7. Nibutani: morte di un europeo

E adesso torniamo brevemente indietro, all’aprile del 1942.

I tempi stavano diventando sempre più grami e cupi. Quasi tutto era razionato. Il pane non si trovava più in alcun modo, ormai Clé e la sua famiglia si erano abituati al riso, che generalmente era di qualità inferiore; chissà da dove veniva? Quello giapponese, “il migliore del mondo” come diceva il grande Motoori un secolo e mezzo prima, era certo riservato all’esercito e alla marina. Per uscire da Kyoto, fossero pure pochi chilometri, occorreva un permesso speciale da richiedersi presso la polizia.

Un giorno, a mezzo posta, giunse un biglietto dal dottor Munro, dall’Hokkaido: era molto sconfortato, si sentiva vicino alla fine, diceva, e sperava che Clé potesse fargli un’ultima visita. A prima vista l’impresa sembrava del tutto disperata. Facevano difficoltà a dare un permesso per recarsi a Nara, a ventiquattro chilometri di distanza, figurarsi l’Hokkaido, distante più di mille! Miracolosamente Clé trovò all’ufficio centrale di polizia un commissario già conosciuto in precedenza, francofono, civilissimo e forse criptopacifista, il quale, con molte raccomandazioni di non prendersi libertà oltre quelle concesse, gli dette un lasciapassare che valeva alcune settimane.

Il viaggio in treno fu lento e interrotto da numerosi controlli. Il Giappone andava incupendosi di giorno in giorno, anche se la stampa e la radio continuavano a celebrare vittorie, spesso immaginarie. Tra Nagoya e Tokyo capitò a Clé di sedersi vicino a una signora di mezza età che era vissuta a lungo nelle Hawaii e che quindi parlava un inglese fluente; era chiaro che le faceva piacere usare per breve tempo la lingua della gioventù. Dinanzi a Clé e alla sua momentanea compagna di viaggio, sedeva un ometto del tutto insignificante, con un cappelluccio tirato sugli occhi, che pareva assorto nel sonno. All’improvviso, in modo assolutamente inaspettato, saltò in piedi, con il berretto in una mano, urlando con voce da forsennato: “Eigo hanashite wa ikan! (È vietato parlare inglese!).”

Compiuto il gesto si rimise a sedere, si ricalcò il cappelluc-cio sugli occhi e riprese come nulla fosse a dormire: aveva fatto il suo dovere. Nessuno in tutto il vagone, a vasto scompartimento unico, mosse un ciglio, un dito, o volse la testa verso “il luogo del misfatto”. Anche questo era il Giappone d’allora. Naturalmente la conversazione avviata si raggelò all’istante.

Raggiunta Aomori e la punta dell’isola di Honshu, Clé s’imbarcò per l’Hokkaido. Quanti ricordi del medesimo passaggio quattro anni prima! Allora la famiglia era formata da lui, Malachite e Dafni, ma ormai c’erano altre due figlie, Yuri nata in Hokkaido, e Kiku nata a Tokyo. Che fare nel prossimo futuro? Rincorrere ancora il maschio? Malachite l’avrebbe desiderato, ma con la guerra che furoreggiava in tutto il mondo era meglio forse un’oculata prudenza.

Raggiunto il porto di Hakodate, Clé salì sul treno che doveva portarlo lungo la costa fino a Saru Monbetsu, una decina d’ore di viaggio. A circa metà strada stava la stazione di Muroran, città notissima per le sue acciaierie, quindi zona molto “nervosa” dal punto di vista dello spionaggio. I poliziotti e i controlli si moltiplicarono oltre ogni dire. Quando il treno giunse a pochi chilometri dal centro siderurgico, un poliziotto entrò nello scompartimento dove stava Clé, tirò giù le tendine antisole ai finestrini e rimase a sedere con lo straniero per una buona mezz’ora: meno male che era gentile, simpatico, e che continuava a scusarsi per “il disturbo recato”.

