguendo questa linea di pensieri, si può risalire molto più addietro, ai primordi della civiltà giapponese, quando andarono costituendosi i miti che poi, recitati dagli aedi, furono messi per iscritto agli inizi del settimo secolo d.C. nei due protolibri della letteratura nipponica, il Kojiki (Regesto delle Antiche Cose) e il Nihon-Shoki (Cronaca dei Documenti del Giappone).
Si tenga sempre presente che fatto basilare nei riguardi dei giapponesi è l’essere nati isolani. L’arcipelago del Giappone è geograficamente uno dei più protetti del mondo. Batte di gran lunga i due possibili rivali, la Gran Bretagna e l’Indonesia: solo il Madagascar gli si può paragonare per isolamento, ma poi viene meno per grandezza e importanza.
Gli studiosi moderni concordano nel ritenere che il popolamento del Giappone sia avvenuto in tempi remotissimi e preistorici per ondate successive di genti, in parte provenienti dal Centro-Nord dell’Asia, apportatori del coefficiente linguistico e culturale altaico, e in parte dai mari e dalle regioni del Sud, latori dei coefficienti linguistici e culturali riferibili all’orizzonte malayo-polinesiano.
La mancanza di scrittura fece però ben presto dimenticare il passato con le sue eterogenee radici linguistiche, culturali, religiose, tecnologiche, e si produsse una particolarissima sintesi isolana: in altre parole i giapponesi finirono per sentirsi talmente lontani da tutti gli altri esseri umani da immaginarsi tonnati ab aeterno con le rocce, i vulcani, le acque, le selve delle proprie isole.
Si produsse un fenomeno singolare; all’apertura dei racconti mitologici non troviamo una vera cosmogonia universale, come si ha nel caso ebraico, e in tanti altri esempi consimili, bensì una limitatissima cosmogonia, locale, diciamolo pure una “Nippogonia”.
Riguardo agli altri Paesi, agli altri esseri umani, predomina il silenzio; essi restano delle entità spurie, nate non si sa come, delle entità appartenenti a una seconda e inferiore classe ontologica. Premessa ideale dunque per l’insorgere d’una dottrina del popolo giapponese come “popolo eletto”; dottrina che infatti, col tempo, andò formulandosi, e prese il suo più virulento vigore in anni a noi vicini, in pieno ventesimo secolo.
Stranamente tutto ciò contrasta con certe caratteristiche del Giappone antico. Infatti con il sesto secolo d.C. e seguenti si ebbero sia l’apertura al Buddismo, sia la fenomenale invasione culturale cinese, sistema di scrittura incluso, uno dei rari casi al mondo in cui un popolo abbia letteralmente adottato gran parte del bagaglio culturale di genti vicine senza restarne sottomesso politicamente. Si ebbe, in altre parole, un travaso senza conquista.
Forse fu la bruciante lezione d’inferiorità e d’arretratezza a risvegliare l’orgoglio nazionale, forse fu il contatto sempre più approfondito con religioni e filosofie universali, quali il Buddismo, il Confucianesimo, il Taoismo, fatto sta che dal sesto al dodicesimo secolo si hanno almeno seicento anni d’un Giappone molto più internazionale di quanto non lo fosse prima, e di quanto sarebbe stato dopo.
L’epoca di Nara (710-784) fu particolarmente aperta ai contatti e ai traffici con il continente, anche perché in Cina fioriva, al massimo del suo splendore, la gloriosa dinastia T’ang. Basti vedere quali oggetti erano amati dal Tennō Shomu (che regnò dal 724 al 749), e da lui considerati tesori, ancora oggi ottimamente conservati nel museo Shōsō-in di Nara; troviamo vetri bizantini, strumenti musicali persiani, stoffe indiane, pitture dell’Asia centrale, insomma i prodotti di gran parte del mondo civile allora conosciuto.
Il Buddismo aveva trovato in Giappone una ben costituita religione nazionale, lo Scinto. Oggi si ipotizza che anch’essa appartenesse in origine all’orbita del Taoismo cinese, e che avesse raggiunto il Giappone con una delle ondate di popoli invasori del Sud; ma per il fatto grave d’una mancanza di scrittura, le radici erano state dimenticate, mentre le credenze e i culti erano rimasti del tutto assimilati: il complesso religioso appariva, a chi lo viveva dall’interno, come frutto genuino dello spirito e della cultura giapponesi. Dopo un breve periodo di scontri, anche violenti, tra le due fedi, ebbe inizio un lungo e fertile processo di fusione e di sintesi.
