1. Nelle mani di Kasuya

I primissimi giorni trascorsero pacificamente, mentre la vita andava assestandosi, prendendo certe forme che dovevano poi restare immutate per mesi, per anni. Fin dall’inizio il capo della polizia di Nagoya era venuto a parlare ai detenuti, assai benevolmente per la verità, e aveva detto in sostanza: “Siete nelle nostre mani, comportatevi bene e andremo d’accordo.” Furono poi presentati i veri guardiani, quattro uomini, che dovevano abitare con i detenuti prestando servizio a due per volta in giorni alterni. Il più anziano tenne al gruppo un discorso supplementare, in cui ritornò sugli stessi punti del capo, aggiungendo che al Tempaku si doveva vivere in tutto e per tutto secondo le abitudini giapponesi; restava perciò sottinteso che quanto al cibo bisognava pensare al riso e non al pane, che le donne non godevano di alcun privilegio, che tutti dovevano salutare rispettosamente la mattina e la sera i superiori, e che insomma si affrontassero le difficoltà facendo gaman, cioè con pazienza e sopportazione.

Tolte alcune piccolezze, l’inizio parve buono; e lo striminzito gruppo d’italiani, riuniti dal caso ai confini estremi dell’Asia, cominciò quella che poi sarebbe stata una lunga e penosa avventura, con ottimo morale. Fu chiarito subito che tutti si trovavano là dentro per antifascismo, o sospetto o apertamente dichiarato. A Tokyo, raccontò Giorgio Bernari, un giovane borsista romano che si occupava di storia dell’arte, c’era stata perfino una solenne cerimonia durante la quale ogni cittadino italiano aveva dovuto giurare sul Vangelo se stava con Badoglio o con Mussolini. Oltre ad Adriano Somigli (detto Somi) e a Giorgio Bernari, c’era un anziano e gagliardo diplomatico d’origine ebraica, il quale aveva lasciato il servizio per comprensibili ragioni alcuni anni prima, e viveva ritirato vicino a Tokyo con la moglie giapponese; c’era un missionario con il suo assistente laico, un simpatico giovane contadino del Friuli; c’era un magro e arzillo professore dai corti capelli bianchi; c’erano un chimico napoletano e un ingegnere milanese, ambedue di passaggio in Giappone e presi nella retata; c’era il rappresentante della Fiat a Tokyo; c’era un giovane laureato che fruiva di una borsa di studio; e c’era infine un anziano residente di Yokohama, commerciante, il quale – per l’età e per il fatto d’essere nato in Giappone e quindi di parlare benissimo la lingua nazionale – venne nominato dai poliziotti signor in-chō (inciò), “capo della comunità”.

Gli amici di Tokyo raccontarono poi che quasi tutti i membri dell’ambasciata, insieme al capo missione, il barone Indelli, erano stati confinati in una casa nei dintorni della capitale e privati in maniera sommaria delle loro immunità diplomatiche. I giapponesi riconoscevano soltanto, come rappresentante dell’Italia, un certo colonnello Principini, un fascista trasferito dalla Manciuria. Sembrava che il governo imperiale fosse particolarmente inferocito con i dissidenti badogliani per il fatto che alcune navi, che battevano bandiera tricolore in Estremo Oriente, avevano tentato di provocare degli autoaffondamenti. La condotta degli italiani dissidenti, da quanto ne potevano giudicare i giapponesi da lontano, e senza comprendere le profonde ragioni storiche della tragedia, puzzava purtroppo di tradimento, apparteneva cioè, nel giudizio dei guerrafondai, alla specie più abietta della bassezza morale. D’altra parte (le cose umane non sono mai semplici), se, in quanto italiani, i reclusi appartenevano a una specie eccessivamente malvista, il loro particolare gruppo veniva almeno un poco redento dal fatto che lo si poteva considerare dei “fedeli al re”.

Qualche barlume di fedeltà (chūgi, si pronuncia ciughi) da qualche parte, insomma, spuntava fuori; e questo aveva il suo valore agli occhi di gente che affronta la vita in maniera terribilmente seria, impegnata e manichea. Chi cercava di spiegare la posizione dei dissidenti italiani ai poliziotti diceva sempre: “E voi che fareste? Non seguireste l’imperatore in ogni possibile circostanza?” Argomento che non impressionava troppo, anzi aveva certi suoi pericoli, perché si fondava sull’assunzione altamente eretica che l’imperatore nipponico e i sovrani ordinari d’altre parti del mondo appartenessero a una medesima categoria di esseri, ma veniva accettato, almeno formalmente, come buono.

L’ottimismo iniziale era inoltre favorito dal fatto che tutti si ritenevano amici sinceri del Giappone, non in un senso politico o partigiano, ma per essere legati al Paese e al suo popolo da affetti profondi, personali o di studio: infatti tutti, o quasi, parlavano giapponese. Che gli eventi della guerra avessero cacciato il gruppo nella triste posizione di dover perdere la libertà personale era fatto contingente, deciso da incontrollabili movimenti tellurici della storia; perciò sembrava giusto sperare in un trattamento, non diciamo di favore, ma umano.

Anche il diario di Malachite, in quei primi giorni, ha note ottimiste come questa: “Nagoya, Tempaku-ryō, posto bellissimo, casa pulita, gradevole, con tatami (le stuoie imbottite delle case nipponiche). Poliziotti più duri e severi, ma non scortesi. Fattomi effetto essere chiamata ‘Raimondi, tu...’, però oggi mi hanno detto okusan (signora), diventano man mano meno severi, visto che tutti ci comportiamo meravigliosamente – si lavora con efficienza, organizzazione, buona volontà, camaraderie, non ci si lagna, non si chiede niente. Solo gli uomini hanno insistito per il permesso di farsi la barba ogni giorno e l’hanno ottenuto. Il mangiare è poco, ma dicono solo fino al 1° novembre. Alle bambine permettono tutto. In questo sono straordinari, come tutti i giapponesi rispettano i bambini, mi danno del latte per loro, e le fanno stare in giardino a qualsiasi ora.”

Questa nota dà già un’idea di alcuni particolari della vita al Tempaku. Un aspetto quasi compulsavo della personalità giapponese è quello di regolare ogni funzione giornaliera, specie se collettiva, in maniera minuziosa, maniacalmente minuziosa. Immaginarsi venticinque latini sprovveduti, procrastinatori, nuvolai, buttati come giocattoli nelle mani della polizia più burocratica dell’universo! Eppure bisognava che tutti si piegassero silenziosamente e mormorassero hai, , a ogni nuova restrizione. L’orario era regolato di mezz’ora in mezz’ora. Sveglia alle sei, pulizia personale, pulizia delle stanze, primo leggero pasto alle sette, poi mezz’ora di riposo; e avanti così fino alle dieci di sera.