Dopo Muroran e alcune altre cittadine di media importanza, il treno prese a correre nell’aperta campagna d’Hokkaido, lungo una costa ampia e deserta, ancora coperta di neve.

La parte finale del viaggio, da Piràtori a Nibutani, venne compiuta con una slitta a cavallo. Risalendo la Val di Saru, Clé non sapeva se abbandonarsi alla gioia immensa d’una ritrovata libertà, d’un contatto con la natura in tutto il suo splendore (colline boscose e nevose vicine e lontane, il fiume che scorreva in larghe curve verso il mare, solitudini, silenzi, qualche primula sulle prode a solatio), se godere della compagnia che gli teneva il vecchio cavallaro ainu, o se angustiarsi per le cattive notizie che andava ascoltando sulla salute del dottor Munro.

Arrivato alla casa fu accolto mestamente dalla signora Chiyoko. Il dottore stava a letto, magro, pallido, irsuto, ansimante. “Finalmente sei arrivato davvero!” fece il malato abbracciando Clé e tenendoselo stretto a lungo come fosse stato un figlio. Clé avverti subito che, in quel frangente, egli rappresentava qualcosa di suprema importanza per il vecchio medico scozzese. Del resto, anche Clé era vivamente commosso: sentiva d’essere di fronte a un maestro profondamente amato, che molto probabilmente avrebbe presto perduto. Clé riandava con la mente a tante lunghe serate trascorse con Munro (e una volta memoranda anche con Dick Storry, il giovane amico di Otaru) parlando di filosofia, di ricerche antropologiche, di religioni, di massimi e di minimi sistemi, e anche di musica. Spesso anzi le serate terminavano con alcuni dischi di sonate, sinfonie o concerti, specialmente di Mozart: discacci a 78 giri, come usavano allora, pesanti e fragili, come dei piatti di terraglia. In realtà Munro e Clé erano due europei sperduti in capo al mondo, che si comprendevano fin nei minimi segreti della mente e del cuore, infinitamente soli in quegli oceani di comunicabilità incerta, difficile, enigmatica. La sorte li accomunava in un abbraccio di tenerezza indicibile.

Le prime sere, quando Munro stava ancora benino, Clé poneva sul grammofono dei dischi. “Ascoltiamo il concerto di Mozart che mi portasti da Sàpporo due anni fa con Malakaity... Ricordi? Mi piace da morire. Non mi stanco mai di ascoltarlo.” Messo in moto l’apparecchio, il moribondo dottore e Clé si lasciavano andare alle divine armonie mozartiane tenendosi per mano, come due innamorati. In un primo momento a Clé questo contatto parve un po’ strano, ma poi si sentì di fare tanto bene, di dare un immenso sollievo, al patetico padre adottivo, sottoposto a un bruttissimo frangente.

Come medico, Munro si era diagnosticato un’occlusione intestinale, forse facile a risolversi chirurgicamente in una città con buoni ospedali e medici competenti, ma lassù, tra i bravi ma ignari aborigeni del Nord, l’affezione era mortale. Due medici giapponesi vennero da Sàpporo, lo visitarono, poi se ne tornarono sentenziando che non c’era più nulla da fare. Clé rimase sempre con il dubbio crudele in cuore che la trascuratezza del soccorso fosse dipesa dal fatto che il paziente era, alle origini e in ultima analisi, un nemico. Di giorno in giorno le condizioni del malato andarono peggiorando. In capo a due settimane esalò l’ultimo respiro.

L’indomani tutto il paese, centinaia di contadini, boscaioli, artigiani, passarono a salutare la salma, a renderle omaggio. I vecchi e le donne piangevano. “Chi si prenderà più a cuore le nostre sorti, adesso?” si chiedevano in sincera mestizia. In seguito un comitato locale eresse una tomba semplice ma degnissima al dottore, sulla cima di un colle vicino a Nibutani. Ancora adesso ci sono sempre dei fiori.