In seguito, con il tredicesimo secolo e precisamente negli anni 1274 e 1281 ebbero luogo degli avvenimenti d’importanza storica eccezionale. Fu in quel periodo che l’imperatore mongolo della Cina, Kubilay Khan (al potere dal 1271 al 1294) inviò due munitissime spedizioni navali e militari alla conquista del Giappone, unico territorio dell’Asia orientale che sfuggisse ancora al suo dominio.
In ambedue i casi le forze sino-corean-mongoliche furono sconfitte, ma più che dagli uomini, lo furono dalle forze della natura, in particolare da due tifoni, capitati al momento opportuno per disperdere e distruggere il naviglio nemico. Naturalmente i giapponesi chiamarono i tifoni kamikaze (venti divini), e attribuirono la loro presenza all’ausilio benevolo degli dèi della stirpe.
Di conseguenza la fiducia e la fede nei Kami atavici dello Scinto ripresero grande forza e autorità.
Dal quindicesimo secolo in poi si osserva una netta riscossa dello Scinto, specialmente nei confronti del Buddismo. Si è fatto cenno più sopra alla teoria dello Honji-Suijaku, secondo la quale la fusione tra Buddismo e Scinto veniva giustificata proponendo che i Budda supremi fossero delle Essenze Originarie, degli Assoluti Universali, mentre i Kami giapponesi si presentassero come delle Manifestazioni Temporanee e Locali.
Dal Quattrocento in poi ci furono dei capiscuola (per esempio Yoshida Kanetomo) che ribaltarono arditamente la formula classica: gli Honji, le Essenze Originarie, gli Assoluti Universali, non sono i Budda, bensì i Kami dello Scinto! Sono i Budda a presentarsi come dei Suijaku, delle Manifestazioni Contingenti e Locali... La dottrina non ebbe al momento gran seguito, anzi rimase a lungo segreta, ma segnò l’inizio d’una riscossa dello Scinto che continuerà e diventerà sempre più cospicua, nel corso dei secoli diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo.
La mina ideologica seminata da Kitabatake nel 1339, cominciò a far sentire i suoi effetti dalla fine del Seicento, e durante i secoli successivi, nell’opera di vari importanti pensatori e scrittori, Keichū, Kada Azumamaro, Kamo Mabuchi, Motoori Norinaga, Hirata Atsutane, il quale ultimo morì nel 1843, quindi in tempi assai vicini a noi.
Questa scuola, nota con il nome di Kokugaku (degli Studi Nazionali), ebbe grandissimo rilievo nella storia ideologica del Paese. Vi si svilupparono varie tendenze, ma caratteristica di tutte fu un ripudio dell’eredità continentale, sia indiana (Buddismo), sia cinese (alcuni aspetti del Confucianesimo; per esempio la dottrina del “mandato celeste”, che giustificava i mutamenti dinastici), accompagnato da una rivalutazione della mitologia indigena e della filosofia che se ne poteva desumere. Il periodo iniziale fu caratterizzato specialmente da ricerche filologiche sulla letteratura antica, ma in un secondo tempo, soprattutto con Motoori e con Hirata, il movimento divenne più decisamente ideologico e andò affiancandosi a una vera rinascita della religione Scinto, a sue varie rielaborazioni intese ad adattarla alle nuove circostanze. Hirata arrivò per esempio a considerare una sua forma di monoteismo, che si ritiene fosse influenzata da nozioni di Cristianesimo e di Ebraismo.
Caratteristico di tutti i Kokugakusha più tardi fu un nazionalismo estremo e spiccatamente emotivo. Secondo Motoori (1730-1801) il Giappone, pur essendo un Paese piccolo, doveva considerarsi superiore a tutte le altre terre e nazioni del mondo, e ciò per cinque ragioni: uno, per aver dato i natali alla Dea Solare Amaterasu, due perché vi regna una dinastia immutata dalle più remote origini, tre perché i suoi classici contengono le uniche autentiche rivelazioni divine, quattro perché produce il riso migliore del mondo, e cinque, infine, perché non è mai stato invaso o conquistato dagli stranieri.
I Kokugakusha furono tra i principali ideologi e animatori di quel vasto e potente movimento che portò, dopo innumerevoli e turbolente vicende, al mutamento radicale di regime politico nel 1867-69, quando l’ultimo governatore militare di casa Tokugawa (l’ultimo shōgun), rese i poteri ereditari di cui godeva nelle mani del giovane Tennō Mutsuhito, meglio noto con il nome postumo di Meiji (Governo Illuminato).