Chi come Clé, Giorgio o Somi, aveva sperato di sfruttare questo tempo di prigionia per leggere e studiare dovette rassegnarsi ben presto a un’amara delusione: era permesso prendere dei libri in mano soltanto durante il pomeriggio, o la sera, e per poco. Insieme alla regolamentazione del tempo, andava quella dello spazio; qui si poteva stare dalle sette alle sette e mezzo, ma non dalle dieci alle dodici, lì si poteva sedere ma non leggere, là si poteva camminare ma non parlare, e avanti in una miniatura di regole e regoline applicate con esasperante pedanteria. In quanto al santo dormire ristoratore, era assolutamente proibito in qualsiasi momento della giornata.

Il fuoco a legna del bagno veniva acceso una volta la settimana; si trattava d’una capace vasca di legno e l’acqua era calda davvero. Vigevano però le precedenze giapponesi: innanzitutto i poliziotti, poi i due guardiani della casa (marito e moglie anziani, che si vedevano di rado), infine gli internati vecchi; ultimissimi i Raimondi, con moglie e bambine. La prima volta ci fu una sorta di protesta generale: “Almeno le bimbe fatele entrare per prime... Va bene che con il sistema giapponese ci si lava bene fuori prima di calare nella piscina comune, ma è una questione di delicatezza, di sensibilità!” Si trattava però d’una questione di principio – “rispettare le consuetudini giapponesi” – e fu necessario a tutti chinare la testa. Del resto, di lì a poche settimane, sarebbero comparsi ben altri affanni che non le precedenze balneari.

Già il 21 novembre nelle note di Malachite si poteva leggere: “Un mese di questa vita... Mi sembra di essere au bout des forces.” Trascorse le prime settimane, durante le quali gli internati avevano potuto integrare le scarse razioni con alcune scatolette portate da fuori, cominciò a profilarsi uno spettro vago e terribile: quello della fame. Dopo alcune incertezze iniziali, le razioni si erano definitivamente stabilizzate su ventotto go di riso per sedici persone, al giorno, in altre parole circa 130 grammi di riso crudo a testa; un go corrisponde a 180 centimetri cubici. Il calcolo delle sedici persone era basato sugli adulti, inoltre si concedeva qualche misera cucchiaiata di miro (pasta di fagioli fermentata), di shōyu (salsa di soia), e qualche verdura; ogni tanto venivano distribuiti alcuni piccoli pesci secchi (mezzo per uno): la carne compariva forse una volta al mese, pochi grammi per ciascuno.

Una dieta, insomma – sulle ottocento calorie al giorno –, bastante appena per tenere in vita, sul limite precario tra sussistenza e disintegrazione.

A guerra terminata, Clé venne a sapere che in realtà il ministero dell’Interno (Naimushō) aveva previsto per il gruppetto d’italiani dissidenti delle razioni, non diciamo generose, ma ampiamente sufficienti per tirare avanti in buona salute.

La base nazionale della razione di 2,3 go di riso a persona era assicurata, inoltre erano previste uova, pesce, latte, carne, verdure, condimenti, frutta: praticamente una decentissima dieta di sussistenza e sostentamento. Purtroppo il problema cibo andava facendosi sempre più gramo nel Giappone in guerra; allora la polizia di Nagoya, con iniziativa puramente locale e quasi mafiosa, che faceva? Lasciava che le varie razioni arrivassero al Tempaku, poi ai detenuti allungava quel tantino che bastasse per tenerli in vita, mentre il “plus-valore” disponibile veniva silenziosamente portato via e distribuito, chissà come, tra i notabili della congrega di guardiani.

Inutile dire che ogni legame con il mondo di fuori era tagliato nella maniera più assoluta. La casa del Tempaku era isolata in mezzo a una landa disabitata. Nessuno vi si avvicinava e ai detenuti non era permesso avvicinare alcuno. Il vecchio professore e il diplomatico a riposo ricevevano una volta al mese le loro mogli per alcuni momenti (portatrici di pacchetti misteriosi, invidiatissimi...), il missionario veniva visitato anche lui circa una volta al mese da un padre tedesco, ma erano eccezioni. Non si potevano ricevere pacchi, doni, aiuti. Com’è facile immaginare, la posta veniva censurata e trattenuta a lungo prima d’essere consegnata ai destinatari. Gli internati cominciarono presto a sentirsi dei sepolti vivi.

* * *

Cos’era successo perché Clé, Malachite e le loro tre bambine, si trovassero in queste penose condizioni?

Molto semplice. Quando scoccò la data fatidica dell’8 settembre 1943 (il 9 in Giappone) e venne annunciato pubblicamente l’armistizio di Cassibile, secondo il quale l’Italia si arrendeva agli alleati, Clé con la famiglia si trovava a Karuizawa, un villaggio a novecento metri di quota vicino alle Alpi giapponesi, dove gli stranieri residenti in Giappone usavano trascorrere i mesi del massimo caldo, da luglio ai primi di settembre. La mattina del 9 Clé e i suoi trovarono la propria casa praticamente occupata dalla polizia locale. Con ferma gentilezza venne comunicato agli italiani, piuttosto sorpresi che, date le vicende europee, la situazione era fluida ma oscura, e di conseguenza i Raimondi dovevano considerarsi agli arresti domiciliari e prepararsi al rientro a Kyoto, appena fosse giunto l’ordine.

L’ordine venne il giorno dopo; il lungo viaggio fino a Kyoto ebbe luogo in treno e in compagnia di due poliziotti giovani, e impenetrabili. Non erano rudi, o sgarbati, o altezzosi, ma semplicemente intenti al loro stretto dovere e basta, che era quello di accompagnare la famiglia italiana da Karuizawa a Kyoto, come fossero dei cavalli, o altri esseri con cui non esistono vie note di comunicazione. “E adesso? Cosa troveremo a Kyoto?” chiedeva per sé e per il consorte Malachite, con un’intonazione molto preoccupata nella voce. “Non so, non mi sento tranquilla... chissà come saranno gli angiolini di Kyoto?” (Ormai nel lessico famigliare dei Raimondi “angiolini” significava “poliziotti”). Clé cercava di consolare moglie e figlie, ma Dafni cominciava a capire che qualcosa non andava bene. Di fatto la bambina, ormai aveva sette anni, stando molto del tempo con Miki e giocando con i coetanei del vicinato, parlava meglio il giapponese dell’italiano, per non dir nulla dell’inglese, quindi era prontissima a sorbire da chi le stava intorno notizie, supposizioni, dicerie.

Anche a Kyoto i Raimondi trovarono la casa occupata dai poliziotti, ma se Dio voleva, erano di gran lunga migliori di quelli incontrati a Karuizawa, nonché di quelli del treno: almeno parlavano! Non solo, ci fu addirittura una telefonata cordiale e rassicurante da parte del capo della sezione stranieri, francofono abbastanza fluente, il quale diceva più o meno: “Mi dispiace molto per quello che sta succedendo in Italia. Per ora rimanete tranquilli in casa. Non vi capiterà nulla di sgradevole. E farò di tutto per non dividervi...”

Nei giorni seguenti ci fu sempre almeno un poliziotto in casa: fortunatamente stava in cucina, dove Miki lo blandiva con tazze di tè e biscottini senbei. Ma dopo un po’ la guardia divenne una formalità e Malachite riuscì a scendere in città per fare delle spese. Clé si spingeva addirittura sul monte Hiei, vicino a casa, per fare delle ristoratrici camminate da solo. Era nel suo carattere, nel caso d’eventi infausti, trovare consolazione nella natura, quasi fosse una sorta di chiesa. Più tardi negli anni, Clé avrebbe riscontrato i propri più genuini sentimenti di quelle giornate nelle parole di Solženitzyn, quando esprimeva la gioia di trovarsi in un bosco siberiano e diceva agli alberi: “Cari, vi abbraccerei!”

Un giorno giunse ai Raimondi, tramite l’angiolino di casa e Miki, la notizia che occorreva prepararsi: prima o poi la famiglia, che rappresentava a Kyoto lo stato traditore dell’Asse Roma-Tokyo-Berlino, sarebbe stata trasferita a convivere con altri italiani, di altre parti del Giappone, i quali si trovavano nelle medesime condizioni: ma dove e quando? Non si riusciva a capire; poi parve si trattasse di Nagoya, la grande città industriale situata tra il complesso urbano di Tokyo-Yokohama e quello di Osaka-Kyoto-Kobe.

Si sussurrava anche di una eventuale possibile scelta tra il governo del Sud (il re e Badoglio) e la repubblica che Mussolini stava fondando a Salò; ma Malachite aveva già risolto la faccenda. Nell’ingresso della casa di Borgo del Pozzo d’Uccello che Vola, considerata dai giapponesi una sorta di “filiale del Consolato Italiano di Kobe”, fino ai primi di settembre, c’erano state appese al muro due foto, una di Vittorio Emanuele e una di Mussolini. Appena tornata da Karuizawa a Kyoto, Malachite aveva riposto il ritratto del duce in un cassetto, lasciando in splendido isolamento il rappresentante di casa Savoia; chiarissimo messaggio per tutti, specialmente per gli angiolini che praticavano con tanta assiduità la casa.

Clé avrebbe fatto indubbiamente lo stesso, ma il gesto spontaneo e immediato di Malachite, fatto senza consultare in alcun modo il marito, prima lo infastidì un poco, in quanto erano cose che riguardavano tutta la famiglia (due adulti e tre bambine di sette, cinque e tre anni), ma poi finì per fargli tenerezza: “Ah, ah, ecco Malachite, la solita nobildonna sul cavallo bianco che sta per il suo re, e che ripone nell’armadio l’immagine del dittatore, il quale avendo usurpato il potere del sovrano, ne ha poi fatto uso funesto!”

A Kyoto le giornate passavano tranquille e abbastanza serene: tra l’altro ottobre è uno dei mesi più gradevoli in Giappone, i venti monsonici, sorta di scirocchi pesanti e quasi perenni che imperversano durante l’estate con piogge e afa, sono ormai spenti; al loro posto soffiano tramontanini ancora per nulla freddi che però prosciugano l’atmosfera e ripuliscono il cielo ridonandogli un festoso e profondo azzurro. Per di più è la stagione di alcune fioriture. La prima è quella curatissima dei crisantemi, fiore privo d’ogni riferimento accidentale a morti e condoglianze, ammirato per la sua sontuosa bellezza, per il suo profumino agrodolce (nonché per il gusto delle sue foglie – sì, esistono anche gli shoku-giku, i “crisantemi da pasto”, piccoli e saporitissimi!).

Il secondo caso riguarda una fioritura per modo di dire, ma di massimo rilievo e d’incredibile incanto: l’arrossamento delle foglie d’acero (momiji, si pronuncia momigi). L’acero giapponese ha delle foglie piccole ed elegantemente pennate; anche da verdi formano ricami vegetali da fare innamorare chiunque, figurarsi poi quando arriva l’autunno! In quello squisito frangente la chioma dell’albero non muta colore tutta in una volta, ma offre, giustapposti allo sguardo incantato, rami ancora verdi, altri vagamente giallini e dorati, con squilli qua e là d’un rosso sanguigno.

Per Kyoto è una festa. Come la gente va ad ammirare in folla la fioritura dei ciliegi in aprile – per esempio lungo la Passeggiata del Filosofo ai piedi di Higashiyama, o nel parco del tempio di Ninna-ji a ovest della città – così nei mesi d’ottobre e novembre code e pellegrinaggi incredibili sfilano lungo vie e sentieri che portano al Sanzen-in di Ohara, oppure ai templi romiti di Takao, dove tutta la montagna è coperta di aceri.

Clé e Malachite si guardavano tristemente negli occhi: tanta bellezza in giro, ma noi? Cosa ci aspetta? Un giorno verso la fine d’ottobre, alle otto di mattina, s’intese il suono muscoloso di passi nell’atrio della casa dei Raimondi: era il signor Iwami, vicecapo della sezione stranieri, con sei o sette uomini in uniforme, e dall’aria poco conciliante. “Buongiorno dottor Raimondi, come sta?” fece molto cortesemente il signor Iwami. “Possiamo entrare un momentino da lei?”

Iwami e i suoi accompagnatori si introdussero nel salotto, sedendosi qua e là sulle varie sedie e poltrone, ovviamente disposte in giro per tempi più pacifici e occasioni più festose. La conversazione girò per alcuni minuti intorno al tempo, splendido, e alla fioritura degli aceri, spettacolare... Poi il signor Iwami notò il grammofono aperto e dei dischi sul tavolo vicino.

“Le piace Brahms?” chiese con fare addirittura conviviale.

Poi, senza attendere alcuna risposta continuò: “Anche a me piace immensamente. I miei guadagni mi permettono pochi lussi, ma appena ho qualche soldo da parte compro dischi di musica classica. Amo anche Beethoven, si capisce. Conosce certo la Sesta Sinfonia...”

Intanto Malachite era scesa dal piano di sopra e il signor Iwami la salutò nel più fiorito giapponese, con tutti i gozaimasu di rito, e continuò a parlare di musica. La cameriera entrò, servì a ciascuno una tazza di tè con dei biscottini, e la conversazione, più adatta alle cinque del pomeriggio che alle otto del mattino, riprese.