Il Giappone emerse allora da un regime feudale e isolazionista, mirando a trasformarsi in un regno costituzionale, fortemente centralizzato, ma aperto a ogni genere di contatti internazionali.
Il gran passo venne pudicamente chiamato “Restaurazione” (il Tennō che torna sul trono dopo settecento anni di governi militari); in realtà si trattò di una rivoluzione epocale pari, per importanza mondiale, a quelle americana, francese e russa, anche se fortunatamente fu poco cruenta.
Agli inizi del nuovo regime, oltre tutti i cambiamenti strutturali che riguardavano il governo della cosa pubblica, oltre agli improvvisi contatti con stranieri d’ogni Paese, si ebbe una breve ma brutale, e purtroppo dissennata, persecuzione del Buddismo (Haibutsu-Kishaku, “Spezza i Budda, distruggi Sakyamuni”) a favore dello Scinto e d’un nascente culto imperiale.
Per due o tre anni il Giappone visse, in termini certo meno drammatici e violenti, una sorta di rivoluzione culturale come l’ha vissuta il misero Tibet sotto gli artigli della Cina. Per fortuna l’assurdità dell’operazione fu presto compresa e le autorità fecero marcia indietro. Ciò non toglie che molte conseguenze del movimento si fecero sentire fino al 1945 – e alcune sono addirittura rilevabili ancora oggi.
Andavano così ponendosi le basi per una ripresa in termini fortemente rinnovati d’una dottrina del “popolo eletto”, e del suo corrusco destino. Se il Giappone si fosse sviluppato lentamente, a fatica, con incertezza, forse non ne sarebbe sorto nulla d’importante. Ma le cronache registravano ritmi forsennati di sviluppo in ogni campo: industria, commercio, agricoltura, pesca, istruzione, forze militari, amministrazione civile.
L’impegno posto da tutti nel “costruire un nuovo Giappone” era tale che un giovane francese, impiegato dal governo come ingegnere, Ludovic Savatier, scrisse a casa il 25 novembre del 1871: “Vous ne pouvez vous figurer la transformation que subit le Japon depuis deux ans. Ces gens-là marchent plus vite que nous ne l’avons fait depuis 200 ans: dans 20 ans on aura plus de raisons dêtre fier dêtre japonais que européens...”
Il signor Savatier fu sorprendentemente profetico: il Paese cresceva con la velocità d’un pioppo, ma con la saldezza d’una quercia. Alla fine dell’Ottocento era già per molti riguardi, una potenza industriale di rispetto, e aveva già battuto sui campi di battaglia terrestri e navali la Cina, impensierendo parecchio gli stati egemoni dell’Occidente. Infine aveva cominciato a costruirsi, con Taiwan, un impero coloniale. Seguì la spettacolare vittoria sul colosso russo (1904-1905). Com’era avvenuto nel lontano Duecento, i giapponesi potevano di nuovo legittimamente pensare di contarsi tra i beniamini degli dèi, dei Kami, di fantasticare ancora una volta sul proprio destino diverso, per qualche misterioso dono divino, da tutti gli altri.
Con la morte del Tennō Meiji (1912) si ebbe un periodo caratterizzato da un certo rilassamento, dovuto anche alla salute malferma del Tennō successore, Taishō (che regnò dal 1912 al 1925). Le nuvole tornarono però a chiudersi con la fine degli anni venti e con il nuovo timoniere Hirohito (nome postumo Shōwa, regna dal 1925 al 1989), figura che sovrastò in modo drammatico le vite di milioni di uomini, sia in Oriente che in Occidente. Dopo anni di riflessione, Clé era venuto alla conclusione che Hirohito fosse un personaggio fondamentalmente malsicuro, quindi infido, capace certe volte d’improvvisi moti coraggiosi (rifiuto d’avallare il sollevamento militare del 1936, visita al generale MacArthur nel 1945), ma facile preda, nei tempi lunghi, dei fanatici senza scrupoli.
E questi non mancavano davvero nel Giappone di quei decenni, a partire dal corifeo Ikki Kita (1883-1937), autore d’un celebre libro che fece molto scandalo: Lineamenti di un piano di riorganizzazione del Giappone, del 1923, in cui proponeva una sorta di “socialismo imperiale”. Le sue idee, estreme anche per i più accesi nazionalisti, portarono al pronunciamento militare del 1936, ricusato fermamente da Hirohito, e culminato nella condanna a morte di numerosi giovani ufficiali, nonché dell’ideologo Kita stesso.