“Vede,” continuò Iwami, “Beethoven nella Sesta Sinfonia mi fa tanto pensare a Kano Eitoku, il nostro grande pittore del Cinquecento. La natura come serenità, come intuizione religiosa...” Il vicecapo bevve a fondo una tazzina di tè, vide che gli ospiti non avevano ancora finito la loro, attese un momento; poi si levò in piedi, non di scatto ma con fermezza e, cambiando totalmente tono della voce, disse: “Alzatevi!” (Aveva già cominciato a parlare con il kimi, con il ‘Tu”, invece del rispettoso anata, il “Lei” del giapponese). Clé e Malachite si alzarono, e lui proseguì: “Da questo momento non siete più alle dipendenze della vostra ambasciata (per i giapponesi gli stranieri erano sempre ‘alle dipendenze’ della propria ambasciata) perché noi non riconosciamo il vostro governo. Siete alle dipendenze dell’Imperiale Governo Giapponese. Dovrete prendere ordini solo da noi. Preparatevi a partire con i bambini e con meno bagagli possibile...” Poi si rivolse a due dei suoi scherani: “E voi restate qui, sorvegliateli, sono nemici...”

Nella previsione d’un misterioso trasferimento nel prossimo futuro, Clé aveva raccolto una trentina di piccole cassette di legno, come usavano allora a Kyoto per la brace, e v’impacchettò il migliaio circa di libri che formavano la sua biblioteca. Avvolse ogni cinque o sei volumi in una copia del Japan Times, in modo da potersi forse ritrovare in un lontano futuro una cronaca, “dal di dentro”, di parte almeno dei primi due anni della Guerra del Pacifico (1941-1945). Quasi incredibile a dirsi, ma, attraverso una serie di combinazioni fortuite e fortunatissime, Clé riuscì a portare a Firenze nel 1946 non solo i libri raccolti in Giappone, non solo la collezione etnografica di oggetti degli Ainu, ma perfino una sorta di cronaca giornalistica dei drammatici eventi degli anni 1941 e 1942!

Il primo passo fausto fu l’offerta di Jean Paul Leclerc: “Ma sì, nascondi le tue cassette nelle cantine dell’Istituto Francese di Cultura di Kyoto... Sono così vaste che nessuno s’accorgerà di nulla!” E, incredibile quasi a dirsi, passarono due anni, le città giapponesi furono bombardate a tappeto, Hiroshima e Nagasaki andarono in fumo atomico, Hirohito fece sentire la sua voce per la prima volta nella storia per annunciare la resa del suo impero, MacArthur sbarcò da conquistatore in terra nipponica, il mondo venne rovesciato in Occidente e in Oriente, ma nell’ottobre del 1945 le cassette di libri, le scartoffie e gli aggeggi etnografici, erano esattamente al loro posto. Nessuno le aveva notate. Non c’era che da noleggiare un camioncino e portarsele via!

* * *

Con la fine di novembre si presentarono i primi freddi: naturalmente non esisteva alcun sistema di riscaldamento, e la scarsità di nutrizione rendeva tutti più sensibili del solito alle basse temperature.

Gli uomini cominciarono a soffrire d’incontinenza, Clé poteva dirsi tra i più fortunati, doveva alzarsi soltanto due o tre volte per notte, ma c’erano altri che dovevano fare cinque, sei, talvolta otto corse notturne al gabinetto. Quest’ultimo si trovava assai lontano dalle stanze con i giacigli giapponesi (futon). Bisognava scendere una scala e percorrere un lungo corridoio, illuminato appena, le cui tavole di legno risuonavano cupamente al passaggio. Clé non avrebbe mai dimenticato gli incontri con i compagni, nel fondo della notte, lungo quel corridoio d’incubo. Ognuno cercava di andare e tornare svegliandosi il meno possibile, mantenendo con cura sotto le palpebre il prezioso dormiveglia, senza scuoterlo, che Dio ne guardi, non diventasse veglia franca e lucida! I colleghi di pena passavano allora strisciando i piedi come spettri, senza dirsi una parola, avvolti in una coperta, una sciarpa, o con un cappuccio da montagna sul capo. La mattina dopo i più sfortunati erano stanchi, sfiniti, rotti in mille pezzi: ma era vietato restare tra i futon cinque minuti oltre la sveglia. Ci sarebbe voluta una visita medica, ma senza una febbre, un bubbone, un’insufficienza cardiaca, come chiederla?

I poliziotti, dopo alcune conversazioni durante i primi giorni, si erano chiusi in un riserbo straordinariamente impenetrabile; non alzavano mai la voce, si mostravano pochissimo e sempre all’improvviso, controllavano e tacevano. Gli italiani impararono ben presto che i poliziotti, quando volevano farsi sentire, lo facevano in modo terribile e silenzioso: diminuivano le razioni. Piano piano ogni particolare della vita giornaliera era stato inquadrato in un ordine dal quale non era ammesso derogare in alcun modo. La sera dopo cena (un piatto di riso, una tazza di tè giapponese senza zucchero o latte) i due internati ai quali toccava il servizio di cucina per l’indomani si recavano dai poliziotti (chiusi nella loro cabina) a prendere il bun, la razione. Questo era divenuto il momento supremo e sacro della giornata. Gli internati si trovavano ormai ridotti in uno stato nel quale un go in più bastava a farli saltare di gioia come dei ragazzi, un go in meno a precipitarli nella più nera disperazione. La congrega stava seduta in trepido silenzio nella piccola stanza cosiddetta “da pranzo” e già, dal suono dei passi di quelli che tornavano, era possibile farsi un’idea di come si presentava la situazione. Qualche volta uno dei compagni arrivava di corsa: “Ragazzi, ci sono due uova!” (naturalmente per venti persone...), oppure: “Ehi, abbiamo ventotto go!” In altri e più numerosi casi si udivano i passi strascicati dei “cucinieri” che tornavano senza sangue nelle vene; aprivano allora la porta e posavano la scatola con il bun sulla tavola, annunciando a voce bassa: “Soltanto ventiquattro go.” Ed era come sentirsi due mani intorno al collo che stringono sempre più forte, ma lentissimamente. E intanto il respiro se ne va.

Da principio qualcuno aveva cercato di protestare, poi si vide che non solo era inutile, ma (come diceva l’ingegnere milanese) risultava del tutto “controproducente”. Volevano piegare i ribelli, non solo fisicamente, ma nell’intimo; i reclusi dovevano sorridere morendo, dire grazie, allora forse giungeva il piccolo supplemento che tirava su per alcune ore.

I quattro poliziotti costituivano un blocco compatto e unanime, inattaccabile e incorruttibile nella maniera più assoluta. Eppure le quattro loro diverse personalità erano divenute ormai trasparenti. Il capo del primo gruppo si chiamava Kasuya: era un uomo piccolo, magro, distinto, pulito e pettinato con cura estrema, che non alzava mai la voce e non sorrideva quasi mai; poteva avere una trentina d’anni. Clé ricordava sempre le sue mani nervose e sottili da intellettuale. Parlava un poco d’inglese, forse capiva l’italiano. Era stato subito battezzato “Valentino”, perché faceva lontanamente pensare al celebre attore del cinema. Era e rimase sempre l’uomo più temibile dei quattro, perché più intelligente, più furbo, forse più colto degli altri. Era e rimase sempre l’uomo più odiato.

Il suo compagno di squadra si chiamava Nishimura, e fu battezzato, con poca gratitudine bisogna riconoscerlo, “Cretinetti”; nei primi giorni aveva passato ai reclusi qualche verdura, qualche go di riso in più, perfino qualche uovo, ma poi Kasuya lo aveva sorpreso in uno dei suoi gesti generosi, e da quell’istante era stato completamente esautorato. Esisteva, ma i contatti simpatici e proficui dovevano dirsi aboliti.

La seconda squadra aveva per capo un certo Aoto, uomo basso, rozzo, furbo, d’una cinquantina d’anni, evidentemente venuto su dalla gavetta, in tutto e per tutto l’opposto di Kasuya – frutto invece di qualche scuola specializzata, accademico della polizia. Soltanto molti anni di disciplina e di lavoro in comune avevano potuto dare una patina simile a due esseri così diversi. Anche Aoto come Kasuya era “carogna” (per usare una delle espressioni che si sentivano pronunciare più frequentemente all’indirizzo degli angiolini), ma lo era in modo popolaresco e immediato, non con il lustro scientifico, universitario, di Kasuya. Ogni tanto alzava la voce, faceva delle sfuriate, ma poi conosceva anche delle mezz’ore da burbero benefico che ha qualche compassione dei grullerelli affidatigli dal caso. Con Aoto c’era la speranza di capitare in un momento d’umore favorevole, se gli si andava a chiedere qualcosa. Con Kasuya mai.

Il compagno di Aoto si chiamava Fujita: era giovane, feroce, stolto, presuntuoso. Di tutti era il più sguaiatamente militarista. Camminava qua e là con il petto in fuori, maneggiava un bastone come una spada da samurai cacciando urlacci raccapriccianti. Voleva fare il duro e parlava a ogni proposito della Grande Potenza del Grande Giappone, della Sublime Maestà del Divino Imperatore. Era stato battezzato “Radetzky”. Con tutto ciò, era il meno temibile della quaterna per la semplice ragione che, in fondo, era il più sciocco.

Naturalmente tutti cercavano di seguire per quanto possibile gli avvenimenti del mondo di fuori. Dopo qualche tempo venne concesso di leggere i giornali: ne arrivavano due, uno giapponese il Mainichi, e uno inglese, l’Osaka Mainichi. Gli eventi sembravano maturare con esasperante lentezza; le spettacolari avanzate dei giapponesi verso sud parevano definitivamente essersi fermate, ma chi avesse voluto pensare a una soluzione tale da portare alla pace si sentiva invaso dallo sgomento.

Due, tre, cinque anni, quanti ne potevano occorrere? È difficilissimo dare al lettore la sensazione d’assoluto isolamento, di totale abbandono, in cui il gruppuscolo di reclusi viveva. Distanze smisurate, invalicabili li separavano da qualsiasi possibile congrega d’amici. Fughe? Sarebbe stata assoluta follia pensare a movimenti non autorizzati in un Paese dove un occidentale si distingue a mezzo miglio di distanza, in un Paese compattamente unito, simile a un blocco tetragono di cemento. Era un po’ come sentirsi sepolti da una frana dentro una miniera, a centinaia di metri dall’imbocco, nella notte delle viscere terrestri. Talvolta, pensandoci, prendeva una disperazione cupa e finale, e veniva da rassegnarsi intimamente alla morte.

Come si può bene immaginare, le discussioni s’accendevano, ardevano e passavano costantemente sul piccolo gruppo, a proposito d’ogni cosa, come tempeste sulla chioma d’un canneto. La fame rende spesso le intelligenze puntute, allucinate, i caratteri aspri o serpiformi, incaparbisce certe volontà come schegge di vetro. In che modo reagiranno i giapponesi quando cominceranno a perdere? Su questo punto, per esempio, che riguardava tutti così da vicino, scendevano focosamente in lizza vite intere d’esperienze, torrenti di sapere, le scienze divine e umane, l’antropologia e la metafisica, san Tommaso, Aristotele, Hegel, Vico, Spengler, de Gobineau, la filosofia del Buddismo e la mitologia dello Scinto... Alcuni, tra cui anche Clé, sostenevano che se avessero subito perdite sarebbero divenuti peggiori, più terribili, certa morte ferociores. Il vecchio diplomatico, un leone senza peli sulla lingua e dalle idee chiarissime in tutto, gridava invece: “Che ne buschino, vedrete come diventeranno carucci!” Allora era impossibile giudicare, e la giostra continuò per serate intere, ma il futuro di quei mesi lontani dette senz’altro ragione all’iracondo, geniale e coltissimo ex ministro.

Le discussioni erano l’unico vero passatempo (i giochi non erano ammessi) e talvolta divenivano come l’ebbrezza, un anestetico. Dopo tenzoni furiose sulle religioni, la politica, l’archeologia, l’igiene, le letterature di non si sa quante epoche e civiltà diverse, la scienza, lo spiritismo, la moda, l’Oriente, il diritto, le lingue ariane e non, qualcuno si accorgeva che erano trascorse quasi due ore. “Due ore verso la libertà! Meno due!” gridavano allora.

Ma d’improvviso, avendo sentito alzare le voci, appariva dietro l’uscio a vetrata l’ombra muta di Kasuya, riportando il gelo nei cuori dei miseri reclusi, ricordando loro come fossero impotenti, inutili, dimenticati, forse già vicini a una qualche fine improvvisa, imprevista, silenziosa. Un fiocco di neve che cade sulla neve, di notte.

Anche i caratteri di coloro che componevano il gruppo, piccolo e circoscritto, avevano avuto il modo ormai di manifestarsi in sfaccettature diverse ed erano a tutti ben chiare. I quattro anziani si guardavano in cagnesco l’un l’altro; il diplomatico, coraggioso e pieno d’un vigore straordinariamente giovanile, uomo intelligente, ragionatore, logico, di mondo, che doveva aver conosciuto successi non indifferenti nella sua lunga vita, non poteva soffrire l’inchō, un pacifico commerciante che aveva trascorso i propri giorni al banco d’un ufficio in Yokohama, e che si trovava, del tutto controvoglia, a fare da vaso di creta tra tanti vasacci di ferro, o comunque di metallo.