Occulto ma potente rilievo l’ebbero in quegli anni certe società segrete, come il Gen’yōsha, o quella del Drago Nero (nome giapponese del fiume Amur, in Siberia), a capo di cui stava la figura misteriosa e pericolosa del mestatore carismatico Mitsuru Toyama (1855-1944).
Tale continuo e rischioso ribollire di forze d’estrema destra non avrebbe avuto tanta presa sul popolo giapponese, se questo non fosse stato indottrinato da decenni, e in modo capillare, producendo silenziosamente un homo japonicus dalle caratteristiche del tutto particolari. Una delle più decise iniziative del nuovo governo Meiji fu quello di decretare nel 1872 la creazione di otto università, di 256 scuole medie e di ben 53.760 scuole elementari: e il passaggio dalla carta alla realtà fu rapido ed efficiente. Da quel momento il ministero dell’Educazione (Monbushō) poté dirigere la formazione della mentalità e della personalità dei cittadini d’ogni provincia e contrada.
I libri di testo delle elementari, quelli che agivano sugli strati più impressionabili della mente e dell’animo, illustravano i miti nippogonici tradizionali, e in particolare le vicende della dea solare Amaterasu, la quale, sdegnata per le bravate del fratello Susanowo, si nasconde in una grotta (arcaico ricordo di eclissi solari?) e ne viene tratta fuori con astuti tranelli degli altri personaggi celesti presenti, per esempio facendo brillare uno specchio di metallo.
Il quale specchio poi – continuavano i libri – “si trova oggi nel tempio di Ise, sacerrimo oggetto di venerazione... Infatti venne consegnato dalla dea al pronipote Ninighi, sceso in terra come antenato della dinastia dei Tennō”. Tutto insomma si collegava, si confortava e si confermava mirabilmente. Infine gli autentici giapponesi non potevano considerarsi sostanzialmente diversi dal loro sovrano, ma facevano parte di un’immensa famiglia patriarcale, geneticamente unitaria, di cui il Tennō era capo e capostipite insieme.
I più accesi e facinorosi nazionalisti non mancavano di cogliere il messaggio nascosto in una simile visione del mondo: i giapponesi, in quanto popolo eccezionale dalle origini divine, guidati dalla benevolenza prima degli dèi isolani, poi dai loro Tennō d’origine celeste, dovevano mirare a mete eccezionali. Le somiglianze con gli ebrei, in questo punto essenziale, colpiscono subito. Yahwèh, che proclama a Noè: “Ecco che concludo la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti” (Genesi 9, 9), è, di fatto, del tutto simile ad Amaterasu quando dice a Ninighi no Mikoto: “Il Giappone è pacificato, perciò scendi e governa il Paese: ti è stato affidato” (Kojiki, 1.38).
Mentre però l’elezione ebraica riguarda lo spirito, l’elezione nipponica, emanando da una civiltà fortemente pragmatica, i cui partecipanti stanno con i piedi ben piantati in terra e vivono quasi religiosamente lo Stato, portava per forza di cose, appena se ne profilava l’occasione, a programmi d’un dominio sovrano e politico sul mondo, da realizzarsi all’inizio sull’Asia orientale, in seguito sugli altri continenti.
Lo slogan del periodo suonava Hakkō-Ichiu, che poteva tradursi: “Gli Otto Angoli del Mondo sotto un sol Tetto” (quello del Tennō giapponese). Oggi l’espressione esiste ancora, e la si trova sui dizionari; non illuda il fatto che gli venga data l’interpretazione buonista e benevola traducibile come: “In ogni angolo del mondo siamo tutti fratelli”; il senso ante-1945 era molto più spinoso, aggressivo e nippocentrico. La dottrina del popolo eletto era raramente esplicita, ma faceva subdola parte degli insegnamenti scolastici, dalle elementari all’università, nonché di quelli impartiti alle forze armate. La dottrina parallela dell’invincibilità militare andò vieppiù diffondendosi e rafforzandosi con le vittorie sulla Cina (1895) e sulla Russia (1905).
La guerra futura del tempo, di cui tanto si parlava, non era un conflitto come gli altri. Andava ormai profilandosi uno scontro supremo, demiurgico, titanico, cioè Giappone-Mondo.
Tale scontro, come abbiamo visto, era andato lentissimamente preparandosi nei millenni, con lunghissimi intervalli, soste sterminate, ritorni, pentimenti, deviazioni. Ma oramai era giunto il momento della verità. I giapponesi “dovevano” fatalmente e finalmente provare a loro stessi e all’umanità la propria elezione divina.
Molti di essi capivano che si trattava d’una pazzia, alcuni cercavano di opporsi, pochi strepitavano, ma la pressione dei miti arcaici, e quella di realtà equivoche che parevano giustificarli, era ormai divenuta irresistibile. Stava suonando l’ora culminante di tutta una storia: lasciarsela sfuggire avrebbe dimostrato debolezza grave, sarebbe parso a tutti imperdonabile peccato di viltà. Prima o poi in quella fornace ci si doveva buttare. E l’8 dicembre 1941 (il 7 a Pearl Harbor) fu la data fatidica del tuffo, evento in qualche modo prevedibile fin dal 1339.
* * *
La giornata di dicembre, come succede spesso a Kyoto, era fredda e cupa; un cielo uniformemente coperto stendeva un manto grigiastro sulla conca di monti dove sorge la città. Era un lunedì e la gente avrebbe dovuto riprendere i vari lavori del momento, dopo la sosta di una domenica piuttosto ansiosa. Invece dominava su tutto uno strano silenzio. Verso le nove di mattina qualcuno suonò alla casa di Clé; era l’amico Somi, aveva l’aria piuttosto stralunata e trafelata, si capiva subito che era venuto di corsa da casa sua, trecento metri più in su verso gli orti botanici dell’università.
“Ehi!” esclamò in fiorentino, come usava spesso quando era emozionato. “Que’ bischeracci l’hanno fatta grossa... Stanno bombardando Pearl Harbor, capisci?”
“Vieni in casa,” rispose Clé. “Fa freddo. Sediamoci, racconta...”
Somi teneva in mano copie di vari giornali: l’inglese Japan Times and Advertiser, poi il Mainichi e l’Asahi.
“War is on!” urlava un titolaccio cubitale sulla prima pagina del Japan Times.
“Hai mai visto caratteri simili?” riprese Somi. “Scommetto che hanno consumato tutto il piombo della tipografia...”
I sottotitoli annunciavano bombardamenti alle Hawaii, a Hong Kong, a Guam, a Singapore, a Davao... Un vero finimondo. Somi aveva anche copia dei giornali giapponesi, che davano il massimo risalto al rescritto del Tennō, vergato però in un giapponese di corte estremamente elevato e difficile.
Colpiva l’apertura del testo, il titolo diceva: “Teikoku: EiBei ni Sensō wo fukoku...” cioè, “L’impero: è guerra dichiarata all’Inghilterra e agli Stati Uniti.” L’impostazione grafica e retorica dell’informazione era caratteristica. Quella punteggiatura di sospensione tra il soggetto (l’Impero) e il participio (dichiarata) era a suo modo magistrale; faceva subito sentire come il Teikoku, l’Impero – altro che mera entità politica, storica, peritura! – fosse invece da percepirsi come sublime realtà metafisica, e quindi non imparentatile neppure grammaticalmente con il resto della frase.
L’impostazione inglese aveva poi dei risvolti succulentemente medievali. Partiva come un annuncio degno d’un Sisto V, d’un papa guerresco e corrusco: “Noi, per grazia del Cielo Imperatore del Giappone, occupando il Trono che appartiene a una linea di successori che si svolge per evi eterni, ingiungiamo a Voi, nostri sudditi leali e coraggiosi (di prendere atto) che quivi dichiariamo guerra agli Stati Uniti d’America e all’Impero Britannico.”
“Capperi!” esclamò Somi. “Sembra d’aggirarsi tra le quinte del Globe, ai tempi di Shakespeare! Per me sono impazziti...”
Clé e Somi notarono subito che sulla prima pagina del Japan Times compariva, anche se in piccolo e come sottotitolo d’un testo minore, il famoso slogan: Hakkō-Ichiu (gli Otto angoli del Mondo sotto un sol Tetto).
“Ce ne vorranno di tegole per coprire il Gran Tetto!” sospirò Somi fingendosi afflitto.
Durante la mattinata Clé, Malachite e Somi scesero in città: regnava una calma assoluta, era come qualsiasi altro momento, anzi più tranquillo del solito, niente cortei, bandiere, manifestazioni. Forse la sensazione più diffusa era di sgomento, e naturalmente i giapponesi, educati come sono da secoli a reprimere, nascondere, dissimulare i moti dell’animo, non lasciavano trapelare il minimo lucore del loro gelo interiore.