Il canuto professore linguista stava quasi sempre sulle sue, era l’unico individuo che non facesse parte spirituale della “comunità”. Aveva ogni tanto colloqui segreti con i poliziotti e non si comprendeva bene cosa pensasse. Dopo sei mesi improvvisamente sparì: liberato! E lasciò il Tempaku senza quasi dire arrivederci ai compagni, portandosi via fino all’ultima scatoletta di cibo.

Parimenti poco socievole – tutto sommato – era il missionario, un duro piemontese difficile a capirsi: conosceva però il giapponese scritto assai bene e in questo senso si rendeva utile agli altri quando capitava l’occasione.

Un secondo sottogruppo era costituito dagli uomini chiamiamoli validi, i sette che a turno facevano parte della squadra di servizio, quelli che dovevano provvedere alla pulizia, alla cucina, alle riparazioni, ai lavoretti vari che si presentavano continuamente come necessari in una casa vecchiotta e piena di gente. Esso era costituito dal chimico napoletano, dall’ingegnere milanese, dal rappresentante della Fiat, dal contadino friulano, dallo studente di Roma, da Giorgio Bernari, da Somi e da Clé.

Naturalmente dopo i primi giorni d’euforia e d’amicizia generale, cominciarono a farsi sentire le antipatie, le invidie, le insofferenze, com’era inevitabile avvenisse tra persone internate per lungo tempo, in condizioni avverse, in uno spazio limitato. In questo primo periodo si trattava a ogni modo di tempeste negli strati superiori dell’atmosfera; nulla toccava ancora le personalità nelle loro radici ultime e più arcaiche. Il gruppetto poteva dirsi costituito ancora da colti europei del ventesimo secolo che si accapigliano per argomenti di politica, storia, religione, estetica, che affrontano compatti, e in fondo dignitosi, un mondo ostile, decisi a superare gli ostacoli sotto l’impero della ragione. La cavalleria guidava ancora tanto cospicuamente gli atti che una certa discussione tra l’ingegnere milanese e il chimico napoletano poté terminare con un ghirigoro deliziosamente formale: “Da ora in poi ci daremo del ‘Lei’, va bene?” E se lo dettero davvero, per sempre!

Fu durante quei tempi che si cominciò ad avvertire la vicinanza delle feste: Natale e Capodanno erano ormai a ridosso. Tale fatto aveva indubbiamente in sé molta dolcezza, ma rendeva tutti, a momenti, insolitamente tristi. I pensieri correvano ai cari, parenti e amici, lontanissimi, dall’altra parte del mondo, e sembrava impresa di favolosa difficoltà, carica d’infinite incertezze, poterli un giorno riabbracciare. Malachite e le bambine passavano il tempo a fabbricare dei piccoli regali, confezionando delle bambole di stracci, dipingendo dolci immaginari su pezzi di cartone, scrivendo e infiorando bigliettini personali. I Raimondi ricevettero finalmente notizie dagli Uriu. Scrissero anche che avevano mandato per posta un pacco di mochi, il tradizionale dolce giapponese di riso pestato che si confeziona per l’anno nuovo, ma per lungo tempo non se ne seppe nulla. La polizia tenne sotto chiave il pacco fin quando il contenuto ammuffì e si fece immangiabile. Per fortuna la comunità amministrando con grande parsimonia le razioni, era riuscita a mettere da parte qualche etto di farina per celebrare, con una crema allo zucchero, la sera del giorno festivo.

La mattina di Natale fu grigia e gelida, una di quelle giornate invernali di ferro, che si chiudono severe sul mondo; ma poi il sole si fece strada e il pomeriggio sorrise aperto e sereno. Giorgio, con il suo spontaneo e commovente amore per i bambini, aprì per le piccole una scatoletta di pesche sciroppate, tenuta nascosta per qualche occasione speciale, e la gioia delle bimbe, pallide e silenziose da tanto tempo, benedisse improvvisamente la casa.

“Natale,” scriveva Malachite nel suo diario. “Permesso di fare l’albero, molto bello, e le bambine felici. Qualcuno (molto carini) trovato dei regalini per la calza. Qui proibizione di far comprare giocattoli, perché? Amarezza. Datoci permesso di cantare il 24 sera (Venite adoremus, Shizuki ki – cioè Stille Nacht in giapponese – Tu scendi dalle stelle ecc.) e stare su un po’ più tardi. In fondo un piacevole Natale. Il chimico ha fatto un’ottima crema.”

Intorno alla cottura e alla distribuzione di quel celebre dolce erano sorte discussioni durate poi per giornate intere; sembrava uno spinoso problema internazionale. Finalmente, non si sa come, tutti si trovarono sei o sette cucchiaiate di farinata, latte e zucchero, sul piatto – e l’opera di tanta cura, l’argomento di tanti discorsi, venne consumato in un attimo! A ogni modo quella notte tutti dormirono meglio del solito ed ebbero meno freddo, meno languori. E si notarono meno passeggiate diuretiche lungo il corridoio degli spettri.

Anche il primo dell’anno (1944) trascorse abbastanza tranquillo. “Magnifica giornata di sole,” annotava Malachite nel suo diario. “Messo le bambine in kimono; delle farfalline contente. Auguri dei poliziotti. Non ricevuto nessun trattamento speciale; salvo quattro uova per sedici persone. Ma il morale è alto. Dafni è guarita dagli orecchioni (dal 26 al 30); Clé scrive e benché dimagrito sta bene, io... Sana? E serena, molto serena. Tutta la vita sembra ferma. In attesa, pronta, a cosa... Cosa ci aspetta? E fra quanto tempo?”

Amarezze aspettavano gli internati, e umiliazioni; mesi duri, terribili si profilavano loro dinanzi.

Poco prima delle feste era apparsa al Tempaku una commissione di militari, e ogni internato era stato interrogato riguardo al suo atteggiamento sugli avvenimenti italiani, di cui, tra l’altro, erano conosciuti soltanto i lineamenti più generali. La famosa commissione deve aver poi deciso che era inutile tentar di “redimere” gente simile, che tutti si meritavano di restare rinchiusi, magari con qualche giretto di vite in più di quanto praticato fino a quel momento.

Fatto sta che dall’inizio di gennaio in poi, ogni giorno i prigionieri avvertivano qualche novità negativa, sia nella disciplina che era divenuta esosa in maniera assurda, sia nella diminuzione delle razioni calcolate, con scientifica freddezza, per tenere adulti e bambini giusto giusto sul filo della vita. I famosi go di riso erano scesi a ventisei, e spesso si riducevano a venticinque-ventiquattro: tutti vivevano nel terrore che diminuissero ancora. Dopo lunghi calcoli, il chimico e l’ingegnere, messe le loro teste insieme, conclusero che il totale delle razioni giornaliere raggiungeva sì e no le ottocento calorie, mentre, come si sa, ne occorrono almeno il doppio per non deperire irrimediabilmente.