Nel primo pomeriggio due poliziotti in uniforme passarono dalla casa di Clé, ricordando agli stranieri che, dato “l’inatteso stato di guerra”, era stato reso obbligatorio l’oscuramento più rigoroso. Siete preparati? I poliziotti vollero entrare in casa per controllare se erano stati presi i provvedimenti del caso. Per fortuna Malachite, su consiglio di Miki e con il suo aiuto, aveva già acquistato vari metri di stoffa nera che erano serviti a coprire con cura le finestre.
“Bravi, avete fatto bene,” commentò uno dei mawari-san (Signor Gira-Gira, Passeggia-Passeggia). “Ma torneremo stasera con il buio per accertarci che non trapeli la minima luce.”
Stranamente proprio quella sera dell’8 dicembre era scoppiato un furioso incendio a sud di Kyoto, verso Fushimi. Il giorno dopo, il giornale locale dava notizia dell’incidente, che si riduceva al rogo d’un grosso deposito di legname, ma l’effetto visivo, proprio a ruota con le notizie che radio e giornali davano sullo scoppio delle ostilità, fu piuttosto impressionante. Si aggiunga che il cielo rannuvolato e basso rifletteva per decine di chilometri il sinistro bagliore rosso e arancione, il cui effetto poi era moltiplicato non si sa quante volte dal buio assoluto che predominava su Kyoto e sulle campagne d’intorno. Somi, che era rimasto da Clé, scherzava sul fenomeno.
“Vedi, te lo dicevo, quei bischeracci hanno voluto stuzzicare gli americani, e loro sono già sbarcati sulla costa verso Osaka. Vedrai, tra poco saranno qui! Hai preparato un po’ di whisky e di gin per accoglierli? Oppure scapperanno a cercare geishe e màiko?”
Malachite e Clé ridevano, ma la gran parata di rosso in cielo sembrò in qualche modo piuttosto sinistra. Un presagio di futuri disastri?
A un certo momento anche i Bamba si aggregarono al gruppo. Gli adorabili “Bambini”, che portavano sempre con loro una nota di saggezza e di serenità, questa volta erano un po’ sbilanciati; tipicamente però, più degli eventi internazionali e intercontinentali, li preoccupava il fatto che Malachite e le tre bambine potessero restare senza pane, che stava divenendo una rarità in Giappone, e progettavano un’escursione in un paesino presso Kobe dove avevano delle monache amiche che “sicuramente continuano a farne”. Dopo qualche tazza di tè, preparata da Miki, Somi e i Bamba partirono.
A buio fondo (ormai era quasi l’ora di cena) qualcuno bussò di nuovo alla porta di casa Raimondi. “Uffa, sarà la polizia per il controllo del buio!” sbottò Malachite innervosita. Invece erano i Fujidaira, per fortuna visita sempre gradita. Hideo e Mariko Fujidaira erano un po’ più anziani di Malachite e Clé, potevano avere quarant’anni, e insegnavano inglese (o letteratura inglese?) presso una università privata non lontano da Asukai-chō; lei era inoltre maestra di koto, l’arpa orizzontale giapponese. Ambedue avevano trascorso una decina d’anni alle Hawaii ed erano molto, ma proprio molto, occidentalizzati. Si distinguevano subito dai nativi kyotensi, anche prima che aprissero bocca, per tante particolarità “esotiche” del vestire, del gesticolare e del camminare. Lei, per esempio, avanzava marcando i passi con i tacchi, all’americana, e non strisciando i piedi con appoggio anteriore, come fanno (o facevano) le signore giapponesi bene educate. Durante gli ultimi mesi, a poco a poco, tutti gli anglosassoni di Kyoto e dintorni, vista la mala parata della guerra imminente, erano partiti, e i Fujidaira – una coppia tra l’altro senza figli – s’erano attaccati quasi morbosamente a Malachite e a Clé, due personaggi dalla forte componente britannica nel linguaggio, nei modi e nei gusti. “Really, fate la colazione del mattino con il porridge?!” ripeteva Mariko. “Ma allora siete peggio dei nostri amici canadesi!”