Sottoposto a un simile trattamento un organismo umano si difende bruciando le proprie riserve; infatti tutti erano dimagriti fino all’inverosimile. Il chimico napoletano, poveretto, era invecchiato in maniera paurosa, sembrava un sopravvissuto a una vita di stenti, con gli occhi infossati e la barba lunga, la pelle a grinze intorno al collo. I sabati del famoso bagno gli uomini si divertivano a studiare sui corpi dei compagni l’anatomia dello scheletro: costole, scapole, bacino, spina dorsale, omeri e femori trasparivano nel loro grottesco splendore, come nei celebrati disegni di Leonardo da Vinci.

Soltanto i tre vecchi e il prete riuscivano a mantenere una certa forma perché potevano integrare le razioni con alcune misere scorte ricevute da fuori; per i laici dalle mogli, per il religioso da un confratello. Era ben poco, una scatoletta di pesce, un tozzo di pane secco, una boccettina d’olio, ma serviva giusto per superare l’estremo limite di fame al quale portavano le sole razioni degli angiolini.

La fame! Per tutti i componenti del gruppo questa realtà, tra le più terribili dell’esperienza umana, era stata sino ad allora un bel concetto letterario, un brivido che poteva accompagnare la lettura di Dante (Inferno, XXXIII, Ugolino nella torre) o i racconti di certe spedizioni polari (Franklin, Barents...). Nessuno pensava mai di diventare, un bel dì, uno scienziato della fame, un vero professore di questa gelida provincia dello scibile, uno specialista delle innumerevoli sensazioni che la fame sa generare, un giocoliere in perenne equilibrio sui fili delle sue bianche torture.

Tre volte al giorno, la mattina dopo le poche cucchiaiate di riso e la tazza calda di miso, a mezzogiorno e la sera, dopo un unico e misero piatto di pastone stracotto per farlo aumentare di volume, i reclusi trascorrevano una mezz’ora di tranquillità, di vero riposo; poi riprendevano inesorabili i morsi della fame, ora come un vuoto allo stomaco, ora, e molto peggio, come una debolezza estrema. Allora chi riusciva a nascondersi dagli sguardi di Kasuya si sdraiava da qualche parte perché il respiro veniva meno. E chi, per divertimento, contava le pulsazioni del proprio cuore, ne registrava cinquanta, talvolta anche meno al minuto; era la vita che si spegneva senza rumore, come una luce che che si affievolisce in una landa. Nella notte il tormento risuonava come un grido in una cupola sigillata, nera. Tutti dormivano poco e male, pur essendo, di giorno, stanchissimi. Alzarsi per i consueti pellegrinaggi notturni lungo il lugubre corridoio si trasformava in uno sforzo sovrumano.

Intanto il freddo s’era fatto intenso. L’unico punto riscaldato in tutto il Tempaku era la cucina, almeno nelle poche ore in cui stava acceso il fuoco per far bollire la kama, il paiolo con il riso-brodaglia; ma come ci si può facilmente immaginare, Kasuya e i suoi vietavano severamente che vi sostasse chi non era di servizio.

Donde nacque, come avviene in simili casi, un mercatino, una specie di borsa. “Ti cedo il mio servizio di domani contro due cucchiaiate di minestra...” La sera, coricandosi sui futon, i malcapitati si vestivano; sembrava bivaccassero in alta montagna. Il sabato, con il suo bagno, poteva dirsi l’unico giorno in cui venivano trascorse due ore di completo riposo dal brivido continuo che attanagliava i corpi. I fumatori ricevevano ogni tanto una misera razione di pessime sigarette. La pena era tanta che il chimico napoletano decise un giorno di liberarsi del tutto dalla mala abitudine. Con straordinaria forza di volontà ci riuscì. Ma per quasi un mese parve impazzito. Non gli si poteva dire nulla; era come uno scuoiato vivo, bastava un’ombra per farlo urlare.

Così passarono gennaio e buona parte del febbraio 1944, furono settimane orrende. Il riso veniva sempre più frequentemente sostituito da varie sostanze meno nutritive, e più difficili a digerirsi: dai fagioli di soia, da una varietà grossolana di spaghetti (dieci fili a testa per pasto), dalla farina, da una fettina di pane o, peggio di tutto, da certe patate dolci seccate e tagliate a pezzi che, messe a bollire, producevano una brodaglia nera senza la minima sostanza. Intanto gli internati vedevano arrivare al Tempaku scatoloni di zucchero, panieri di uova, sacchi di riso bianco, vasi di miro, boccali di shōyu; insomma tutte le cibarie che erano state destinate per loro dai Soloni del lontano Naimushō (ministero dell’Interno) a Tokyo, ma che poi finivano a rallegrare le cucine di capi e capetti della polizia locale.

In quel febbraio tutti vissero una crisi profonda ed estrema; la morte s’era ormai avvicinata sino a un punto in cui occorreva scegliere: o lasciarsi andare al nulla o attaccarsi disperatamente, con le unghie e con i denti a qualsiasi possibilità di salvezza. L’ingegnere milanese era divenuto così debole che Kasuya dovette permettergli di restare sdraiato anche di giorno; passava le ore immobile, con un mascherino da carnevale, nero, sugli occhi (venuto fuori da chissà quale valigia, ricordo di spensierati tempi mondani). Il vecchio diplomatico ebbe una lunga malattia delle vie respiratorie e parve davvero, certe sere, doversene tornare al Creatore. Somi e altri mostrarono i primi sintomi del beri-beri (avitaminosi del segno B), le gambe gonfie, sangue alle gengive, irregolarità di cuore...