Lui, il Fujidaira, era più alto e più bello del generico giapponese urbano del Kansai: portava una capigliatura abbastanza ribelle e piuttosto lunga che gli dava un’aria da artista (pittore?) di cui evidentemente si compiaceva; lei era più piccola, bianchissima di pelle, soave, umile e cerimoniosa. La coppia possedeva un piccolo cane che dicevano di razza terrier, ma che era in realtà un bastardino di sessantaquattro spermi diversi, sveglio, giocoso e grande amico di Dafni: rispondeva allo stupido nome di Rompy (Somi lo chiamava naturalmente il Rompy-scatole; ma in realtà il nome veniva da to romp, “giocare violentemente”).
Va ricordato che in Giappone, salvo nelle campagne, i cani sono molto rari. In città vengono condotti in giro dal padrone, che deve portare con sé paletta e secchiello per raccogliere con cura gli eventuali lasciti corporali... Possedere un cane è cospicuo indizio d’occidentalizzazione avanzata, quasi una sfida al senso comune.
I Fujidaira entrarono in casa a testa bassa, si può dire senza salutare, da quanto erano depressi e intimoriti dalle notizie del giorno. Faceva freddo, Clé aveva acceso un focherello di legna nel piccolo camino del salotto. I Fujidaira si posero in silenzio a sedere su due seggioline impagliate tendendo le mani verso il fuoco, evidentemente erano anche non poco infreddoliti.
Riuscivano a dire una frase sola: “Taihen-desu-né! (Che cose, che fattacci!).” La ripetevano a brevi intervalli, senza riuscire a formulare altri commenti. Clé chiese a Fujidaira come gli sembrava che la gente reagisse. “Male, male,” rispose il professore, “non si vede più nessuno in giro... Con questo buio da Medioevo! Saranno tutti in casa come noi, a domandarsi come faremo a uscire da questo tremendo pasticcio. È inutile, noi lo sappiamo bene, gli americani e gli inglesi sono molto più forti. Alla fine dovremo cedere... E allora? Quelle teste dure dell’esercito non sono mai state all’estero, non sanno nulla del mondo. Avessero almeno dato retta agli ammiragli. Loro sono bene informati perché girano e vedono... Isoroku Yamamoto, il grande ammiraglio Yamamoto, era contrario alla guerra. Ah, ah, poi ha obbedito e ora comanda l’attacco a Pearl Harbor, ma l’ha detto chiaramente: ‘Se la guerra dura più di due anni siamo persi!’ Sarà profeta? Noi temiamo di sì...”
“Ma perché si sono buttati in questa impresa disperata?” chiedeva Malachite, seduta in poltrona con Dafni in braccio, mentre Rompy saltellava di qua e di là, cercando di afferrare la mano della bambina.
“È chiaro,” sosteneva Fujidaira, “aprendo i giochi con un gran colpo a tradimento. Con una batosta a Pearl Harbor, pensano che gli americani restino impressionati, sbigottiti, e che giungano presto a una pace di compromesso. Lo ripeto: i generali sono degli ignoranti venuti dalle montagne, non sanno nulla del mondo... Si sono messi in testa che gli americani siano un popolo di mercanti edonisti. ‘Soldi e piaceri, non pensano ad altro’ si ripetono. ‘Quando vedranno un po’ di bare che tornano a casa con i corpi dei loro figli dentro, faranno marcia indietro. Allora gli offriremo una pace conveniente di compromesso.’ Ma per me si sbagliano di grosso. Il colpo a tradimento unirà saldamente tutti gli americani, metterà la febbre di guerra anche addosso ai pacifisti, vedrete. E così sarà per i canadesi, gli inglesi, gli australiani, quelli della Nuova Zelanda. Taihenna koto desu né... Non ce la faremo mai...”
Sul tardi i Fujidaira se ne tornarono a casa. I poliziotti non si rividero; forse avevano controllato da fuori l’oscuramento della casa di Asukai-chō.
Nei giorni seguenti i giapponesi, e gli stranieri in Giappone, furono letteralmente bombardati da valanghe di notizie che riportavano continue vittorie. Pearl Harbor, vista in prospettiva temporale breve, era stata un grandioso successo. Sei unità della marina statunitense furono affondate, sedici unità restarono gravemente danneggiate e 188 aerei furono distrutti. Si ebbero ben 3700 tra morti e feriti gravi nel personale. Per fortuna (o per prescienza dei servizi segreti, resta sempre il dubbio), due navi portaerei avevano lasciato il “Porto delle Perle” pochi giorni prima.
I giapponesi persero ventinove aerei, cinque sottomarini speciali ed ebbero sessantaquattro morti. Poco immaginavano però gli strateghi giapponesi che l’effetto del colpo sarebbe stato, nei tempi lunghi, esattamente il contrario del previsto. Invece di atterrire “i mercanti edonisti” di là del Pacifico, e di indurli alla pace di compromesso, avrebbe dato loro una terrificante frustata e avrebbe rinsaldato a fondo la loro determinazione di rispondere all’offesa.