Malachite e le piccole non si muovevano più dalla stanza. Dice il diario di Malachite: “10 gennaio, in camera zero gradi. Le bambine orecchioni...” Poi: “19 gennaio, da qualche tempo ogni notte gran sudata, di giorno molto stanca. Fame dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina... Visto dottore, dice che ho kakke (beri-beri) e denutrizione (che scoperta!). Spero si commuoveranno.” Ancora: “20 gennaio, resto a letto per dolori alle gambe, ieri scoraggiatissima. A parecchi arriva roba dalle famiglie, pane (che sofferenza vederlo!)” “24 gennaio, di fronte al muro ho appeso una foto di Villa Valginevra (Sicilia) e una della casa di Firenze, nonché una dell’Etna presa da Taormina: colonne, Grecia, Roma, latinità, Europa, noi.” “28 gennaio, a mezzogiorno sentitami male, svenuta al momento di mangiare e presami nausea. Non visto più, mani insensibili, sensazione di non poter respirare e poi gran freddo. Orrore. Mi hanno portata su. Venuto anche Kasuya-san... Come mi secca adesso che mi abbia vista in quello stato. Avrà pensato: ecco una debole donna europea che sviene, che trema, che piange (non potevo fare a meno di emettere qualche singhiozzo) e il debole marito che l’abbraccia, la bacia, le tiene le mani... Mi ha mandato su un uovo e tre mandarini e un po’ di zucchero. Da qualche giorno mi danno sempre qualche mandarino che mi costa tanto mangiare da sola.” “15 febbraio, il tempo passa, la nostra situazione non muta... sto male, sempre più debole. Sono stata alzata quattro giorni, ma una sera di nuovo oppressione, mancanza di respiro e quasi svenuta. Da allora a letto, e se mi alzo per più di dieci minuti sto male. E debolezza. Fame, fame, vuoto, languore; non riesco a pensare ad altro.” “19 febbraio, ha nevicato (zero o al massimo quattro gradi in camera la sera), fa freddo...”

Il cibo era diventato una mania per tutti. Dall’alba alla notte i detenuti erano come dei cani randagi, magri e spelacchiati, che vagano per le strade con gli occhi fuori della testa, lo sguardo da allucinati, in cerca di un’entità inesistente: qualcosa da mangiare. Il cibo era divenuto l’unico argomento di conversazione. Ogni settimana uno del gruppo veniva fuori, a turno, con una nuova invenzione, alla quale tutti poi lavoravano febbrilmente, per riconoscersi infine battuti. Il chimico ebbe l’idea della paglia (ce n’era una discreta quantità intorno al Tempaku); ma come trasformarla? Come liberarla dalla cellulosa? E giù tutti a macinare, a bollire, ad arrostire, di nascostissimo si capisce, come se si fosse trattato di esplosivi.

Clé propose le ghiande, di cui v’era addirittura abbondanza nei boschi vicini. Ma come liberarle dal tannino?

Dopo una gran pioggia vi fu l’episodio dei funghi spuntati tra le erbe. Somi ne mangiò uno dicendo ironicamente: “Se muoio pace, se va bene ci riempiamo lo stomaco...” Ora questi funghi, anche se non erano velenosi, erano potentemente lassativi; a mangiarne uno non succedeva niente, ingoiarne però un piatto strapieno, come fecero avidamente tutti quanti, riuscendo a saziarsi per la prima volta dopo mesi, era come prendere una purga esplosiva!

L’episodio finì, fortunatamente, in ridere. Persino il tetro Kasuya trovò comica la cosa quando – dati gli effetti (diarree disperate) e i colori delle facce – la verità divenne pubblica. Altre avventure del genere finivano invece in lacrime; o in scenate. Ogni sera, pareva impossibile, dopo aver vuotato un misero piatto di riso stracotto, qualcuno si sentiva irresistibilmente attratto sulla via delle memorie, dei sogni a occhi aperti: “Ti ricordi le bistecche dal Troia, eh?”, “O i fagioli all’uccelletto che mi faceva la mamma?” Alla Toscana rispondeva il Piemonte: “Eh già, voi non conoscete la bagna cauda, mia moglie per esempio...” Al che la Sicilia aggiungeva: “Vi lascio tutto per la pasta con le sarde! E poi i cannoli li avete dimenticati?” Questa rassegna peccaminosa e nostalgica si ripeteva ogni giorno, fino al momento in cui qualcuno, più sensibile o più nervoso, si alzava di scatto gridando: “Basta! basta!” e usciva sbattendo la porta. Anche i giochi delle bambine Raimondi avevano come unico mito e tema quello del cibo. Una scatola di colori era servita per dipingere su tanti sassolini le sembianze del pane, delle verdure, della carne, della frutta.

Sotto queste pesanti tensioni piano piano gli animi, le personalità, cominciarono a sfaldarsi, a cedere, ogni notte avevano luogo retrocessioni secolari; una mattina i reclusi si svegliavano longobardi o merovingi, poco dopo sciti e unni, un brutto giorno si riconobbero al livello di Neandertal, per risvegliarsi infine come belve pure e semplici.

Ormai le discussioni si facevano senza peli sulla lingua, privi d’ogni sentimento che non fosse il nudo, crudo, imperioso bisogno di sopravvivere. Tornò per esempio in ballo la questione delle razioni. Teoricamente la comunità avrebbe dovuto ricevere 36,8 go di riso crudo al giorno (oltre sei litri, per seguire le misurazioni giapponesi), quantità che avrebbe permesso di vivere, non diciamo da pascià, ma per lo meno senza provare continui morsi di fame. Invece, per le ruberie occulte degli angiolini i go si erano ridotti regolarmente a 24 – ed è importante sottolineare il “regolarmente”, perché non c’era domenica o altra festa che portasse sollievo, e il triste credito di stomaco e intestini aumentava, fosse pure di poco, ogni giorno.

Poi venne fuori che gli angiolini contavano quattordici adulti, neppure più sedici, come pareva fosse inteso all’inizio; il che voleva dire che la comunità doveva privarsi d’una certa quantità di riso per le porzioni delle tre bambine. Da principio, fin quando i reclusi non erano scesi oltre il Paleolitico, la questione rimase sottintesa e dormiente, ma poi, a furia di miserie e di fame, venne il giorno in cui furono misurate perfino le cucchiaiate di brodaglia, e qualcuno mugugnava: “Non è giusto togliere ai vecchi per dare agli infanti”, oppure: “Che si sacrifichino i genitori...”, o anche: “Tre cucchiaiate sì, ma quattro no.” In realtà era una questione penosa, molto penosa, e impossibile a risolversi; restò infatti come una perenne sorgente di astio e di malintesi tra i membri della tartassata comunità. Con questo non si pensi che il gruppo fosse composto da gente spietata ed egoista; ma ormai era stato raggiunto un livello molto basso in cui tutti, ovunque, in qualsiasi circostanza, avrebbero lottato come bestie per sopravvivere.

“Ci si dovrebbe consolare,” scriveva Malachite nel suo diario, “pensando alle migliaia (o milioni) di persone nel mondo che stanno come noi o molto peggio di noi, ma non si riesce a pensare a niente di consolante, quando si soffrono crampi di stomaco per la fame, e fa male la testa e si vanno a cercare i rifiuti nella cassetta delle immondizie...”

Il caso sfortunato voleva che il terreno vicino al Tempaku non producesse assolutamente nulla (escluse le ghiande e, raramente, i funghi purgativi...); la landa sassosa dei dintorni, anche al di là del filo spinato, nutriva unicamente dei ginepri, una sorta di lecci, dei cespugli spinosi, la flora insomma che un botanico avrebbe subito definita come xerofila (amante dei luoghi aridi).