I primi mesi di conflitto, come si sa, furono una marcia trionfale per le forze giapponesi. Il 10 dicembre del 1941 si ebbe l’affondamento, nei mari della Malesia, di due unità navali britanniche di capitale importanza (la Prince of Wales e la Repulse). Pochi giorni dopo (23 dicembre) i giapponesi occuparono l’importante isola di Wake, in mezzo al Pacifico; e la conquista di Hong Kong seguì a ruota (Natale 1941). Il 2 gennaio cadeva Manila. Le settimane successive portarono notizie di continue avanzate in Malesia, in Indonesia, in Birmania; infine si diffuse una notizia da togliere il respiro, e riguardava la caduta di Singapore (15 febbraio), che venne prontamente ribattezzata Shōnantō (l’Isola della Vittoria del Sud).
* * *
Un giorno all’inizio dell’estate Malachite e Clé erano andati in città per fare delle spese. Kyoto, lo si notava subito, era molto più animata di qualche tempo prima; la gente correva di qua e di là con una fierezza insolita.
Per caso, scendendo lungo Kawaramachi, i due italiani s’imbatterono negli amici Fujidaira. I saluti furono subito festosi, quasi esplosivi, niente inchinetti alla giapponese, ma un abbraccio aperto, all’americana. “Come state? E un bel pezzo che non ci vediamo... Allora, avete visto i prodigi dei nostri ragazzi? L’esercito, la marina, gli aviatori, sono tutti degli eroi, dei veri eroi. Dovunque si presentano sono vittorie. Ormai non ci sono più dubbi, il successo finale è sicuro!”
I Fujidaira erano molto cambiati. Clé stentava a riconoscere in loro la coppia abbattuta, incerta, timorosa della serata di sei mesi prima. “Avete fatto bene voi italiani,” rinforzava Mariko, “ad allearvi con noi... Godrete d’un posto privilegiato nel mondo del futuro! Verremo presto a trovarvi. Tenete pronta una carta geografica così potremo seguire con precisione gli eventi meravigliosi!”
Malachite e Clé lasciarono i loro amici con sentimenti piuttosto misti, confusi; pareva quasi incredibile questo loro ribaltamento interiore di giudizi, questo passaggio dalla condanna senza peli sulla lingua alla lode entusiasta. Eppure sicuramente erano stati sinceri prima, come lo erano adesso. E la loro capriola interiore rispecchiava gli umori, la temperie, le coloriture dell’animo di gran parte del popolo giapponese.
Non per nulla in quei mesi si sentiva parlare spessissimo di tenkō da parte di studenti e d’intellettuali d’ogni età: alla lettera tenkō significa “svolta, rivolgimento, conversione” e serviva generalmente a designare una rinuncia a idee di sinistra, per aggregarsi alle moltitudini di seguaci dei credo nazionalisti. Il termine è pregno di quell’aura religiosa (o vogliamo dire para-religiosa?) che permeava allora tutta la vita giapponese nelle sue dimensioni sociali e politiche.
Il tenkō era stato un fenomeno che riguardava la maggioranza del popolo giapponese, almeno in senso lato. L’onda d’entusiasmo e d’adesione ai programmi della dirigenza nazionale s’intensificò per tutto il ’42 e per buona parte del ’43.
Bisogna anche tener conto del fatto che gli eventi veri e i loro significati, venivano tenuti per quanto possibile nascosti al pubblico, nutrito dai media altamente controllati e manipolati.
Le sorti della guerra cominciarono a pendere dalla parte degli americani e degli alleati fin dal giugno del ’42 con gli insuccessi giapponesi alle isole Salomone, e poi soprattutto con la disastrosa battaglia aeronavale di Midway, ma in Giappone pochissimi potevano sapere o, sapendo, capire quello che succedeva.
I primi occhi s’aprirono nel luglio del ’44 con la perdita dell’isola di Saipan che poneva l’arcipelago giapponese alla portata dei bombardieri americani. Il pubblico giapponese però restava indietro rispetto agli eventi di almeno un anno, e vi restò sino all’estate del ’45. Per moltissimi il discorso radiotrasmesso del Tennō Hirohito che annunciava la resa il 15 agosto dei ’45 fu un colpo inaspettato e tremendo.